Come erano belle le mie estati nei favolosi anni ’60

Come erano belle le estati nei favolosi anni ’60.

A ripensarci, quasi ci si commuove: quelli come me, nati all’inizio de decennio, figli del boom economico e di un dopoguerra ancora difficile da dimenticare, figli soprattutto di operai e di impiegati di granzi aziende (un nome a caso a Torino, la FIAT), non avevano poi così tanti mezzi per passare i mesi estivi.

Non c’erano le “estate ragazzi”, qualche (s)fortunato andava in “colonia”, non c’erano social o videogiochi, e finita la scuola (a fine giugno), si passava la maggior parte del tempo in cortile, tra una partita a pallone sull’asfalto, una gara a birille (di vetro) e una battaglia a suon di cartocci (quelli da infilare nella “cerbottana”, in più delle volte ricavata da un pezzo di tubo di plastica, trovato frugando nell’immondizia).

I più fortunati, passavano le vacanze a casa dei nonni, mare o montagna non fa differenza, i meno fortunati qualche domenica in campagna, a fare il picnic, e poi, una settimana, dieci giorni al massimo al mare.

Picnic

La mia famiglia, dedita totalmente al lavoro, dove qualunque cosa era superflua, a parte il televisore, per anni ha passato le domeniche d’estate in campagna, o in (mezza) montagna, pranzando rigorosamente “al sacco” come si direbbe adesso.

Per me erano giornate atroci: avendo il terrore di qualunque tipo di rettile e di qualunque cosa strisciante, passavo la giornata abbarbicato su un plaid steso a terra, col terrore che ci salisse sopra qualche vipera (o qualche biscia, tanto per me era lo stesso).

Giornate interminabili, dove non potevo neanche portare il “mangiadischi”, oggetto tipico degli anni ’60, perché a mio padre non piaceva la musica “moderna” (riferito all’epoca, naturalmente).

Socializzare con altri bambini manco a parlarne: non per spocchia, per carità, ma avevo troppa paura dei “serpenti”, da non riuscire proprio a muovermi.

anni '60 - la fiat 850 di colore bianco
La FIAT 850 vettura cult degli anni ’60

Azzurro

E poi i dieci giorni (massimo) al mare, le “ferie”, destinazione Spotorno. Mezzo di trasporto “FIAT 850”, con la quale percorrere l’autostrada A6 Torino-Savona.

Autostrada che all’epoca era soprannominata “autostrada della morte”: sorpasso alternato, anche nel tratto pericolosissimo tra Montezemolo e Altare, automobili stracariche di persone e di tutto quello che ci si poteva portare dietro (ma ci arriviamo fra poco), nessuna protezione a bordo (le cinture di sicurezza? Gli airbag? All’epoca un’utopia). Risultato: quasi ogni weekend estivo, si registrava un incidente mortale.

Poi la tanto agognata meta: una “pensione”, come si usava dire, spessissimo a gestione famigliare, dove un piano intero (almeno sei camere, per un minimo di 20 persone), aveva il bagno in comune. Si, ragazzi e adolescenti “millenials”, abituati a hotel di lusso e crociere da sogno: bagno in comune. Avete letto bene.

Eppure, si stava benissimo.

Abbronzatissimi

In spiaggia, rigorosamente “libera”, arrivava in lontananza, la musica sparata dagli altoparlanti dei vicini stabilimenti balneari: tra Rocky Roberts e Adriano Celentano, tra Mina e Lucio Battisti, tra Gino Paoli e Edoardo Vianello, cominciavano a prendere corpo i “tormentoni”, che si potevano ascoltare anche la sera, sparati dai vari juke box sulla “passeggiata”.

Osservatore fin dalla tenera età, mi divertivo a guardare quello che succedeva in spiaggia, soprattutto all’ora di pranzo. Dalle varie autovetture, tutte piccole utilitarie dell’epoca, usciva di tutto: tavoli, sedie, ombrelloni, asciugamani, salvagenti gonfiabili (e non), materassini, e naturalmente ogni sorta di cibo.

