Masterclass: Pasquale Maria Morgante, il Pianoforte Contemporaneo tra Jazz, Elettronica e Pop Visionario
Pasquale Maria Morgante, pianista, compositore e docente, è una figura centrale della didattica musicale Bolognese. Autore di numerosi saggi e manuali musicali, ha collaborato con artisti come Paolo Fresu, Furio Di Castri, Hiram Bullock, Samuele Bersani, Gianni Togni, Loretta Goggi e Massimo Ranieri. Ha diretto l’Orchestra Sinfonica Nazionale di Praga per il musical Poveri ma belli.
Impegnato in progetti che spaziano dalla musica classica al jazz, al pop, Morgante – primo musicologo italiano ad aver studiato i Ghetto Swingers di Terezín – si racconta in una rara e intensa intervista con l’autore Gae Capitano, tra musica, memoria e ricerca storica.
Una piccola Parigi e il concerto
Il centro di Torino ha quella grazia discreta che ricorda una piccola Parigi.
I portici – sequenze austere di archi – disegnano traiettorie di luce e d’ombra, mentre le facciate nobili delle case sembrano attendere la sera, evocando le suggestioni letterarie di alcune pagine de L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón.
C’è una calma elegante, come se il tempo avesse scelto di rallentare. Ho dovuto parcheggiare un po’ lontano e cammino per le vie del centro. Attraverso il Quartiere Ebraico, immerso in un’atmosfera sospesa, dove passato e presente si intrecciano senza fretta, lasciando spazio solo al passo e al silenzio del traffico sommesso della sera.
Sono qui per un concerto. Di quelli che si aspettano come si aspetta un vecchio amico: uno che non vedi da un po’, ma che conosci da sempre.
A invitarmi, un maestro che è da sempre un riferimento silenzioso nel mio percorso d’autore. Un grande maestro di musica, sì, ma anche di stile, di misura, di quella bellezza che non ha bisogno di ostentazioni.
E mentre cammino, sento che qualcosa si accorda. Un ritmo lento, nascosto tra i passi. Probabilmente è la certezza che tra poco avrò il piacere di ascoltare nuovamente qualcosa di speciale, qualcosa che per me resta inarrivabile: un incontro con un talento e una tecnica fuori dal comune.
Incrocio i tram che passano come sospiri metallici su corso Vittorio Emanuele II, cammino lungo via Mazzini, supero l’angolo della sinagoga. C’è un chiosco all’incrocio con via Carlo Alberto che ricorda davvero la parigina Rue des Barres, vicino alla chiesa di Saint-Gervais-Saint-Protais. Un chiosco che un tempo era un fioraio e oggi è un piccolo e caratteristico bar alla moda. Che accoglie i turisti che proseguono verso via Accademia delle Scienze, richiamati dal fascino misterioso del Museo Egizio.
Conservatorio Giuseppe Verdi
Pochi passi e Piazza Bodoni si apre davanti a me: risplende con la sua calma armoniosa e ordinata. Un respiro ampio nel cuore della città, dove il cielo improvvisamente appare tra i palazzi come una benedizione.
In fondo alla piazza il conservatorio Giuseppe Verdi. Un luogo che custodisce i sogni e le amicizie della mia adolescenza. Ogni suono lì non è solo musica, ma memoria viva di un tempo che ha plasmato chi sono. Di giorno, le aule vibrano di suoni: frammenti di scale, arcate imperfette, fiati che cercano intonazione.
Siamo poco lontani da via Luigi Lagrange, matematico. Forse per ricordarci, pitagoricamente, che la musica – prima ancora di toccare il cuore – abita il mistero dei numeri, delle proporzioni, dell’armonia nascosta dell’universo.
E qui, la musica, sembra materia viva, parte integrante di questa signorile dimora, tanto essenziale quanto la calce e i mattoni che ne reggono le mura. Il palazzo, costruito nel 1886, non ostenta, ma impone rispetto. Le sue finestre alte, i timpani decorati, i volumi regolari raccontano la cultura musicale, profonda e radicata, di una Torino sempre all’avanguardia sulla scena musicale italiana.
Quartetto Zeta
Varco le tre arcate signorili dell’ingresso. L’interno della sala – con la sua cupola che ricorda una basilica o un planetario – riceve il pubblico con solennità: il legno scuro, il velluto dei sedili, il peso della storia che si respira. I volti sono composti, gli sguardi già rivolti al palco. È un pubblico attento, abituato ai concerti.
Mi accomodo lentamente, lasciando che l’attenzione prenda forma. La memoria prende il sopravvento e si rimette a camminare tra luoghi familiari: tornano alla mente amici, compagni di scuola, e qualche sguardo incrociato che aveva lasciato il segno, più di quanto allora si volesse ammettere. Quei corridoio, quel palco, sono anche un po’ la mia storia.
Stasera, però, c’è un silenzio diverso: non quello di chi studia o si esibisce, ma di chi si prepara ad ascoltare. Le luci e il brusio del pubblico si abbassano. Un applauso irrompe nel teatro quando i musicisti entrano sul palco. Lo spettacolo ha inizio.
Il Quartetto Zeta, si presenta come una formazione raffinata e affiatata.
