Angelo Anastasio: autore, chitarrista, arrangiatore e produttore, è la firma musicale del brano “Vivere” interpretato da Andrea Bocelli e Gerardina Trovato, incluso nell’album Romanza, che ha superato i 20 milioni di copie vendute nel mondo, diventando il disco italiano più famoso e diffuso di sempre. Il brano è stato recentemente protagonista con Laura Pausini in occasione dei 30 anni di carriera di Bocelli. Nel corso della sua carriera ha collaborato con artisti come Eros Ramazzotti, Paola Turci, Michele Zarrillo e Franco Califano, ha calcato il palco di Sanremo con Gerardina Trovato, lavorato alle colonne sonore dei film di Lillo e Greg ed è oggi chitarrista della storica Formula 3 legata al mito Mogol-Battisti.


Mogol e Battisti: l’alchimia irripetibile tra parola e suono
Ci sono incontri che cambiano il corso della storia.
Non perché le intenzioni dei protagonisti fossero necessariamente grandiose, ma perché dal loro convergere si è sprigionata una scintilla che ha incendiato un’epoca e, silenziosamente, continua a bruciare sotto la pelle di chi ascolta.
Mogol e Lucio Battisti: due nomi che, uniti, smettono di essere biografie singole e diventano formula magica, alchimia sonora, un’opera a due mani che non ha semplicemente accompagnato un’epoca, ma l’ha scolpita.
Lucio Battisti, genio imperscrutabile, trovava melodie che diventavano strade verso l’anima, percorribili da milioni di ascoltatori. Mogol, con la sua scrittura limpida e visionaria, costruiva testi come gioielli, in cui ogni parola era incastonata con cura.
Battisti apriva varchi, tracciava ponti tra realtà e immaginazione. Aveva il dono raro di trasformare un accordo in un mondo, di edificare paesaggi emotivi dove la voce, non quella di un virtuoso ma di un uomo che cantava come parlava, sembrava la più sincera delle rivelazioni. Se Battisti era il viaggio, Mogol creava la bussola.
E quelle canzoni non sono mai invecchiate: respirano ancora oggi, perché trattano sentimenti universali come nostalgia, amore, speranza e perdita.
La magia della memoria e l’alchimia dell’incontro
Una canzone, se ci pensiamo, è un oggetto fragile.
Bastano tre minuti, una manciata di accordi, poche frasi. Eppure, se quella fragilità è percorsa dalla magia della creazione, resiste al tempo meglio della pietra. È un manufatto che non si consuma, ma si rigenera ogni volta che qualcuno la canta o la ascolta. Ogni canzone è anche una macchina del tempo.
Le parole di Mogol unite ai suoni di Battisti aprono porte segrete nella memoria.
“E penso a te” non si ascolta soltanto: si rivive.
È questa la funzione più alta della musica, permettere a ciascuno di riscrivere la propria storia dentro una melodia. La vera alchimia, però, non si riduce mai alla somma delle parti. Insieme, Mogol e Battisti producevano una terza dimensione, che apparteneva agli ascoltatori.
Titoli come “Emozioni”, “Il mio canto libero”, “Acqua azzurra, acqua chiara” o “Pensieri e parole” non sono soltanto canzoni, ma istantanee di vita, reliquie di un’Italia che imparava a raccontarsi attraverso la musica.
Ogni brano era un talismano: un oggetto che trasporta altrove, trasformando la canzone in epica quotidiana.
Il loro incontro è stato un momento magico per la musica italiana. Un atto unico, un incontro irripetibile di tempi e sensibilità.
Nessuno dei due da solo avrebbe generato lo stesso incanto: insieme hanno dimostrato che la canzone può essere più di una somma, può essere un dono.
Lucio Battisti, Mogol e la Formula 3
Tra il 1969 e il 1971 nasce un altro incontro irripetibile: quello con la Formula 3, composta da Alberto Radius alla chitarra, Gabriele Lorenzi alle tastiere e Tony Cicco alla batteria e voce.
Questa formazione portò nei brani di Battisti solidità tecnica e una precisa impronta sonora. Non si limitava ad accompagnare: dialogava con la voce e la scrittura, arricchendo le canzoni di energia e dinamiche inedite.
Non fu soltanto la band che accompagnava Battisti nei rari concerti, ma anche interprete di brani scritti appositamente da Mogol e Battisti come “Questo folle sentimento” ed “Eppur mi son scordato di te”. La Numero Uno, etichetta fondata nel 1969, diede ulteriore impulso a questa collaborazione, aprendo una nuova fase della musica italiana.