La pappa col pomodoro

A mezzogiorno in punto, tavolate di 15-20 persone, sotto un sole rovente, che si strafocavano l’inverosimile, per poi buttarsi immediatamente a “prendere il sole” senza alcuna precauzione.

Naturalmente, per i più piccoli, era proibito fare il bagno “se non passavano almeno tre, quattro ore, dopo aver mangiato”: in buona sostanza, come sottolinea Andrea Pucci in uno dei suoi monologhi più divertenti, noi bambini il mare, lo vedevamo ben poco.

Eppure, si era felici ugualmente: bastava una gara a biglie (di plastica), dove la “pista” era disegnata col culo del più piccolo, tirato per le gambe.

anni 60 .una vespa blu parcheggiata davanti alla spiaggia, sullo sfondo il mare
Il simbolo delle estati anni ’60: la Vespa

Stessa spiaggia, stesso mare

Cinquant’anni dopo, più o meno sulla stessa spiaggia, mi ritrovo a passeggiare sul bagnasciuga, a osservare la gente (non ho perso l’abitudine), e ad accorgermi che è cambiato ben poco.

Certo, i ragazzini non giocano più sulla sabbia, sono troppo impegnati con gli smartphone, e la musica sparata dal chioschetto è quasi solo reggaeton. Ma è all’ora di pranzo che il tempo sembra essersi fermato.

Adesso ci sono le station wagon a fagocitare tavoli, sedie e borse frigo, ma il momento del pasto, è sempre un qualcosa di sacro, tramandato di generazione in generazione.

Come il venditore di “cocco bello”, ormai diventato per la nostra mania di essere esterofili: “tropical fruit manager on the beach”.

Melanzane alla parmigiana, insalata di pasta, pasta al forno (i più attrezzati, si portano il fuoco da campo), frutta fresca e macedonia, birrette come se piovesse, e poi, tutti a prendere il sole.

Ho sentito una mamma dire al gagnetto: “Il bagno lo fai tra tre, quattro ore. Prima devi digerire”. Mi sono commosso.

La casa degli italiani

Sempre passeggiando sul bagnasciuga, mi sono imbattuto in due chicche, che voglio condividere con voi.

La prima: un ombrellone (originale), di una nota casa di gelati (per intenderci, quelli che le aziende regalano ai bar, per farsi pubblicità), che mi chiedo come cazzo sia finito in mano a quella famiglia e su quella spiaggia.

La seconda: un signore, sicuramente over 70, giovanotto negli anni ’60, che scartava dal cellophane un ombrellone praticamente intonso, con l’involucro protettivo tenuto insieme da del nastro adesivo col marchio della “Standa”. Si, proprio la casa degli italiani, azienda che, dopo svariate vicissitudini, anche berlusconiane, ha chiuso i battenti nel 2002.

Quell’ombrellone, avrà quasi la mia età: si porta bene i suoi anni.

Viva le vacanze al mare, viva gli italiani. Prima o poi vedrò qualcuno ancora con “l’autoradio sempre nella mano destra”. Ne sono sicuro.

Lele Boccardo
Lele Boccardo
(a.k.a. Giovanni Delbosco) Direttore Responsabile. Critico musicale, opinionista sportivo, pioniere delle radio “libere” torinesi. Autore del romanzo “Un futuro da scrivere insieme” e del thriller “Il rullante insanguinato”. Dice di sè: “Il mio cuore batte a tempo di musica, ma non è un battito normale, è un battito animale. Stare seduto dietro una Ludwig, o in sella alla mia Harley Davidson, non fa differenza, l’importante è che ci sia del ritmo: una cassa, dei piatti, un rullante o un bicilindrico, per me sono la stessa cosa. Un martello pneumatico in quattro: i tempi di un motore che diventano un beat costante. Naturalmente a tinte granata”.