Sandokan 2025 vs Sandokan 1976: sorprendente, spettacolare o deludente?

Parlare di Sandokan significa, prima ancora che parlare di televisione, tornare all’opera di Emilio Salgari e alla sua singolare posizione nella letteratura italiana. Salgari scrive romanzi d’avventura senza muoversi quasi mai dall’Italia, costruendo mondi esotici con una precisione immaginativa che supplisce alla mancanza di esperienza diretta.

Nei suoi cicli, quello malese, quello dei corsari, quello del West, l’avventura non è mai puro intrattenimento, ma una forma di evasione morale, una risposta narrativa al mondo di quel periodo storico dominato dal colonialismo, percepito come ingiusto, oppressivo, dominato da potenze coloniali arroganti.

Sandokan nasce qui: non come eroe “positivo” nel senso classico, ma come pirata, fuorilegge, ribelle. È un protagonista che combatte contro l’Impero britannico, che rifiuta l’ordine imposto e che incarna una giustizia alternativa, spesso violenta, ma coerente.

Il ciclo malese

Nei romanzi del ciclo malese, Sandokan è inseparabile da Yanez, da Marianna e da un’intera costellazione di personaggi che oscillano tra il melodramma e il romanzo d’appendice. Il linguaggio è enfatico, l’azione è continua e i sentimenti sono assoluti. È una narrativa che oggi può apparire eccessiva, ma che proprio per questo si presta alla serialità: episodi, cliffhanger, antagonisti ricorrenti, trasformazioni identitarie. Non è un caso che Sandokan diventi uno dei pochi personaggi della letteratura italiana capace di uscire dall’immaginazione dei libri per approdare nei fumetti e nei cartoni animati, arrivando alla televisione con una forza iconica rara, complice, ovviamente, la “povertà” di canali e palinsesto degli anni Settanta, prima, e la febbre delle serie TV, oggi. 

Partendo dal fatto che ogni adattamento, inevitabilmente, tradisce Salgari, c’è da dire, per amor di verità, che lo stesso Salgari tradisce la realtà storica per costruire un mito. Questo è il punto di partenza necessario per guardare alle due serie televisive non come versioni “giuste” o “sbagliate”, ma come interpretazioni figlie del loro tempo, del loro pubblico e del loro linguaggio audiovisivo.

Sandokan 2025

La serie Sandokan del 2025 si muove consapevolmente su un terreno scivoloso: non tenta di replicare Salgari, ma di dialogare o, meglio, (cito testualmente) liberamente ispirarsi al suo capolavoro letterario: una postilla che è la panacea che cura tutti i mali del cinema e rende inattaccabile qualsiasi castroneria adattata a una storia vera o a un’opera già esistente.

È una scelta chiara fin dalle prime puntate, quando diventa evidente che l’aderenza ai romanzi non è l’obiettivo principale.

La serie lavora per sottrazione e riscrittura, scegliendo di mantenere l’archetipo del personaggio più che la sua biografia letteraria. Sandokan non è più solo il pirata romantico, ma un uomo attraversato dal trauma, dalla perdita, dal dubbio. Il ritmo è più lento, la violenza più realistica, i silenzi più frequenti. È una narrazione che guarda alle grandi produzioni internazionali contemporanee e che accetta il rischio di scontentare i puristi.

Visivamente, Sandokan 2025 punta su un’estetica curata, meno cartolinesca e più attuale, che lo avvicina più alla figura di Jack Sparrow, a volte ironica e a volte ridicola, tanto per non scioccare troppo (e perdere) gli aficionados del pirata dei Caraibi, personaggio, tra l’altro, nato proprio sulle ceneri di Sandokan.

Anche i personaggi secondari vengono ricalibrati: Yanez perde parte della sua leggerezza caricaturale per diventare una figura ambigua, ironica ma disincantata; Marianna non è più soltanto l’oggetto di un amore impossibile e neanche una mite e sottomessa pulzella di fine Ottocento. Nella versione del 2025, diventa quasi un’attivista de la Flotilla che non perde occasione di stupire e sorprendere, in netta contrapposizione alla Marianna di Sollima che, invece, era un’acqua cheta che nascondeva torbidi fondali. Pur introducendo temi contemporanei al romanzo, come identità, colonialismo, appartenenza, la serie del 2025 evidenzia una chiara volontà di attualizzazione.

