Morti sul lavoro: tra ricatti, imprudenze e responsabilità

Ogni anno, il Primo Maggio diventa il palcoscenico di una serie di dichiarazioni cariche di retorica. Discorsi appassionati, slogan emotivi, promesse di cambiamento. “Basta morti sul lavoro“, “La sicurezza prima di tutto“, “La vita vale più del profitto“. Eppure, per un solo giorno, sembra che il Paese si fermi a riflettere. Politici, sindacalisti, istituzioni si affannano a parlarne. Poi, come ogni anno, dal 2 maggio in poi cala il silenzio.

Nel frattempo, però, la realtà non cambia. Si continua a morire. Si muore cadendo da un ponteggio, schiacciati da macchinari in fabbrica, sotto le rotaie di un treno o sotto le ruote di un camion in autostrada. Nei soli primi tre mesi del 2025, sono 96 le persone che hanno perso la vita mentre lavoravano. 96 persone. Solo nell’ultima settimana, tre operai sono stati vittime di incidenti mortali. Non sono numeri. Sono figli, padri, mariti, amici.

Non è fatalità. Non è “il rischio del mestiere”. È un sistema che accetta che lavorare possa significare non tornare a casa.

Morire di Lavoro nel 2025

Il fatto che, ancora nel 2025, si possa morire sul posto di lavoro è insopportabile. È insopportabile perché non è un destino inevitabile. È una scelta. Una scelta di chi, mettendo i profitti prima delle persone, sacrifica la sicurezza per risparmiare. La protezione, la formazione, i dispositivi di sicurezza rallentano i ritmi e rallentare significa ridurre i guadagni. Così si chiude un occhio. Si ignora il problema. Si invita chi lavora a fare finta di niente.

E chi lavora lo sa: chiedere di lavorare in sicurezza può costarti il posto, perchè chiedere sicurezza “crea problemi”. Così si abbassa la testa. Si spera che vada bene. Fino a quando non va più bene.

La realtà è che se la sicurezza è vista come un ostacolo, è l’intero sistema che deve essere messo in discussione. E non con le parole, ma con atti concreti. Ogni giorno, non solo il Primo Maggio.

I Ricatti Silenziosi

Non si muore solo sui ponteggi o lungo le ferrovie. Anche nei luoghi di lavoro “normali” ci si trova a rischiare. E spesso il pericolo non è solo dato dagli strumenti, ma dalle dinamiche relazionali, dai silenzi, dai ricatti non espliciti ma inequivocabili.

Vi racconto una storia che riassume tutto questo. Una persona che lavora in un ristorante si è ustionata il petto con acqua bollente, a causa di un rubinetto rotto. Un incidente serio, ma non è andata in ospedale. Perché? Perché avrebbe dovuto denunciarlo all’INAIL. E questa denuncia avrebbe fatto scattare una serie di controlli. Controlli che avrebbero messo in luce altre irregolarità. Il servizio si sarebbe fermato. I clienti sarebbero rimasti senza pranzo. E questa persona, in piena stagione turistica, sarebbe finita fuori dal turno, forse senza lavoro.

Il datore di lavoro non ha fermato nulla. Nessun soccorso, nessun interesse per la salute della persona ferita. Solo una richiesta: “Non dire niente”. E lei ha obbedito. Per paura. Per necessità. Perché, in certi ambienti, si lavora con la testa bassa e la bocca chiusa.

Questa è la realtà di tanti settori. Non solo cantieri e fabbriche, ma anche cucine, bar, negozi. Ovunque ci sia un rapporto di potere squilibrato, dove il lavoratore è solo un ingranaggio, facilmente sostituibile. Dove la dignità umana vale meno della produttività. Questo è inaccettabile.

Il Silenzio che Uccide

Ogni volta che accade una tragedia, si promette che “si farà chiarezza”. Ma la verità è che troppo spesso non cambia nulla. I familiari restano soli. Le vite spezzate passano inosservate dopo pochi giorni, mentre il sistema rimane invariato. Chi chiede sicurezza è visto come un intralcio. Chi si fa male viene invitato a tacere. E chi denuncia rischia di essere messo da parte.

Il silenzio che segue una morte sul lavoro non è solo dolore. È complicità, abitudine. È paura. E questo silenzio va rotto.