Gli arrangiamenti della Formula 3 si distinguevano per potenza e raffinatezza: Tony Cicco con una batteria dinamica e incisiva, Alberto Radius capace di alternare riff energici e arpeggi delicati, Gabriele Lorenzi con l’uso di organo Hammond, pianoforte elettrico e sintetizzatori che arricchivano la tessitura armonica. Era un suono pieno, avvolgente, capace di esaltare la voce di Battisti senza sovrastarla.
Una fusione tra la canzone d’autore e la forza di un ensemble rock che ha scritto pagine uniche della musica italiana.
Angelo Anastasio, la chitarra tra passato e futuro
Su Masterclass, la rubrica di Zetatielle Magazine dedicata alle eccellenze della musica italiana, abbiamo il piacere di ospitare il Maestro Angelo Anastasio.
La storia e il talento di Angelo Anastasio sono un sottile filo rosso che lega alcuni dei momenti più alti della musica italiana, e che -oggi- fonde la sua storia anche con l’eredità di Lucio Battisti & Mogol.
Perché ci sono musicisti che passano inosservati e altri che diventano fili invisibili di una trama più grande. E nel caso del nostro ospite i suoi innumerevoli talenti di musicista, arrangiatore, chitarrista, produttore, front man hanno dato vita a dei momenti unici.
Angelo chitarrista e compositore, inizia giovanissimo a calcare i palchi professionali, collaborando con artisti come Michele Zarrillo, Paola Turci, Eros Ramazzotti e Gerardina Trovato, con cui firmò il celebre brano “Vivere”, oggi reinterpretato da Andrea Bocelli e Laura Pausini.
Negli anni Anastasio ha esplorato ruoli e generi diversi, dal pop al rock, da Eros Ramazzotti a Franco Califano, dalla fusion al jazz, fino al cinema con colonne sonore riconoscibili per il suo tocco personale.
Oggi la sua storia si intreccia con quella della Formula 3. E inevitabilmente con quella di Battisti e Mogol.
Anastasio ha raccolto l’eredità del compianto Alberto Radius diventando il nuovo chitarrista della band. Accanto a Tony Cicco, porta in scena quel repertorio che ha fatto epoca, aggiungendo sensibilità e freschezza, senza cadere nella nostalgia.
È l’immagine di un musicista che, con discrezione e talento, ha scritto pagine importanti della musica italiana, offrendo oggi la sua chitarra come ponte tra memoria e futuro.


Masterclass: l’intervista
L’appuntamento con Angelo Anastasio, maestro ed amico, è un incontro con la storia e con quella parte segreta della musica che continua a scorrere anche quando le luci del palco si spengono.
Nel mio percorso di autore ho avuto il privilegio di conoscere Giulio Rapetti, Mogol, di restare incantato – come tutti noi – dall’alchimia irripetibile che lui e Lucio Battisti hanno saputo scolpire nel cuore di un’epoca.
E oggi, parlando con Angelo, ci siamo ritrovati a riscoprire la stessa magia: non quella che si consuma in un applauso, ma quella che resta, che diventa parte della memoria collettiva.
Per me lui è l’autore di “Vivere”, una canzone senza tempo, una di quelle che chiunque autore avrebbe voluto scrivere. Ascoltandola, si sente il brivido segreto di quelle opere d’arte che devono la loro bellezza ad un equilibrio perfetto e naturale: un opera che sembra nascere non da un mestiere, ma da un mistero.
Naturalmente Vivere è soltanto la punta dell’iceberg della sua produzione come autore. Come arrangiatore e musicista ha intrecciato la sua arte con Eros Ramazzotti, Franco Califano e Paola Turci, lasciando in ogni collaborazione un’impronta discreta ma inconfondibile.
Anastasio è un grande chitarrista, un autore raffinato, ma soprattutto un eterno Peter Pan.
La sua ironia, la sua visione lucida e la sua acutezza si fondono con un carattere schietto e libero, che non teme di esporsi quando si tratta di raccontare verità scomode. Perennemente in viaggio dentro a nuovi progetti, custodisce quella leggerezza rara che distingue chi resta fedele a sé stesso.
Angelo continua a suonare e a scrivere con la stessa libertà di sempre, ricordandoci che la musica è, prima di tutto, un modo di vivere.
I tuoi primi passi nella musica?