Giannicola Spezzigu al contrabbasso, Stefano Peretto alla batteria e percussioni, Stefano Melloni al sax e flauti.
Al pianoforte l’ospite di questa puntata di Masterclass – la rubrica di Zetatielle Magazine dedicata alle eccellenze della musica Italiana- il Maestro Pasquale Morgante.
Il repertorio, sorprendente e originale, rilegge grandi successi della musica italiana in una chiave jazz sottile, giocosa e imprevedibile, e ruba con leggerezza la prima parte del concerto. Dai classici senza tempo a interpretazioni meno note, la loro musica crea un ponte tra memoria e invenzione. Ogni brano è un piccolo corto circuito che invita a sorridere, a restare sorpresi, a seguire con attenzione un gioco musicale dove nulla è scontato e tutto è frutto di intelligenza artistica e libertà interpretativa.
A metà concerto, il Quartetto Zeta si ritira senza fretta, lasciando il palco al pianoforte a coda, illuminato come unico protagonista.
Dal lato della scena emerge, questa volta, solo la figura di Pasquale Morgante, accolto da un applauso misurato. Il maestro si siede, e per un istante lascia le mani sospese sopra i tasti, come se stesse ascoltando un suono ancora intrappolato nell’aria. L’atmosfera muta, si raccoglie in un’intimità silenziosa, quasi rarefatta. Il silenzio si fa sostanza, come un velo sottile che avvolge ogni cosa.
Chiudo gli occhi e attendo la prima nota. Perché è questo l’istante che aspettavo: quello in cui la bellezza – quella autentica, pura, senza artifici, che sfugge alle parole – si rivela.
In questo nuovo mondo sonoro, popolato da intelligenze artificiali capaci di orchestrare canzoni in pochi secondi – come catene di montaggio di un McDonald’s musicale – è sempre più necessario tornare all’origine dell’emozione.
E solo un pianoforte – guidato da chi ne conosce il mistero – può farla emergere con tale limpidezza e profondità.


Una suite di brani per solo pianoforte
Le prime note riempiono lo spazio del teatro.
Il primo accordo di The Sheltering Sky di Ryuichi Sakamoto, scivola via come un respiro trattenuto troppo a lungo.
È un pianoforte che non cerca applausi, ma apre porte segrete: la memoria di un vento che ha accarezzato deserti, la nostalgia di una pelle che non toccheremo più. Sakamoto non si suona: si evoca. E il Maestro lo sa. Per questo non lo interpreta, lo custodisce. Quel brano si fa sabbia interiore. Che scivola, brucia, resta.
Poi arriva Hieroglyphics di Franco Piersanti, e tutto muta in un attimo.
Le note si trasformano in incisioni antiche, alfabeti perduti, piccole reliquie sonore. Morgante diventa archeologo dell’anima, decifra emozioni nascoste, come se ogni tasto fosse una pietra da sollevare per scoprire cosa pulsa sotto. Le dita scorrono con apparente semplicità, ma la musica che attraversa la sala smuove corde profonde, invisibili, anche per chi, come me, vive il pianoforte ogni giorno come una parte del proprio lavoro di autore.
Infine, dopo l’ennesimo applauso e un momento di sospensione, arriva Mad World nella versione malinconica e struggente di Gary Jules.
Il mondo impazzito, certo. Ma Morgante non lo urla: lo culla. Il brano scivola come una ninna nanna, e proprio per questo restituirne la profondità è una sfida ancora più complessa. Perché nei tempi lenti tutto si espone: l’articolazione, la precisione dell’attacco, il controllo della dinamica. Non ci si può nascondere dietro al virtuosismo. È lì che emerge la qualità del tocco, la capacità di tenere la tensione anche quando le note sembrano non muoversi. Un’armonia che si doma come un cavallo tenuto alle redini, pronto a scartare all’improvviso.
Quando gli applausi si spengono, resto lì, sospeso tra la realtà e qualcosa di più raro: la consapevolezza di aver vissuto un viaggio.
Pasquale Morgante. Il pensiero di Gae Capitano
Un viaggio. Questo dovrebbe essere il fine ultimo di una canzone.
Il pianoforte è uno strumento magnifico come mezzo per muovere l’anima verso terreni musicali. E c’è una soglia sottile, eppure decisiva, tra chi suona e chi racconta.
E in quella zona franca dove il pianoforte si fa racconto, e la narrazione prende corpo nella materia sonora, credo si muova con passo naturale Morgante.
Musicista, docente, intellettuale del suono. Il suo è un percorso che sconfina, con elegante misura, dalla tecnica all’immaginazione, dallo spartito alla parola.
Morgante non è semplicemente un pianista.
È uno di quei rari interpreti che, pur rispettando la gravità della tradizione accademica, sanno infondervi uno storytelling narrativo moderno, una tensione che porta l’ascolto oltre la forma.
Docente al Conservatorio di Bologna e alla DAMS Musica dello stesso Ateneo, è figura di riferimento in quell’incrocio sempre più raro fra rigore accademico e libertà creativa.