Ogni giorno dovrebbe essere un Primo Maggio. La sicurezza deve diventare la norma, non l’eccezione. Bisogna proteggere chi lavora, non chi risparmia sulla pelle degli altri. Bisogna ascoltare chi denuncia, non punirlo. La vita vale, punto.

Le leggi Ci Sono, ma non bastano

In Italia, la legislazione sulla sicurezza del lavoro è tra le più avanzate d’Europa. Il Decreto Legislativo 81/2008, aggiornato nel 2024 dalla Legge 203, fornisce un quadro normativo chiaro e completo. Eppure, nonostante la presenza di leggi e regolamenti, il sistema non funziona. Nei primi due mesi del 2025, le denunce di infortuni mortali sono aumentate del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

I controlli esistono, ma sono insufficienti. L’Ispettorato del Lavoro è sotto organico, le ispezioni sono rare e spesso pianificate in anticipo. Le sanzioni? Irrisorie. Così irrisorie che molte imprese preferiscono rischiare piuttosto che adeguarsi alle normative. All’estero, in paesi come la Germania o la Svezia, chi viola le normative sulla sicurezza rischia pesanti sanzioni, esclusioni dagli appalti pubblici e, in alcuni casi, pene pecuniarie enormi

In Italia, il sistema di controllo è fragile e le sanzioni non sono abbastanza gravi da costringere le aziende a investire sulla sicurezza. Le leggi ci sono, ma se non sono accompagnate da una reale volontà di farle rispettare, non servono a nulla.

Fatta la legge trovato l’inganno

Nonostante l’aumento degli ispettori e un alto tasso di irregolarità rilevate nel 2024, i sindacati e gli ispettori stessi hanno criticato le nuove direttive dell’Inl, che basano la valutazione sugli accessi numerici. Questo metodo incentiverebbe il controllo delle piccole aziende, trascurando settori più complessi come grandi aziende e appalti, dove si verificano le irregolarità più gravi in materia di sicurezza. Inoltre, il personale ispettivo è in calo, passando da 4.768 a fine 2023 a 4.585 a fine 2024, con una scarsa attrattività del ruolo a causa di salari bassi.

Il decreto legislativo 103/2024, che semplifica i controlli, ha sollevato polemiche: consente alle aziende di sanare le violazioni minori entro 20 giorni e prevede la possibilità di fornire anticipatamente la documentazione necessaria alle imprese, riducendo l’efficacia delle ispezioni. Inoltre, introduce un sistema volontario di certificazione del “rischio basso” che ridurrebbe i controlli per le aziende certificate. La Cgil critica queste modifiche, sostenendo che depotenziano i controlli e incentivano comportamenti negligenti, mentre propone un quesito referendario per reintrodurre la responsabilità solidale delle aziende committenti negli appalti.(fonte Il Fatto Quotidiano).

Quando a Pagare Non È Mai il Datore

In Italia, si può morire lavorando, ma raramente si finisce in galera. Le sanzioni per chi viola le normative sulla sicurezza sono spesso troppo blande, rispetto alla gravità delle conseguenze. Una multa. Una sospensione temporanea. A volte nemmeno quella. E intanto, una famiglia resta senza un genitore, senza un partner, senza un figlio.

Molti processi si trascinano per anni. Si concludono con patteggiamenti, prescrizioni o, peggio, clamorose assoluzioni. Le condanne sono lievi e, spesso, non colpiscono davvero i responsabili. Quando un’impresa risparmia sulla sicurezza, quando non fornisce i dispositivi di protezione, quando non forma adeguatamente i suoi lavoratori, non si tratta di “un incidente”. È una scelta. E questa scelta deve avere delle conseguenze.

In paesi come la Germania o la Francia, le sanzioni per gravi violazioni sono molto più severe. Le aziende che non rispettano la sicurezza possono essere escluse dagli appalti pubblici o obbligate a risarcire pesantemente le vittime. In Italia, invece, tutto sembra sfumare. E la domanda sorge spontanea: che messaggio inviamo, se chi risparmia sulla pelle degli altri riesce sempre a cavarsela senza pagare davvero?

Se davvero vogliamo che le cose cambino, servono leggi che abbiano un impatto. Controlli reali. Pene certe. E soprattutto, una determinazione politica a far rispettare le leggi. Sempre. Ovunque. Con convinzione.

