Il fantasma della sconfitta e il peso di chi deve giudicare

Hai mai perso quando pensavi di meritare di vincere? Quella sensazione che ti spacca in due, quando il tuo nome non viene chiamato e ti chiedi se il tuo talento sia reale o solo un’illusione. Come giudice di uno dei concorsi più importanti d’Italia, ho guardato recentemente negli occhi centinaia di artisti meravigliosi e sconfitti. Ho visto quella miscela di amarezza, delusione e incredulità. La verità brutale è questa: fortuna, caso e talento danzano insieme in un equilibrio fragile che non possiamo controllare. Van Gogh vendette un solo quadro in vita. Melville morì dimenticato. Stravinskij fu fischiato. Ogni artista deve convivere con dei fantasmi per tutta l’esistenza. Questa è la lettera che ho scritto per tutti gli sconfitti.

Fare il giudice è una cosa strana. Ti siedi dall’altra parte del tavolo e improvvisamente i sogni degli altri ti passano tra le dita.

È successo recentemente, in uno dei concorsi più importanti degli ultimi anni, dedicato a una delle più grandi showgirl italiane di sempre. Centinaia di artisti da tutta Italia e dall’estero, mesi di selezioni, semifinali, finali. E io lì, nel mezzo, a sfiorare qualcosa di fragile e prezioso di cui conosco perfettamente il peso e il valore.

Porto con me la gioia dei vincitori, certo. Ma soprattutto la tristezza degli sconfitti. Quella miscela di amarezza e incredulità, di presunzione ferita o ingenuità tradita che ho letto nei loro occhi quando i nomi chiamati non erano i loro. Quel modo di guardarti come se avessi rubato loro qualcosa che gli apparteneva di diritto.

I fantasmi che abitano ogni artista

La mia filosofia personale è che chiunque voglia essere artista deve convivere per tutta l’esistenza con alcuni fantasmi.

Questi fantasmi hanno nomi che conosciamo. Uno dei più inquietanti non ha il volto spettrale delle apparizioni gotiche. È discreto, quasi educato. Bussa alla porta nel momento meno atteso e si accomoda senza chiedere permesso.

Si chiama Sconfitta.

Chi ha seguito qualcuna delle mie Masterclass dedicate agli autori e agli artisti in generale, sa che affronto anche il tema della sconfitta: perché conoscere il proprio nemico – come affermava Sun Tzu ne L’arte della guerra, nel 250 a.C. – è una strategia che ci protegge, immagina altri finali, non lascia spazio alle sorprese.

Perché la questione non è se lo incontreremo, quel fantasma. Sarebbe ingenuo pensarlo. La questione è: quando, e soprattutto, come ci troverà.

Fortuna, caso e talento

Lo spettro della sconfitta è solo uno dei fantasmi con cui un artista si dovrà confrontare per tutto il suo percorso.

Per esempio, ai fantasmi della fortuna, del caso e del talento è affidato il fragile equilibrio di quella cosa che chiamiamo successo.

Che non è un punto del percorso a cui possiamo puntare, ma piuttosto un luogo in cui si giunge per vie misteriose, quasi sempre immeritate. Non basta essere bravi. E non credete a chi vi dice il contrario.

La fortuna è cieca. Per me anche un po’ stronza. Non la possiamo controllare. Il caso è l’anagramma del caos. Imprevedibile per definizione. Il talento – nutrito dal lavoro ostinato – è l’unico che ci appartiene davvero. O almeno così pensiamo.

Perché in realtà il talento è il più subdolo dei fantasmi.

È quello con cui abbiamo più confidenza, quello che crediamo di conoscere. Ci svegliamo con lui, ci addormentiamo con lui, gli parliamo nei momenti di dubbio. E sarà proprio lui, quando torneremo a casa sconfitti da un concorso, da un’audizione, da una prova, a farci la domanda più terribile: “Ma il tuo talento è vero o è solo una tua illusione?”

Perché se la risposta è no, allora tutto quello che hai fatto, tutto quello in cui hai creduto, era una bugia che hai raccontato a te stesso.

E se la risposta è sì, allora il mondo è ingiusto.

In entrambi i casi, perdi.

il fantasma della sconfitta - gae capitano in primo piano
Il fantasma della sconfitta e il peso di chi deve giudicare

Quando questi tre fantasmi – la fortuna, il caso e il talento – convergono, evocano il quarto: il successo. Il più desiderato, il più seducente tra gli spettri. Un illusionista che conosce a memoria le corde intime di ogni artista, e sa quali toccare.

Appariranno mai tutti insieme? Non lo sappiamo. Ma il lavoro di un artista è prepararsi per tutta la vita a quel possibile istante.

Il peso di chi deve giudicare

Esiste un altro fantasma. È quello che accompagna chi deve giudicare.

Perché mentre gli artisti combattono per emergere, tu sei seduto dall’altra parte del tavolo con una responsabilità che pesa come il piombo: decidere. Decidere in una finale chi è il più bravo tra i bravi, chi merita di più tra tanti che meritano tutti.