Il suo insegnamento non separa, ma unisce: la musica classica come fondamento, il jazz come lingua dell’imprevisto, l’elettronica come orizzonte delle possibilità.
La sua carriera, disseminata di collaborazioni prestigiose – da Lucio Dalla a Massimo Ranieri, da Loretta Goggi a Samuele Bersani, da Gianni Togni a Virginia Raffaele – testimonia una versatilità mai confusa con l’eclettismo.
Morgante non cambia pelle. Semmai svela l’arte camaleontica del divenire per un istante altro.
In ogni progetto porta la stessa cifra: attenzione filologica, senso del suono, minuziosità dei dettagli, e una capacità rara di far vibrare le note di significati nascosti. Come nella suite di brani straordinari che ha presentato al concerto.
Quando accompagna un artista, un attore, un cantautore, un personaggio televisivo, non è mai mero esecutore. È artefice del contesto emotivo. Il suo tocco costruisce atmosfera, allude a significati, predispone l’anima al senso. È il pianista che diventa narratore invisibile, custode delle pause, scultore del silenzio.
C’è in lui un modus che continua a sorprendermi. Quando uso il pianoforte per il mio lavoro di autore, mi sembra di parlare una lingua elementare, come se avessi in mano un dizionario tascabile. Nelle sue mani, invece, tutto cambia: è come se attingesse alla Biblioteca di Babele di Borges – infinita, vertiginosa, colma di significati nascosti. Anni di studio, certo, ma anche una sensibilità senza confini mentali.
A tutto questo si aggiunge un tratto umano che lascia il segno, forse più delle note.
Una modestia autentica, lontana da ogni posa, e una cordialità semplice che hanno sempre fatto di lui una figura amata, anche dietro le quinte, tra colleghi e professori d’orchestra, nelle sue esperienze da musicista e direttore.
Un tratto raro, che sembra provenire dalla stessa sorgente della musica che insegna e interpreta: una bellezza che, invece di porsi sopra gli altri, si fa parte integrante di un’anima bella.
Ed è forse in questo dettaglio che il Maestro Morgante ci ricorda, con discrezione, che l’eleganza del suono è anche un modo di stare al mondo.


Pasquale Morgante. La biografia
Pasquale Maria Morgante è un pianista, compositore e docente italiano.
Nato a Reggio Calabria il 31 maggio 1965, ha sviluppato la sua attività principalmente a Bologna. La sua carriera abbraccia generi diversi, dal jazz alla musica elettronica, dal pop alla musica classica, con un forte impegno nella ricerca storica e nella didattica musicale.
Diplomatosi nel 1989 presso il Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna in Pianoforte, Musica Elettronica e Musica Jazz, ha conseguito l’anno successivo la laurea in Discipline della Musica, iniziando subito una collaborazione pluriennale con l’Università di Bologna. Insieme al professor Giampiero Cane ha tenuto corsi, seminari ed esami sulla storia e l’analisi della musica afroamericana, in particolare nel contesto del DAMS.
Morgante ha collaborato con artisti di rilievo nel panorama jazz e pop italiano e internazionale, tra cui Furio Di Castri, Paolo Fresu, Hiram Bullock, Tomaso Lama, Pietro Condorelli, Samuele Bersani, Gianni Togni, Claudio Lolli, Massimo Ranieri, Alan Sorrenti e Loretta Goggi. Ha inoltre scritto gli arrangiamenti per il musical “Poveri ma belli”, prodotto dal Teatro Sistina & Titanus, dirigendone l’esecuzione con l’Orchestra Sinfonica Nazionale di Praga.
Come compositore ha pubblicato opere originali come “Quattro pezzi per pianoforte su basso ostinato” e “Tre frammenti per saxofono e orchestra” (Isuku Verlag, Monaco, 2013-14), “Tre arrangiamenti per piccolo ensemble jazz” (Cerebro Editore, Milano, 2012) e “Manuale di ear training melodico” (CLUEB, Bologna, 2010). Il suo libro “Guida al jazz” (CLUEB, 1993) è stato adottato come testo in diversi conservatori italiani e all’Università di Bologna.
Ghetto Swingers
Morgante è stato il primo musicologo italiano a dedicarsi in modo approfondito ai “Ghetto Swingers”, l’unica formazione jazz attiva nei campi di concentramento di Terezín e Auschwitz. Ha presentato conferenze e concerti in occasione della Giornata della Memoria, tra cui un evento a Palmi nel 2023 intitolato “Il Jazz, musica degenerata, Coco Schumann e i jazzisti nel campo di Terezìn”.
Attualmente insegna Composizione Jazz presso il Conservatorio “F. E. Dall’Abaco” di Verona. Continua a esibirsi come pianista solista e in formazioni come il “Quartetto Z” e lo “Slang Trio”. Nel suo programma “Pop per piano”, rielabora brani del repertorio pop e cantautorale italiano e internazionale, proponendo versioni inedite e improvvisate.
L’intervista di Masterclass
Credo che in ogni mestiere, e ancor più in quello dell’artista, sia essenziale incontrare chi sappia riconoscere le tue potenzialità ancor prima che tu abbia avuto modo di mostrarle al mondo.