«Una storia originale. Ho iniziato a suonare a quattordici anni e, dopo appena due mesi, ero già sui palchi professionali grazie a un cugino di mia madre, musicista di professione. Passai dalla musica da ballo alla sinfonica con gli archi, tutto a orecchio, senza alcuna conoscenza teorica. Fortunatamente, i fiati dell’orchestra erano professori di conservatorio: mia sorella li convinse a farmi da maestri, anche se si trattò di una scuola on the road, tra prove e pause, perché suonavamo ovunque e di continuo.
Ricordo ancora la prima sera: suonai e il capo orchestra venne a pagarmi. Rimasi stupito. Per me la musica era solo divertimento, non immaginavo potesse essere un lavoro. Da quel momento iniziai a considerarla una professione.»
Un piccolo genio. Hai altri talenti?
«Non molti altri. Suono la chitarra, sono un buon vignettista e so cucinare bene. Fino ai diciannove anni ero anche un ottimo portiere di calcio, mi chiamavano “Saracinesca”. Poi ho lasciato tutto per la musica.
Sono un perfezionista: preferisco fare poche cose, ma al massimo livello possibile.»
Come definiresti il tuo genere musicale?
«Mi sento un rockettaro, ma sono cresciuto ascoltando la musica napoletana colta, e amo anche la musica classica. Non amo le etichette: il termine “rock” non definisce uno stile preciso, è un modo di pensare.
Anche il termine “chitarrista” mi va stretto. Suono la chitarra perché è lo strumento con cui riesco a esprimermi al meglio, ma scrivo con una mentalità pianistico-compositiva. Se ascolti Vivere, trovi strutture proprie del pianoforte. Per me, la chitarra è solo un mezzo per raccontare.»
Rimani, a tutti gli effetti, un chitarrista colto e sorprendentemente versatile.
«Non mi interessa l’autocompiacimento tecnico. Come strumentista mi pongo al servizio del messaggio sonoro che l’artista, o il progetto, vuole trasmettere. Senza essere protagonista.
La chitarra è un ponte tra pensiero e suono. Anche ogni assolo che eseguo nasce pensando alla voce, come se le note che suono fossero cantate. Anche Santana suonava immaginando il violino di suo padre. Il genere conta poco: è il modo in cui ti esprimi che fa la differenza.»
Ricordi la tua prima strumentazione?
«Una Gibson “diavoletto” e un piccolo amplificatore Marshall, regalo di mio padre. Amavo Santana e quel suono puro. Niente effetti. Ho avuto anch’io il periodo delle “scatolette”, ma oggi le uso pochissimo: solo se la chitarra deve ricoprire più ruoli, armonici o solistici.»
Quale strumentazione usi sul palco?
«La mia chitarra principale è una Paul Reed Smith, PRS, Custom Shop. Ho anche una Fender Stratocaster americana con pickup modificati. La PRS soddisfa quasi ogni mio desiderio sonoro. Non uso più amplificatori: i multi effetti digitali, che inizialmente non amavo, sono diventati molto affidabili e credibili. Uso un Mooer di fascia media.
Non sono un effettista: ho pochi suoni, ma precisi. I miei riferimenti -Clapton, Santana, Hendrix, Brian May – sono famosi per i loro suoni essenziali, grezzi, non troppo elaborati.»
Quando inizia la tua esperienza nel mondo discografico?
«Con Michele Zarrillo, a diciassette anni. A Salerno, dove vivevo, c’era una buona fama musicale e molti turnisti lavoravano in tutta Italia. Era il periodo di Una rosa blu, e il sound era molto elegante. Lavorai con lui per molte date: una grande palestra.»


Salire sul palco con i grandi è fondamentale per un giovane musicista?
«Assolutamente. Dopo Zarrillo, incontrai Sandrino Rocchetti. Con lui e suo fratello Alberto Rocchetti – che poi sarebbe diventato il tastierista di Vasco – ho fatto sei anni di concerti, una vera scuola.»
Santino Rocchetti, un talento forse sottovalutato?
«Un artista cosmopolita e straordinario. Negli anni ’60, ad Amburgo, c’era un locale dove suonavano i Beatles ogni sera, alternandosi proprio con l’orchestra di Santino. Una volta mi mandò un pezzo country molto difficile, dicendomi che quella registrazione gliel’aveva fatta George Harrison. Brividi.
Santino mi parlava spesso della grande cultura musicale italiana che aveva Paul McCartney. Una cosa rara per un giovane di Liverpool. Per me è stato maestro, amico, fratello. Tutto ciò che so lo devo a lui: come stare sul palco, come porsi davanti al pubblico. »
Poi arriva l’incontro con Bobby Solo e qualcosa cambia nella tua vita.