La tigre della Malesia

Ciò che colpisce, e che può spiegare perché la serie funzioni nonostante le libertà prese, è la serietà dello sguardo. Sandokan 2025 resta un principe a cui hanno sterminato la famiglia, seppur in contesti diversi da quelli originali, quindi con un trauma infantile irrisolto che da una giustificazione psicologica al suo vissuto da adulto, ma nella nuova edizione abbiamo un Sandokan inconsapevole e ignaro del suo passato e la sua fama di “tigre della Malesia” si consolida strada facendo, grazie a poteri “magici” che acquisisce in corsa. Una narrazione più da fantasy che da avventura, con un approccio che può apparire stucchevole a chi cerca l’epica classica, ma che, se contestualizzato ad oggi, restituisce al personaggio una densità nuova, rendendolo credibile per uno spettatore contemporaneo.

Del resto, che ne sanno i millennials del “nostro” Sandokan, ma è pur vero che ogni cosa mai vista, è forzatamente nuova e come tale non ha termini di paragone.

Ma com’era il “nostro” Sandokan e perché molti di coloro che possono dire “io c’ero” non hanno apprezzato?

Sandokan 1976

La serie Sandokan del 1976, prima ancora di essere un adattamento letterario, è stato un fenomeno culturale.

Arriva in un’Italia dove la televisione generalista è il centro della vita collettiva e in cui la serialità ha una funzione quasi pedagogica ed educativa, volta a insegnare la storia al telespettatore, più che a raccontarla. Il Sandokan di Sergio Sollima è epico, melodrammatico, immediato, come da manuale, perché, nell’immaginario collettivo, gli eroi sono infallibili, danno sicurezza e risolvono problemi, e il regista romano propone un eroe riconoscibile, con un antagonista netto, in un mondo diviso tra oppressori e oppressi.

Kabir Bedi incarna Sandokan con una fisicità e una presenza carismatica che diventano definitive. Il suo Sandokan è fiero, passionale, quasi statuario. Yanez, interpretato da Philippe Leroy, è la spalla perfetta: ironico, scaltro, occidentale ma solidale. Marianna è idealizzata, pura, tragica. Tutto è costruito per funzionare in modo diretto, senza ambiguità psicologiche. Anche i limiti produttivi dell’epoca vengono compensati da una chiarezza narrativa che oggi appare quasi rassicurante.

Rivedere Sandokan 1976 oggi significa confrontarsi con un linguaggio televisivo diverso, ma anche con un’idea diversa di eroismo. È una serie che non ha paura di essere ingenua, che non teme il pathos, che crede nella forza del mito senza bisogno di smontarlo, perfetta per l’epoca in cui è stata pubblicata.

Le due serie a confronto

Mettere a confronto Sandokan 1976 e Sandokan 2025 significa inevitabilmente confrontare due idee opposte di adattamento. La serie del 1976 sceglie la fedeltà emotiva: non replica ogni dettaglio dei romanzi, ma ne conserva lo spirito avventuroso e la distinzione morale netta. Il suo pregio principale è il rispetto della narrazione che riporta un passato storico realmente esistito, come quello dell’Impero britannico e della Compagnia delle Indie, mantenendosi fedele ai fatti storici.

La serie del 2025 compie il percorso inverso. Rinuncia a una parte dell’epica per guadagnare complessità e discostandosi (di molto) da fatti storici reali. Il business britannico non è più su prodotti tipici orientali ma diventa l’antimonio, avvicinandosi più ad esigenze tecnologiche attuali (con un chiaro richiamo alle terre rare) piuttosto che a quelle del XVIII secolo. Se lo scopo era inserire un concetto di sostenibilità, il risultato parrebbe un tantino forzato, ma probabilmente pochi se ne sono accorti.