Ricordo con profonda gratitudine il primo incontro con il maestro Morgante, uno dei primi grandi professionisti che mi disse: «Mi piace il tuo modo di scrivere. Quando avrai bisogno di un provino al pianoforte per un’occasione importante, io ci sono.»
Sono state poche le volte in cui ho avuto bisogno di quel supporto, ma ogni volta che ho bussato alla sua porta, il maestro ha donato performance al pianoforte che sfioravano il sublime, sospese tra classicità, jazz e contemporaneità.
Penso in particolare al 2019, quando un brano scritto per una grande interprete venne selezionato dallo staff di Amadeus per Sanremo: nelle sue mani, quel pezzo si è trasformato in un autentico capolavoro.
Ogni volta che ci incontriamo, il maestro mi regala quella frase che ha il sapore di una promessa: «Se hai bisogno, per qualunque progetto, basta che mi chiami.»
Data la levatura del maestro, è in quelle parole, semplici ma cariche di passione, che rinnovo la mia ammirazione per chi vive questo mestiere con autentico amore.
I Primi Passi
Tu sei un musicista che ha esplorato molte sfaccettature del pianoforte. Da dove sei partito?
«Ho iniziato da bambino, quasi per caso, con il pianoforte classico.
Avevo sette anni e la mia prima insegnante fu una paziente di mio padre, medico. Era figlia di un direttore d’orchestra, appassionata di musica.
Il suo approccio non era accademico in senso stretto, perciò mi trovai a dover memorizzare tutto. E, inconsapevolmente, questa necessità affinò nel tempo il mio orecchio assoluto.
Lo strumento mi affascinava e mi sentivo portato, così proseguii gli studi al Conservatorio di Vibo Valentia.»
Quando ti sei avvicinato al jazz?
«Intorno ai diciassette anni. In edicola uscì una collana intitolata I giganti del Jazz, e il primo volume su Louis Armstrong mi folgorò.
Un mio amico di allora mi parlò di un corso sperimentale di jazz. Ma per accedere serviva un diploma di un altro strumento.
Così completai i dieci anni di pianoforte classico. Poi mi trasferii a Bologna per iscrivermi al DAMS, che in quegli anni era l’unica università a offrire un percorso dedicato al jazz.»
E l’incontro con la musica elettronica?
«Leggevo gli articoli di Gianfelice Fugazza, ecclettico musicista fondatore di “Strumenti Musicali”, la rivista più autorevole sulla musica elettronica. Così mi iscrissi anche a quel corso, in parallelo agli studi di jazz.
Il primo anno fu straniante: la musica concreta – nata in Francia negli anni ’40 con Pierre Schaeffer, che utilizza suoni registrati, non necessariamente musicali, manipolati elettronicamente – appariva assolutamente astratta. Ci volle tempo per capire che invece aveva una sua logica ferrea, anche se non immediata.
E per complicarmi la vita mi iscrissi anche a Composizione classica. Arrivando fino al settimo anno, sulla soglia della dodecafonia.
Fu un percorso che mi permise di usare strumenti allora pionieristici: Polysynth, Polimoog, batterie elettroniche, sequencer, campionatori ante litteram.»
Un percorso di studi davvero impegnativo. Lo rifaresti?
«Sì, Anche se oggi, col senno di poi, riconosco di aver sacrificato una certa leggerezza. Pensa: tre lezioni a settimana da bambino, liceo classico, pianoforte, università. Latino, greco, e almeno otto “mezz’ore” di studio al giorno, come diceva la mia insegnante.»


Samuele Bersani & Lucio Dalla
Una conoscenza poliedrica che ti ha portato a lavorare sul palco e nei dischi di artisti raffinati e moderni. Come Samuele Bersani.
«Senza dubbio, questa mia conoscenza del pianoforte, che si colloca tra classicità e innovazione, mi ha offerto l’opportunità di collaborare con artisti di alto calibro, come Samuele.
In quella occasione, il lavoro della band fu seguito con grande attenzione da Beppe D’Onghia, un maestro che vanta collaborazioni con nomi illustri quali Lucio Dalla, Morandi, Antonacci, Carboni, Mango, Zarrillo, Vecchioni e De Gregori.
Perfezionista esigente, curava ogni minimo dettaglio, soprattutto con me, condividendo la comune sensibilità di pianista.»
Bersani è un’eccellenza autorale, per chi scrive come me.
«Samuele ha un talento immenso e una capacità rara di evolversi.
Pensa alla distanza stilistica tra Chicco & Spillo e Giudizi Universali, Lo Scrutatore non votante, Replay. La sua scrittura mi ricorda quella di Nino Rota: molto cromatica, ricca di passaggi per semitoni.
Ma, mentre dal lato autorale è geniale e imprevedibile, è anche un artista molto rigoroso sugli arrangiamenti. Nei suoi concerti, alla fine, la nostra missione era riprodurre fedelmente le parti presenti nei dischi, e non sperimentare.»
Emozione & Sperimentazione
Che cos’è per te la sperimentazione?
«È avere la possibilità di creare qualcosa di nuovo.