«Dopo una breve parentesi con Paola Turci, scelsi Bobby: un periodo d’oro, con quattro anni pieni di concerti. Una svolta anche personale: tra le coriste c’era Teresa Maione, cantante che aveva precedentemente lavorato nella band di Michele Pecora. Molto bella e molto brava. Diventò mia moglie. L’altra corista? Gerardina Trovato.»
L’incontro con Gerardina Trovato: una svolta per la musica italiana.
«Oggi i fatti parlano da soli, ma il nostro primo incontro fu tutt’altro che facile: Gerardina era un’artista sicura di sé, con un’identità molto forte, e non voleva certo restare relegata al ruolo di corista. Io ero il capo band e faticavo a tenerla a freno.
A un certo punto mi propose di scrivere insieme. Io venivo da un mondo strumentale, la fusion, lontanissimo dal pop, e lei aveva un modo di comporre tutto suo, fuori dagli schemi. Fu mia moglie a intuire il potenziale: “Siete due outsider -mi disse – dovete provare a collaborare”.
Così registrammo decine di brani, voce e chitarra, su cassette. Un amico di famiglia ne fece ascoltare una a Caterina Caselli. Poco dopo mi arrivò la sua chiamata: mi volle a Milano. Firmai contratti senza nemmeno leggerli, con la Caselli ci si poteva fidare.
Mi diede carta bianca per la scelta dei musicisti: chiamai i migliori tra i miei amici, tutti professionisti di livello. Ne venne fuori una band raffinatissima. Seppi di Sanremo dal telegiornale: chiamai Gerardina e lei – con la sua immancabile lucidità narcisistica – mi disse solo “Te l’avevo detto che avremmo fatto grandi cose”. Il resto lo conosci, hai collaborato con lei.»
Che ricordi hai di Gerardina?
«Intensi, belli e difficili. Era un’artista straordinaria, con una produzione anni ’90 tra le più alte del cantautorato italiano. Aveva una grinta unica e un carattere molto particolare.
Un giorno incontrai Claudio Baglioni. Mi disse: “So chi sei, sei il chitarrista della Trovato. È la più grande cantautrice donna italiana”. Detto da un gigante come lui, non c’è molto da aggiungere.»
Quando interrompeste la collaborazione?
«Presi una pausa per il tour di Eros Ramazzotti. Era un’occasione unica: affrontare palchi internazionali che ancora mi mancavano.»
Eros: come hai affrontato una sfida così alta?
«Chiamai subito Alberto Rocchetti per un consiglio. Lui mi disse: “Vai alle prove, accorda la chitarra e poi non suonare. Suona solo quando suona la band. Sei una cellula, non un protagonista”.
I musicisti erano straordinari: il batterista aveva suonato con Paul McCartney, Tina Turner, Eric Clapton… Ma noi italiani siamo molto più versatili. E a distanza di anni, Eros mi disse che ero stato uno dei suoi migliori chitarristi. Un grande onore, considerato che aveva lavorato con Phil Palmer. Un regalo da parte di Eros che conservo con affetto.»
Dopo Eros?
«Avrei dovuto partecipare alla storica tournée con Pino Daniele, Jovanotti ed Eros. Ma tornai con Gerardina: la Caselli aveva grandi progetti, e io ero coinvolto anche come autore.»
Un grande autore. “Vivere” è una delle canzoni più amate della musica italiana. Com’è nata?
«Era appena mancato Freddie Mercury. Pensando alla sua voce immensa, presi la chitarra. Premuto “rec” cantai la melodia. In due minuti il brano era finito. Riascoltai, e rimasi colpito. La feci ascoltare a Gerardina al telefono. Alla fine non rispose: stava piangendo.»


Come arrivò al grande pubblico?
«Pippo Baudo, quando l’ascoltò, la volle subito per Sanremo. Sembrava già il massimo dei risultati. Ma durante un tour di Zucchero, dove Gerardina e un giovane Andrea Bocelli aprivano i concerti, la Caselli venne in camerino e mi disse: “Vivere la faranno Gerardina e Andrea in duetto”. Io ero in preda al panico. L’idea di perdere Sanremo e affidarla ad un Bocelli non ancora famoso non mi convincevano. Temevo di “bruciarla”.
A un mese dall’uscita avevamo già superato i dieci milioni di copie vendute. Mi inchinai, ancora una volta, alla visione della Caselli.»