E l’unica bussola che hai, in questi casi – l’unica che vale davvero – è l’onestà.

Non l’onestà facile, quella che si accontenta di dire la verità. Parlo dell’onestà difficile, quella che deve scegliere tra due verità. Quella che deve guardare un talento vero, ancora acerbo, ancora fragile, e decidere se lanciarlo nel mondo o proteggerlo da esso.

Perché, che vi piaccia o no, il pubblico è cattivo.

È corteggiato da mille voci, mille luci, mille promesse che gli vengono mostrate alla velocità della luce. È esigente e smemorato allo stesso tempo. Perdona poco, dimentica in fretta. Se mandi qualcuno lì fuori prima che sia pronto, non gli dai un’opportunità. Gli dai una condanna.

Quando dire “no” è un atto d’amore

Ho visto tanti artisti bruciati dall’esposizione prematura.

Talenti autentici, fragili come cristalli, gettati in arena senza scudo. Il pubblico li ha divorati in un lampo. Li conoscete: tutti quelli bruciati dai talent, consumati e cancellati nel giro di una manciata di puntate. Vetrine che gli artisti inseguono come scorciatoie, ma sono mulini che macinano senza sosta materia fresca. Alcuni non si sono più risollevati. Altri sono dovuti rinascere dalle macerie.

Perché la fiducia, una volta spezzata dal giudizio del mondo, è difficile da ricostruire.

Allora diventa un atto d’amore dire di no. Diventa protezione dire “non ancora”. Perché preservare un talento significa a volte tenerlo lontano dalla luce, lasciarlo maturare nell’ombra, dargli il tempo di diventare incrollabile.

Ma come lo spieghi a chi ha il cuore che batte a duemila, a chi ha sognato quel momento per anni? Come gli dici che il suo no è un sì travestito? Che la sua sconfitta è una salvezza?

Non puoi. E così diventi anche tu uno sconfitto.

Perché sai che nella loro memoria resterai per sempre quello che ha detto no. Quello che non ha capito. Quello che ha sbagliato.

Eppure è l’unica cosa onesta da fare. È l’unico modo per non tradire né loro né te stesso.

C’è una verità celata: giudicare non è un potere. È una prigionia che ti lega a ogni volto incontrato, a ogni storia, a ogni talento.

I grandi maestri e le loro sconfitte

Melville pubblicò Moby Dick e il mondo gli voltò le spalle. Morì impiegato in una dogana, quasi dimenticato. Van Gogh vendette un solo quadro in vita. Uno solo. Kafka chiese che i suoi manoscritti fossero bruciati e solo grazie alla disobbedienza di Max Brod il mondo oggi conosce uno degli scrittori più importanti del secolo.

Non erano preparati. Credevano che il talento bastasse, che la bellezza si difendesse da sola.

È l’inganno più grande per noi artisti. Se esistesse un girone dell’inferno per chi crede che la propria arte basti per vincere nella vita, avrei già la suite con vista sulle fiamme eterne, prenotata a mio nome.

Prima che qualcuno mi scegliesse per giudicare – un testo, un artista, una canzone, una produzione discografica – sono stato anche io un’anima che ha lasciato nelle mani di uno o più sconosciuti la sua arte. Quel fragile manufatto costruito con lacrime, sudore, sogni. Ricordo il dolore di ogni sconfitta, la delusione di un secondo posto che ho ritenuto ingiusto, il pensiero che avrei meritato di più.

Dopo un po’ impari uno dei segreti fondamentali del vivere da artista: il successo è un algoritmo complesso con un sacco di fattori X, imprevedibili, bizzarri. Molto spesso nemmeno artistici.

L’illusione ottica del successo

E dopo il momento amaro della sconfitta, eccoci. A guardare i vincitori con una reverenza che non meritiamo di provare.

Li fissiamo sul podio al posto nostro e ci sembrano creature eterne, o ladri, già lì da sempre. Gente per cui il successo è stata una linea retta, senza deviazioni. Raccomandati o nati con la camicia come Gastone nei fumetti di Topolino, che non deve far niente per vincere sempre.

Ma è solo prospettiva. Geometria dello sguardo ferito.

Vediamo un istante, una fotografia. Non vediamo il deserto attraversato, le notti insonni, i dubbi che li hanno consumati, le porte chiuse in faccia. Non vediamo che anche loro portano sulle spalle un bagaglio di lacrime identico al nostro.

Per ogni nome che conosciamo esistono centinaia di altri nomi, altri volti, altri talenti. Hanno lottato con la stessa ferocia. Hanno avuto la stessa fame, hanno perso. Non per mancanza di merito.

Hanno perso perché il tempo non era quello giusto, perché il fantasma della fortuna guardava altrove, perché lo spettro del caso danzava altre storie.

E anche chi vince porta le cicatrici. Ogni trionfo è costruito su un cimitero di tentativi falliti. Rowling ricevette dodici rifiuti prima che qualcuno pubblicasse Harry Potter. Dodici volte dovette decidere se credere a loro o a se stessa. Dodici volte la sconfitta bussò alla porta.