Ricordo con affetto il progetto con Claudio Lolli, dove curai arrangiamenti innovativi: un mambo con cori femminili, un brano voce e chitarra jazz, tecniche di programmazione con synth analogici e loop che sarebbero diventati mainstream solo anni dopo.
Tutto grazie alla sua visione e alla libertà che mi concesse.»
Ti ho ascoltato in concerto più volte, e mi ha sempre colpito la componente emotiva del tuo tocco, che va oltre la tecnica pura.
«Le tue parole mi fanno piacere.
Ritengo che lo studio sia stata la solida base su cui ho potuto sviluppare una sensibilità capace di superare l’aspetto puramente tecnico. Trasformando la disciplina in un linguaggio emotivo più profondo.
La tecnica rappresenta un fondamento imprescindibile, ma il vero obiettivo è elevarsi oltre lo spartito.
Non è un risultato scontato. E sapere che questo intento può arrivare a chi ascolta è per me la conferma più preziosa.»
Cosa è cambiato, secondo te, tra i musicisti di ieri e quelli di oggi?
«Una volta l’istinto e il rigore coesistevano.
Mozart, Beethoven, Vivaldi improvvisavano e poi trascrivevano. Anche nei concerti dell’Ottocento era previsto uno spazio d’improvvisazione per il solista.
Oggi chi suona esegue cadenze scritte da altri. La spontaneità si è separata dalla disciplina, divisa tra jazz e classica.
Io ho sempre cercato di abitare entrambi i mondi: l’istintivo e il teorico.»


L’orchestra Sinfonica Nazionale di Praga
Tra le tue esperienze anche la direzione d’orchestra.
«Per il musical Poveri ma belli, con liriche di Gianni Togni, coreografie di Franco Miseria, regia di Massimo Ranieri. Ho diretto l’Orchestra Sinfonica Nazionale di Praga.»
Eri già preparato per quel ruolo?
«Assolutamente no. Accettai per entusiasmo.
Poi realizzai che avrei diretto sessanta professori d’orchestra rinomati: sezioni di archi, fiati, ottoni, e altri strumenti come percussioni, arpa. Una follia.»
So che sei un perfezionista. Come affrontasti l’impegno?
«Studiai il manuale di orchestrazione di Landriscina, un supporto pratico allo studio della direzione, adottato in diversi conservatori italiani, e presi lezioni da tre direttori famosi.
Mi gettai – come mio solito – anima e corpo nel progetto.»
Esiste un segreto per dirigere bene?
«Beppe D’Onghia, uno degli insegnanti che avevo scelto per quel progetto, mi disse: “Dirigi come se avessi le mani dentro a un acquario.”»
Una frase curiosa. Perché?
«È una questione di precisione del gesto.
Esprime l’intenzione di mettere perfettamente a fuoco il messaggio che deve arrivare agli esecutori, con la giusta lentezza, dinamica.
Nella musica classica devi anticipare di un ottavo, per dare il tempo d’interiorizzare l’attacco agli esecutori dell’orchestra.
Serve uno sforzo mentale enorme: devi pensare la musica con un leggero anticipo rispetto a quando accade.»
Ricordi il tuo primo incontro con l’Orchestra di Praga?
«Salii sul podio emozionatissimo.
I maestri erano eccezionali. Alla seconda lettura il brano era già pronto per essere inciso. Quando dissi loro che era la mia prima direzione – e di chiamarmi Pasquale e non maestro – mi accolsero con un applauso.
Credo abbiano percepito la mia inesperienza, ma anche la mia sincera passione.»
C’è stato qualcosa che ti ha colto impreparato, nonostante gli studi?
«L’arpa.
Non sapevo che per modulare tra tonalità diverse, l’arpista ha bisogno di tempo per cambiare i pedali. Lo scoprii in prova. Nei manuali non se ne parlava e non capitò di affrontare l’argomento con i miei maestri durante la mia preparazione.
Dovemmo registrare separatamente le parti d’arpa. Per poi sovrapporle all’incisione dell’orchestra.»
Il ruolo del direttore d’orchestra oggi è molto visibile a Sanremo. Che ne pensi?
«È una situazione totalmente diversa.
C’è il click in cuffia, i tempi televisivi, arrangiamenti già definiti. Il direttore cambia a ogni brano e la sua figura è più istituzionale, legata a mode e partnership, che incisiva sul risultato finale dell’orchestra.
Che è, praticamente, autonoma».
Oggi rifaresti quell’esperienza di direzione?
«Credo di no.
Ma allora sentii il dovere di rispettare chi aveva creduto in me, Gianni Togni su tutti. C’era una penale da 120.000 euro se non avessimo consegnato tutto nei tempi.
Gestii un’agenda di registrazioni serratissima.»
Con la tua immensa esperienza accademica, riesci a riconoscere il talento in un allievo?
«No.
In tutta sincerità, ho visto ragazzi che sembravano persi sbocciare improvvisamente al terzo anno. Professionisti che oggi interpello se ho bisogno di consigli particolari per qualche arrangiamento.
È un mistero. Che funziona anche al contrario: chi parte brillante, a volte si blocca nel tempo.»
Come sono cambiate le prospettive per chi studia musica oggi?
«Il nostro mestiere si è evoluto. O involuto, a seconda della prospettiva in cui si guarda.