Imprudenza e disattenzione: l’altra faccia del rischio

I numeri che non mentono mai, ci dicono che in Italia, ogni anno, sono circa 6000 le persone che muoiono per incidenti domestici e oltre 3000 sulle strade (fonte Istat). Sono dati importanti perchè indicano che l’attenzione alla sicurezza non fa parte della cultura italiana.

La nostra giornata è fatta di 24 ore di cui 8 le passiamo a dormire. Le altre 16 sono ripartite tra il lavoro e le nostra attività. Possiamo affermare con assoluta certezza che la maggior parte degli italiani passa più tempo in casa che in auto. Ma sicuramente la metà delle ore di veglia le trascorriamo al lavoro. Sia in casa che soprattutto sulla strada ci sono regole e strumenti di vigilanza di queste regole. Ciò nonostante gli accidenti accadono e, il più delle volte per imprudenza o disattenzione. I dati della polizia stradale ci dicono che la maggior parte degli incidenti, ad esempio, sono a causa dell’uso di cellulare.

Cosa emerge da questa breve e sommaria analisi? Noi italiani siamo molto più attenti quando lavoriamo che nel resto della giornata e che forse la responsabilità non è solo del datore di lavoro.

Se ignori le regole, il rischio sei tu

La sicurezza è una responsabilità individuale, oltre che collettiva. E chi la ignora, mette a rischio non solo sé stesso, ma anche chi gli lavora accanto. Nessun contesto, per quanto difficile, può giustificare gesti avventati o scelte pericolose. Alcune morti sul lavoro, purtroppo, non sono conseguenza di sfruttamento o mancanza di applicazione delle normative, ma sono frutto dell’imprudenza, della distrazione o mancata osservanza delle regole, così come accade in auto o in casa.

Sono errori personali, tragici e irreparabili.

Voglio dire che, forse, non tutte le tragedie sul lavoro sono colpa del sistema o del cattivo imprenditore o datore del lavoro. Ci sono casi in cui la responsabilità ricade, purtroppo, interamente su chi lavora. Chi sceglie consapevolmente di non indossare un casco, chi ignora una misura di sicurezza, chi forza una macchina mentre è in funzione, può commettere un’imprudenza grave. E a volte fatale.

L’informazione rulla i tamburi e strilla quando ci scappa il morto, ma poi tace quando la causa è l’errore umano. Brandizzo docet. Quindi la domanda è: cosa è comodo o emozionale: comunicare per fare audience o raccontare anche quello che è scomodo da sentire?

La prevenzione passa anche da qui: dalla consapevolezza che ogni singolo comportamento conta. Non basta, quindi, chiedere più controlli, più ispettori, più leggi. Serve anche responsabilità. Perché la sicurezza si costruisce ogni giorno, anche nei gesti più semplici. E l’obbligo di rispettarla vale per tutti.

Che lavoro è, se ti costa la vita?

Lavorare dovrebbe essere una fonte di soddisfazione e realizzazione personale, ma purtroppo per molte persone in Italia, il posto di lavoro può trasformarsi in un pericolo mortale. Le morti sul lavoro sono una piaga persistente nel nostro paese, con conseguenze devastanti per le famiglie coinvolte e la società nel suo complesso.

Ci riempiamo la bocca con la parola “lavoro”. La ripetiamo come un mantra, la mettiamo nella nostra Costituzione, nei discorsi ufficiali, nei documenti europei. Ma che lavoro è, se ti costringe a scegliere tra guadagnare uno stipendio e preservare la tua salute? Che lavoro è, se rischi la vita o devi chiudere gli occhi per non perderla?

Il lavoro dovrebbe essere fonte di dignità, non di paura. Dovrebbe proteggere, non distruggere. Dovrebbe offrire una possibilità, non un pericolo costante. Ma in troppe situazioni, è diventato un campo minato. Un sistema che ti chiede di sacrificarti, dove il gioco non vale la candela.

La domanda è semplice: che società è quella che accetta questa condizione come “normale”? Perché, alla fine, non basta indignarsi il 1 Maggio. È tutto l’anno che dovremmo cambiare.

Foto copertina di ndemello da Pixabay

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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”