Il grande Pippo Nazionale, che ci ha lasciato in questi giorni. Che ricordo hai di lui?
«Pippo Baudo è stato uno dei più grandi professionisti della musica italiana, e questo credo sia chiaro anche a chi non è del mestiere. Aveva una sensibilità musicale colta, unita alla capacità rara di intercettare i gusti del pubblico.
Quando scelse per primo Vivere a Sanremo, dimostrò un intuito da vero discografico. È naturale che, ricoprendo un ruolo di grande potere decisionale, non tutte le sue scelte abbiano incontrato il consenso di tutti. Oggi leggo qualche polemica. Ma basta pensare al peso enorme di stabilire chi entra e chi viene scartato, una scelta che ogni direttore tecnico deve sostenere, tra logiche di raccomandazioni, pensiero, mode.»
Ciò che di importante resta, per me, è il ricordo di un professionista che metteva sempre la musica al centro.»
Pippo & Gerardina, come erano tra di loro?
«Pippo e Gerardina erano due forze della natura: quando si incontravano, era sempre uno scontro tra titani. Ricordo ancora quella volta che Baudo la chiamò per uno speciale su Battisti e lei, con disarmante naturalezza, gli rispose che era al cinema e non poteva parlare. Io ero lì accanto e non sapevo se ridere, piangere o semplicemente disperarmi.»
Il tuo ricordo con Gerardina più emozionante di quel periodo?
«Un concerto del 1992 in Belgio, per il trattato di Maastricht. 700.000 persone. Palchi costruiti sopra i canali. L’orchestra era quella che aveva arrangiato Paul Simon. Quando iniziammo Vivere, tutto il pubblico cantava il brano. In olandese, come lo conosceva per una versione pubblicata lì. Ho rischiato di svenire. Un’esperienza fuori dal tempo.»
Hai collaborato anche con Franco Califano
«Un altro artista incredibile. Ho arrangiato tutto il brano Un tempo piccolo e partecipato all’album Non escludo il ritorno del 2005.
Califano non seguiva regole: si affidava all’istinto. Se qualcosa gli piaceva, la difendeva, anche se tecnicamente imperfetta. Lavorava con il cuore, non con la logica. Preferiva una cena tra amici o una chiacchierata intelligente a una sessione in studio. La musica, per lui, era la fotografia di un attimo. È questo che lo rende ancora oggi una figura unica, con un’eredità sonora autentica.
L’album fu realizzato da due team diversi: io curai la mia parte con Fabio Torregrossa, arrangiatore che ha collaborato con nomi come Sergio Cammariere, Alex Britti, Fred Bongusto, Tiromancino e molti altri.»
Hai condiviso il tuo percorso anche con Celso Valli, anche lui scomparso da poco.
«Una perdita enorme, sotto il profilo tecnico e umano. Celso era un uomo di rara onestà intellettuale.
Mi raccontava che, quando lavorò a Oltre di Claudio Baglioni, si trovò davanti a una squadra di musicisti incredibili e decise semplicemente di lasciarli suonare. Poi aggiunse il suo tocco, ovviamente.
Anche con me si comportava così: mentre registravo, usciva a prendere un caffè. Poi tornava, ascoltava tutto e selezionava le take migliori. Insieme abbiamo scritto Elisa, presente nel secondo album di Gerardina Trovato. Un piccolo gioiello.
Abbiamo composto molto insieme. Era simpatico, umile, si emozionava per davvero. Quando arrangiammo Vivere, era imbarazzato perché io ero l’autore. Diceva che provava pudore a lavorare con chi aveva scritto una musica così bella. Una persona davvero rara.
Ci fu un momento in cui mi chiese di lavorare in pianta stabile in studio con lui. Ma fu difficile combinare per le difficoltà logistiche. E oggi quell’invito mi lega ancora di più al suo ricordo»
Hai partecipato a progetti per il cinema: colonne sonore, giusto?
«Sì. Ho suonato in tutti i primi film di Lillo & Greg. In Natale col Boss suonavo durante le scene, e non riuscivamo a smettere di ridere.
La produzione musicale era affidata ad Attilio Di Giovanni, collaboratore di Renzo Arbore, grande maestro. Con lui abbiamo anche lavorato alla colonna sonora del film Dark, una produzione americana-giapponese.»


Oggi sei il chitarrista della Formula 3: con quale approccio vivi questo ruolo?
«Sono un musicista al servizio della musica e delle parole che hanno fatto la storia del gruppo. Parliamo delle firme di Mogol e Battisti, e serve rispetto assoluto.»