Una volta bastava la bravura. Oggi serve essere versatili, avere relazioni, un’immagine, una rete di contatti.
La sola tecnica non basta più. Occorre essere in grado di muoversi in un ecosistema complesso.»


Progetti
Nella tua carriera di pianista e arrangiatore hai collaborato con moltissimi artisti.
«Ho iniziato con un gruppo vocale che si esibiva nelle trasmissioni di Gianfranco Funari.
Allo stesso tempo, con una piccola formazione, accompagnavamo in tournée una ensemble di ragazze, Le Compilation, famose negli anni 80 perché presenti nel cast di “Domenica In”.
Poi arrivò una bellissima esperienza con una produzione di Lucio Dalla: Robert & Cara, con testi di Luca Carboni, arrangiamenti di Roberto Costa e un packaging discografico di alto profilo.
Da lì il passo successivo fu Samuele Bersani, che in quel momento era appena stato preso sotto l’ala produttiva di Dalla.
Negli anni sono seguite collaborazioni con Il Parto delle Nuvole Pesanti, Claudio Lolli, Alan Sorrenti, Hiram Bullock, Furio Di Castri, Umberto Fiorentino, Pietro Condorelli, Gianni Togni, Massimo Ranieri.»
Ti sei dedicato anche a progetti molto innovativi, spesso legati alla ricerca musicale. Ce ne racconti qualcuno?
«Sì, ho avuto innanzi tutto la fortuna di curare diverse pubblicazioni editoriali in ambito accademico e jazzistico.
Tra i progetti musicali più significativi c’è Slang Trio, ispirato alla scuola di Lennie Tristano, con una formazione essenziale ma originale: rhodes, contrabbasso e batteria.
E la rivisitazione del repertorio de I Ghetto Swingers, una formazione jazz nata nei lager di Terezín-Auschwitz: un’esperienza umana e musicale di enorme valore, che ho voluto approfondire e far conoscere.»
Tra le tue esperienze più pionieristiche c’è anche il Quartetto Zeta. Come nasce e che spirito ha?
«Il Quartetto Z è un progetto nato dal desiderio di rileggere la canzone italiana in modo imprevedibile, affiancato da amici e musicisti straordinari. Abbiamo scelto di rivestire grandi classici con sonorità jazz, affidandoci alla sensibilità e al talento di interpreti di altissimo livello.
Con me suonano Giannicola Spezzigu al contrabbasso, Stefano Peretto alla batteria e percussioni, Stefano Melloni al sax e flauti.
Nel tempo abbiamo avuto contaminazioni vocali di grandissima qualità: Barbara Cola, Silvia Donati, Luisa Cottifogli.
Un progetto immortalato anche in due dischi
Nel nostro primo disco, intitolato semplicemente Volume 1, hanno partecipato Claudio Lolli, Silvia Mezzanotte, Andrea Mirò, Iskra Menarini, Gianni Togni, Mircomenna, Franz Campi. Nel secondo album abbiamo avuto il privilegio di collaborare con Cesária Évora e Gianni Morandi.
Poi, col tempo, in vari concerti, sul palco ci hanno accompagnato anche eccellenze come Carlo Marrale, co-fondatore dei Matia Bazar, e Ambra Bianchi, flautista, cantante e jazzista. È un progetto in continua evoluzione, che ci diverte e ci arricchisce ogni volta.»
Quanta bellezza. Sono eccellenze del mondo della musica, ognuna con la sua personalità sonora
«Sono stati incontri veri, profondi, spesso umanamente intensi, oltre che musicali.»
Dal Jazz al pop. Con “Pop per piano”
«“Pop per piano” nasce dal desiderio di restituire al pianoforte un ruolo narrativo anche nei territori del pop, spesso dominati da arrangiamenti elettronici o orchestrali.
Ho scelto brani come – Ma il cielo è sempre più blu, La canzone di Marinella, The Scientist, Imagine, Una carezza in un pugno, Sei nell’anima, Brutta, Attenti al lupo, C’era un ragazzo, Vecchio frak, 4 marzo 1943, Una città per cantare, Spaccacuore – perché ognuno di essi, spogliato e ricreato al pianoforte, rivela una nudità poetica che spesso passa inosservata. È un progetto che unisce nostalgia e sperimentazione, dove le melodie diventano confessioni sonore, intime, senza tempo».
Una filosofia artistica ben riconoscibile. Come nel format originale che hai dedicato ai Queen
«Con la splendida voce di Sara D’Angelo, abbiamo dato vita a “2 for Queen”, un progetto che propone una lettura cameristica del repertorio dei Queen.
Lo abbiamo fatto a modo nostro, mettendo in primo piano timbro, dinamica e interpretazione. Abbiamo curato quei dettagli spesso trascurati nelle versioni pop più immediate: corone, rallentando, sostenuti – tutti elementi che appartengono alla scrittura autentica di quelle canzoni straordinarie. Un viaggio di scoperta attraverso i dettagli di brani che hanno fatto la storia della musica.