Quando il mito passa dagli interpreti

Il confronto tra le due serie passa inevitabilmente dai volti e dai corpi degli attori. Kabir Bedi non interpreta soltanto Sandokan: lo incarna. La sua fisicità imponente, la postura fiera, la voce profonda costruiscono un’icona immediatamente riconoscibile. Accanto a lui, Philippe Leroy dà vita a un Yanez ironico e carismatico, perfetto contrappunto. Anche Marianna, nella versione del 1976 interpretata da Carole André, è costruita come figura simbolica: idealizzata, fragile, tragica, fulcro emotivo più che personaggio autonomo.

Nel 2025 il discorso cambia. Can Yaman è un Sandokan atletico, scolpito secondo canoni contemporanei, il cui corpo diventa strumento narrativo: combatte, cade, soffre. Un modello di fisicità instagrammabile e fedele agli standard imposti dalle rigide regole del nostro lifestyle. Alessandro Preziosi, bravissimo, interpreta un Yanez più elegante e ambiguo, meno spalla e più co-protagonista. Ma è soprattutto Marianna, interpretata da Alanah Bloor, a subire la trasformazione più significativa: non più icona romantica, bensì donna inserita in un sistema di potere, capace di scelta e contraddizione.

In buona sostanza, dove il 1976 scolpisce figure mitiche, il 2025 costruisce personaggi più fragili, più umani, meno immediatamente memorabili ma più coerenti con una sensibilità contemporanea.

Sandokan tra Matrix, Ninja e Wrestling

Un elemento peculiare della serie 2025 è la messa in scena dell’azione. Alcune sequenze di combattimento e alcune pose di Sandokan sembrano attingere a un immaginario che va oltre l’avventura classica, sfiorando il cinema action contemporaneo e persino il wrestling. Salti, slow-motion, posture studiate: Sandokan combatte talvolta come un guerriero “ninja” con chiara ispirazione a Matrix.

È difficile non notare come alcune movenze, soprattutto il “Superman Punch”, ricordino quelle di Roman Reigns, icona della WWE, anche per una somiglianza fisica evidente con Can Yaman. Spalle larghe, sguardo basso prima dello scontro, posa da dominatore del ring. È una scelta che può far sorridere, ma che racconta molto dell’intenzione della serie: trasformare Sandokan in un eroe pop globale, capace di parlare anche attraverso codici visivi contemporanei.

Nel 1976 l’azione è più semplice, funzionale al racconto. Nel 2025 diventa spettacolo, citazione, linguaggio, segnando, inevitabilmente, una distanza generazionale evidente.

Guardare per credere…

La musica come memoria: dagli Oliver Onions ai Calibro 35

Il confronto non può prescindere dalla colonna sonora. Il tema dei fratelli De Angelis del 1976 è un pezzo di memoria collettiva, capace di evocare immediatamente avventura e infanzia. Del resto, le sigle televisive di quegli anni echeggiano ancora non solo nelle orecchie dei boomer, ma sono ancora potenti richiami, molto usati (o sfruttati?) da diversi dj dei clubbing italiani (perché le discoteche non esistono più).

La serie 2025 affida invece la musica ai Calibro 35, scegliendo un approccio più atmosferico e meno melodico ma decisamente più suggestivo. La colonna sonora sostiene il tono senza cercare il tormentone, ma restituendo una versione “restaurata” (direi, alla grande) che piace. È una scelta coerente e che regge degnamente il confronto con il passato.

Se permettete, mi concedo un richiamo più leggero e affettuoso: Yanez di Davide Van De Sfroos, presentata a Sanremo 2011. Una canzone che gioca con il mito, lo umanizza, lo rende popolare, tanto da mettere ai piedi di Sandokan le infradito, e immaginarlo ormai invecchiato, seduto in una improbabile osteria, con il suo insostituibile amico Yanez, a ripescare nella memoria le avventure vissute insieme: “se regordet cume l’era?”. Un promemoria assai ironico del fatto che i personaggi di Salgari siano ancora nella memoria, raccontati e condivisi.

Ma questa è un’altra storia. 

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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
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