Noi guardiamo solo la punta dell’iceberg. Dimentichiamo l’oceano.

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Il fantasma della sconfitta e il peso di chi deve giudicare

Quando la storia si corregge

La storia, quando ha tempo, a volte si corregge. Riscrive i verdetti con la pazienza di chi ha tutta l’eternità.

Stravinskij fu fischiato alla prima del Sacre du Printemps. Il pubblico si alzò indignato, gridò, protestò. Oggi è un caposaldo del Novecento. Emily Dickinson morì sconosciuta, con le sue poesie nascoste nei cassetti. Oggi è un pilastro della letteratura americana. In uno dei miei ultimi articoli, dedicato ai Matia Bazar, Fabio Perversi- l’attuale leader della formazione- mi ha raccontato che lui e Piero Cassano, mitico produttore, scoprirono l’attuale talentuosa cantante, Luna Dragonieri, in un concorso che non aveva vinto.

Il fato non utilizza strade semplici. Artisti che oggi riempiono stadi e classifiche hanno ricevuto il loro no. Un no che non è stato la loro sconfitta, ma quella di chi li ha giudicati pensando di avere la verità in tasca.

Pensate a Elodie, Annalisa, Stefano De Martino, Serena Brancale, Ultimo, tutti con le loro storie di sconfitte, bocciati in talent come Amici o X Factor. O attori internazionali come Meryl Streep, Harrison Ford, Leonardo DiCaprio, Oprah Winfrey, Johnny Depp, Lady Gaga. Tutti hanno ricevuto il loro no, all’inizio della loro carriera.

Il peso dell’umiliazione

Ma questo non consola chi perde oggi. Non serve a chi torna a casa con il sogno spezzato.

E la possibilità di una prossima rivincita non rende più sopportabile l’umiliazione di adesso. Umiliazione è una parola forte che solo un artista può capire. Noi dobbiamo continuamente dimostrare al mondo chi siamo veramente: un mondo che ci crede bizzarri e illusi clown che faticano e studiano senza una meta sicura. Dobbiamo portare a casa dei riconoscimenti per chi ha creduto in noi: i nostri amici, i nostri professori, la nostra famiglia.

E lo dobbiamo a quell’essere meravigliosamente fragile e testardamente coraggioso che ci guarda ogni giorno dallo specchio: il nostro vero io che nessuno conosce, che brilla di una luce che il mondo deve ancora scoprire.

Ma il percorso è lungo e in salita. E lo devi condividere con il fantasma della sconfitta che ti ricorda che non ci sono garanzie. Che il mondo è ingiusto, distratto, smemorato. Che il tuo talento è – forse – un superpotere, ma occorre temprarlo, farlo crescere, metterlo alla prova prima che ti renda invincibile.

E l’unica verità che resta è che arrendersi è la vera unica sconfitta.

La libertà paradossale

Chi accetta questo trova una libertà paradossale. Non è più ostaggio del successo. Non crea per vincere, ma perché non può fare altrimenti. Perché il gesto stesso della creazione è l’unico senso disponibile. L’unico che non può essergli tolto. L’unico che rimane anche quando tutto il resto crolla.

Se non scrivete canzoni perché è l’unico modo in cui riuscite a comunicare il vostro pensiero più puro; se non cantate perché solo in quel momento vi sentite in sintonia con qualcosa di più grande; se non danzate per dare forma a quella energia inspiegabile che avete dentro – allora non sarete mai artisti veri. Magari ottimi mestieranti, ma non artisti.

Perché gli artisti veri sono mossi da forze invisibili che non hanno mai semplice spiegazione. E forse è proprio questo il segreto. La sconfitta non è il contrario del successo, è il suo combustibile

Ogni no che ricevi, se non ti spezza, ti rende più forte. Ogni porta chiusa ti insegna a cercarne un’altra. Ogni volta che il mondo ti dice che non vali abbastanza, e tu continui lo stesso, diventi un po’ più invincibile.

Aver osato

Il fantasma della sconfitta non se ne va mai. Resta lì, a ricordarci che siamo fragili, mortali, esposti al caso. Ma forse è proprio questa presenza a rendere ogni vittoria più preziosa, ogni gesto più coraggioso, ogni tentativo più umano.

Perché alla fine, ciò che conta non è vincere o perdere, è aver osato giocare.

È aver guardato il fantasma negli occhi – quello della sconfitta, quello del giudizio, quello del dubbio – e aver scelto comunque di entrare in scena.

È aver capito che la vera sconfitta non è perdere.

È non aver mai provato.

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Gae Capitano
Gae Capitanohttps://gaecapitano.it/
Paroliere, compositore, arrangiatore e musicista italiano. Disco d’Oro – Disco di Platino – Finalista Premio Tenco – Vincitore Premio Lunezia Autori- Vincitore Premio Panchina, Resto del Carlino – Vincitore Premio Huco- Finalista Premio De Andrè – Valutazione Ottimo Mogol e Docenti Centro Europeo di Toscolano
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