La vera novità, però, è stata affidare l’eredità vocale di Freddie Mercury a una voce femminile, Una prospettiva nuova, che ha sorpreso e conquistato il pubblico»
Loretta Goggi & Virginia Raffaele
Hai diretto anche l’orchestra nei live di Loretta Goggi.
«Un altro progetto molto bello. Loretta è una professionista straordinaria.
Pensa che la prima volta che arrivò sul palco, volle conoscere i nomi di tutti i musicisti e immediatamente li ripeté uno a uno senza sbagliare.
Un gesto potente, umano. Il biglietto da visita di una professionalità e una forza della natura.»
Hai incontrato altri artisti con talenti fuori dal comune?
«Virginia Raffaele.
Lavoravo in suo progetto come pianista per accompagnarla nei cambi di personaggio.
Un giorno, in Grecia, un imprevisto ci costrinse a cambiare la scaletta poco prima dello spettacolo. Scrisse in pochi minuti un nuovo monologo in camerino. Decise in modo preciso i miei interventi musicali.
E, straordinariamente, lo recitò in scena come fosse stato provato da mesi. Un vulcano.»


Claudio Baglioni
Un artista pop italiano che ammiri?
«Ho sempre avuto una profonda ammirazione per Claudio Baglioni.
Ho avuto la fortuna di suonare con lui in occasione di O’ Scià, il festival musicale e culturale che si svolgeva a Lampedusa, ideato proprio da Baglioni per sensibilizzare sul tema dell’immigrazione e della convivenza tra i popoli del Mediterraneo.
O’ Scià non era solo un festival. Era un evento umano e artistico. Su quel palco, sono passati Andrea Bocelli, Elisa, Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia, Ligabue, Ivano Fossati, Renato Zero, Giorgia, Jovanotti, Mango, Franco Battiato.
E persino Mina, che intervenne con un video.
Claudio è un artista immenso. Oltre all’indiscutibile talento autorale, è un musicista raffinato, capace di passare dal pianoforte alla chitarra con una naturalezza impressionante e una grande tecnica.»
Sfondi una porta aperta… “Avrai” è una delle mie canzoni preferite da sempre
«Un brano stupendo, in cui archi e melodia convivono in una fusione perfetta.
Aspetto con grande curiosità l’uscita del nuovo rifacimento dell’album La vita è adesso.
Ogni volta che Baglioni rielabora qualcosa di suo, accade una magia.»
Un innovatore assoluto della forma canzone, insieme a Dalla e Fossati.
«Assolutamente.
Dalla, Fossati e Baglioni hanno rivoluzionato, come pochi, il modo di scrivere canzoni.
Hanno infranto le regole, ma senza mai rinunciare all’eleganza e al senso del bello.
La loro grandezza è stata quella di cambiare strada senza perdere la direzione. Di sorprendere l’ascoltatore aprendo varchi dove prima c’erano muri.»
Hai avuto l’occasione di confrontarti con lui su qualche aspetto musicale?
«In realtà no.
Quando lo incontrai, il mio senso di ammirazione era così forte che finimmo per parlare d’altro: il mare, il tempo, il senso dello spettacolo.
Ricordo però la sua intelligenza luminosa, la sensibilità, la disponibilità. È uno di quegli incontri che restano.»
Un’anima così profonda deve anche essere molto complessa
«Tra i miei amici ho la fortuna di avere musicisti che lavorano con lui, come Paolo Gianoglio e Mario Guarini, con cui ho condiviso il palco ai tempi di Bersani.
Amo ascoltare i loro racconti che riguardano il grande lavoro dietro le quinte che Baglioni dedica continuamente ai suoi pezzi, fattore che svela una forte personalità.
Che lo porta a far evolvere continuamente le strutture armoniche delle sue canzoni.»
Esiste l’aneddoto simpatico in cui si racconta fu sgridato da una fans non giovanissima ad un concerto, per questo motivo. Gli rimproverò che le canzoni non solo sue ma di tutti quelli che le amano. E che vogliono ascoltarle così come le hanno conosciute
Un’osservazione interessante.
Credo che ciò avvenga in alcuni grandi artisti, che ne sono capaci, perché hanno bisogno di stimoli costanti.
Devono tenere accesa la fiamma della curiosità. E rifiutarsi di replicare ciò che hanno già fatto è anche un modo per non annoiarsi.»
Fabrizio De André & Ivano Fossati
A volte, però, trovare il giusto vestito sonoro per una canzone non è semplice
«Verissimo. A questo proposito condivido con te una esperienza.
Un giorno, mentre lavoravamo con Celso Valli a un arrangiamento per Samuele Bersani, seppi che poco distante, in una chiesa sconsacrata a Longiano, stavano facendo le prove Ivano Fossati e Fabrizio De André.
Il nostro manager dell’epoca riuscì a farmi entrare più volte in quel luogo prosaicamente sacro, Santa Maria delle Lacrime, che ospitava un momento storico della musica italiana.
Ricordo il silenzio, la concentrazione, la vibrazione degli strumenti. Tutto era magico, sospeso.»
Erano le prove per “Anime Salve”, il loro capolavoro condiviso
«Esatto.