Come nasce il tuo ingresso nella band?
«Devi sapere che da ragazzino avevo due poster sopra il letto: Jimi Hendrix e la Formula 3. Intorno ai venticinque anni, trasferitomi da Salerno a Roma, mi contattò Tony Cicco. Abitava poco lontano, aveva sentito parlare di me e mi invitò a prendere un caffè per parlare di musica.
Iniziammo a collaborare. Quando la Formula 3 si divise in due formazioni (quella di Cicco e quella di Radius), io suonai con la prima. Alla morte di Radius, nel 2023 ho ereditato con grande onore il suo ruolo. Da allora esiste una sola Formula 3 ufficiale, guidata da Tony Cicco.»
Come ti sei rapportato, da chitarrista, all’eredità di Alberto Radius?
«Radius era un maestro nell’arrangiare: mescolava power chord, incastri e tecniche non accademiche per creare trame sonore potenti e originali. Ho mantenuto molto del suo stile.
Ma nei soli, ho fatto una scelta precisa: non suono né quello che faceva lui, né qualcosa di studiato a tavolino. Preferisco andare a istinto, sera dopo sera, lasciandomi guidare dall’emozione del momento. L’arrangiamento è sacro, certo, ma l’improvvisazione resta la mia voce più autentica.»
Parlando di Battisti e Mogol, “sacralità” è una parola che torna.
«Il novanta per cento del nostro repertorio è composto dai brani storici di Battisti e Mogol, veri capolavori della canzone italiana. Eppur mi son scordato di te, Questo folle sentimento, Mi ritorni in mente… ogni volta che li suono scopro qualcosa di nuovo. Sono composizioni geniali e senza tempo.»
Siete solo in tre: come gestite l’aspetto sonoro senza basi o sequenze?
«Suoniamo completamente live, senza basi e senza click. Alla vecchia maniera. Siamo in tre ma con l’impatto sonoro di una big band.
Ciro Di Bitonto, Il tastierista -nipote di Tony Cicco- è un polistrumentista: con la mano sinistra suona una tastiera collegata a un amplificatore per basso, sostituendo il bassista. Con la destra si occupa di tutte le armonie di base, lasciando a me gli abbellimenti e gli assoli.
Siamo una formazione molto equilibrata: Tony è la figura storica, la voce e il portavoce dell’identità della band. Ciro è tecnico e rigoroso. Io sono il “tamarro”, la cellula rock, quello che si muove sul palco, che improvvisa, che si diverte. Faccio anche qualche numero pirotecnico alla chitarra, pur non essendo nella mia natura. Ma il pubblico ama anche questo.»
Una carriera così ricca e completa. Hai ancora sogni nel cassetto?
«Non voglio sembrare presuntuoso, ma credo che la vera musica sia diversa da quella che oggi domina la scena. Come produttore ho visto la musica fermarsi con Vasco Rossi. Dopo di lui, poco di davvero rilevante.
Ho sempre prodotto ispirandomi ai grandi: Elton John, i Beatles… e per questo motivo ho fatto un passo indietro, smettendo di occuparmi di produzione attiva.
Oggi mi dedico con più attenzione all’insegnamento. E le colonne sonore mi hanno regalato soddisfazioni: potrei tornare a occuparmene con entusiasmo.»
La collaborazione tra Lucio Battisti, Mogol e la Formula 3 resta uno dei capitoli più fondamentali della musica italiana.
L’incontro tra la scrittura raffinata di Mogol, le melodie magiche e sorprendenti di Battisti e la precisione tecnica della Formula 3 ha generato opere che il tempo non ha scalfito, opere che continuano a vivere, ad essere amate e studiate. Riascoltandole oggi, si percepisce ancora quella freschezza sottile, quell’armonia segreta di talento, rispetto e affinità che le ha fatte nascere.
E dietro le quinte rimangono i professionisti che trasformano idee in canzoni e emozioni in suoni. Angelo Anastasio è uno di loro: una corrente sotterranea, invisibile eppure percepibile, perché tutto vibra leggermente diverso al suo passaggio. La sua scrittura cammina sul confine tra intuizione e destino, e la sua chitarra non è solo strumento, ma voce capace di unire storia e generazioni.
Per questo, ancora oggi, Anastasio resta un filo invisibile sospeso tra memoria e futuro, custode di alcuni dei capitoli più alti e memorabili della musica italiana. La Formula 3 ne rappresenta oggi -solo- l’ultima, vibrante testimonianza.
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