Oltre a Ivano e Fabrizio, era presente una band composta da eccellenze italiane:
Ellade Bandini alla batteria, Luigi Faggi Grigioni alla tromba, Mario Arcari ai fiati, Chicco Gussoni e Giorgio Cordini alle chitarre, Roberto Colombo alla direzione musicale, Stefano Melone al pianoforte, Lele Melotti alle percussioni, Pier Michelatti al basso.
Assistevo ogni volta in religioso silenzio, cercando di rendermi invisibile.
E un giorno li sentii discutere sull’arrangiamento de La mia banda suona il rock. Nessuna delle soluzioni proposte funzionava. Non trovavano l’anima giusta per rappresentare questo brano, scritto per Loredana Bertè e poi interpretato dallo stesso Fossati.
Un brano rock, solo apparentemente semplice: scanzonato, irriverente, energico. Una fotografia disincantata della fine degli anni settanta. E del lavoro dei musicisti professionisti: erranti, visionari, appassionati, ma anche disillusi e pratici.
Alla fine, presero una decisione sorprendente: niente band, solo Fossati al pianoforte e alla voce.
Una scelta inaspettata. Perché se per qualche motivo l’arrangiamento non restituisce la verità del brano, anche di fronte a musicisti di immensa levatura, allora è meglio fare un passo indietro.
Cercare l’essenza. Tornare all’origine.»
Ho avuto l’onore di conoscere Celso Valli per le selezioni dei brani dell’album Mina-Celentano. Un vero mito.
«Lo è per molti di noi.
Ricordo quando gli raccontai proprio quell’episodio su Fossati e De Andrè. Celso mi guardò e, con la sua solita lucidità, mi disse:
“Pasquale, aggiungi pure tutto ciò che vuoi in un arrangiamento. Ma arriverà un momento in cui ti stancherai. E allora tornerai alla forma essenziale della canzone. E quella sarà quella giusta.”
È una lezione – sono lezioni – che porto con me da sempre. L’essenza non è povertà: è purezza.»


Oggi
C’è una parte di te che oggi desidera esplorare qualcosa di completamente diverso?
«Assolutamente sì.
Mi trovo in una fase in cui la parola “ricerca” è diventata il centro del mio percorso. Sento il bisogno di portare il mio bagaglio musicale in territori nuovi, contaminandolo con altre forme espressive: il teatro, la scrittura, il cinema.
Mi affascina capire come la musica si evolve nei contesti storici, come dialoga con il tempo. Gli ultimi progetti che ho seguito si muovono proprio in questa direzione.
In fondo, sono un’anima curiosa. Non so mai davvero quale sarà il prossimo progetto che mi catturerà. Ma se c’è un filo rosso che attraversa tutto, è l’idea della musica come ponte: tra linguaggi, tra mondi, tra persone.»
Se potessi tornare all’inizio del tuo percorso, cosa diresti al te stesso adolescente che studiava pianoforte otto mezz’ore al giorno?
«Gli direi di uscire di più.
Di respirare il mondo anche fuori dallo spartito, perché la musica vera nasce dal rumore delle strade, dalle attese ai semafori, da un amore sbagliato.
Gli direi di prendersi un po’ meno sul serio. Che la perfezione è un’illusione affascinante, sì, ma è nell’imperfezione che vibra la verità di una melodia – come insegnava Morricone.
Che la serietà è una virtù, ma senza ironia e un filo di disincanto, rischia di diventare una gabbia.
E soprattutto, gli direi di fidarsi del tempo.
Di continuare a mettersi in gioco, certo, ma senza temere se qualcosa tarda ad arrivare. Perché, se qualcosa deve accadere, accade comunque. Quando è il momento.»


E c’è un momento, a volte, in cui il mondo sembra rallentare: accade quando un pianoforte inizia a parlare. Perché, in fondo, è questo che fa: non si limita a suonare, ma racconta.
La capacità di emozionarsi all’ascolto di un brano per pianoforte non è un lusso da intenditori, né un talento da educare: è una fragilità splendida che ci appartiene per natura. Anche chi non conosce la musica, anche chi non sa distinguere un Do maggiore da un Fa minore, riconosce quel brivido lieve che attraversa la pelle quando le note si appoggiano sull’anima come pioggia gentile su un vetro.
C’è qualcosa nel suono del pianoforte – forse la sua nudità, la sua chiarezza, la verità con cui vibra – capace di colpirci. E non importa il nome del compositore o la tecnica dell’esecutore: ciò che conta è quella crepa che si apre, piccola e luminosa, in chi ascolta.
Siamo tutti, chi più chi meno, capaci di emozionarci così. Perché la musica – quella vera, quella nuda, quella che arriva senza chiedere permesso – non ha bisogno di essere capita: vuole solo essere sentita.
E il pianoforte, con la sua voce discreta ma inesorabile, ci ricorda che il sentire è ancora possibile. In particolare quando dietro a quello strumento esistono anime capaci di farlo vibrare. In linguaggi diversi: dal Jazz al Pop alla classica.
Un gesto antico. E forse, oggi più che mai, necessario.
Grazie, maestro Morgante, per essere la voce che tiene vivo questo dialogo.
Potete seguire il Maestro Pasquale Morgante su: Facebook.
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