Poetessa, autrice teatrale e voce tra le più riconoscibili del panorama poetico contemporaneo, Marthia Carrozzo intreccia parola, corpo e musica in una ricerca viscerale, sensoriale, profondamente incarnata.
In questa intervista, con l’autore Gae Capitano, la parola si fa carne: un viaggio necessario, tra desiderio e memoria. Come un battito. Come una soglia.
Marthia Carrozzo ha collaborato con artisti come Etta Scollo, Hasa-Mazzotta, Frank Nemola e Claudio Fabi, firmando progetti in cui lirismo ed eros, mito e identità si fondono in un’unica, inconfondibile voce. Direttrice della collana “Camminamenti” per Kurumuny Edizioni, ha restituito alla poesia il suo respiro scenico, tra premi, reading e riti collettivi. Nel suo cammino, due incontri che l’hanno segnata: Alda Merini e Franco Battiato.
Per raccontarvi della nostra ospite di oggi, dobbiamo fare un viaggio.
Attraversiamo i secoli sulle spalle dei poeti, di quelli che con la lingua ci giocavano, la straziavano, la redimevano. Da Saffo a Rilke, da Alda Merini a Leonard Cohen. Poeti della poesia, non solo perché scrivevano versi, ma perché li abitavano. Con loro, la parola diventava carne, respiro, sogno, lamento, fuoco.
E poi eccoci qui, nel tempo delle intelligenze artificiali, dove la poesia resiste. Anzi, riluce. E prende voce, forma, vita. In chi ancora la scrive come fosse sangue che chiama sangue.
Partiamo dal futuro
Oggi, sui dispositivi Apple, è arrivata una nuova funzione chiamata Compose, che trasforma il nostro modo di comunicare, quando scriviamo.
Puoi digitare velocemente una frase, e questa applicazione correggerà gli errori, ne affinerà la forma e riformulerà la sintassi per trasformarla in un messaggio perfetto.
Questa integrazione non si limita a rivedere, ma riorganizza direttamente il nostro pensiero. Offre una serie di opzioni per quello che vogliamo scrivere. E lo fa con diverse sfumature di tono e voci differenti. Tutto con un semplice tasto.
Il T9
Il tentativo di colmare la nostra ignoranza grammaticale, in realtà, parte da lontano.
I nostalgici della mia generazione ricorderanno il T9. Quel geniale, e a volte frustrante, sistema predittivo che cercava di indovinare cosa stavi digitando sui vecchi telefoni a tastiera.
Comparso per la prima volta sul modello Ericsson GS88, nel 1997, ci permetteva di premere due o tre volte lo stesso tasto e lui — come un piccolo oracolo digitale, presuntuoso e impaziente — tentava di indovinare la parola.
A volte ci riusciva al primo colpo. Altre, trasformava il semplice gesto di mandare SMS in un esercizio di pazienza degno di un monaco Zen.
Un bellissimo “Ti amo” poteva trasformarsi in “Ti amo ma”. In cui quell’innocuo “ma” aggiunto e non voluto, improvvisamente creava un tocco drammatico non intenzionale, a cui dovevano seguire scuse o spiegazioni.
Bastava un “Ciao” digitato in fretta perché il T9 lo corrompesse in qualcosa di inaspettato, molto lontano dall’ “Apostrofo rosa” di Cyrano de Bergerac. Una svista capace di trasformarti, nel tempo di un invio, da gentiluomo a perfetto maniaco.
Tempi che sembrano appartenere a un passato remoto. Nessuna tastiera touch. Solo tu, il T9, e il rischio costante di scrivere cose imbarazzanti senza accorgertene.
I correttori automatici
Poi vennero i primi correttori, quelli integrati in Word. Che sottolineavano in rosso ogni svista come un maestro severo col gessetto in mano.
Segnalavano errori, suggerivano accenti dimenticati, cercavano di mettere ordine nella nostra grammatica traballante. Lavoravano per regole fisse, rigide, spesso scolastiche. Ci davano l’illusione di saper scrivere meglio di quanto in realtà sapessimo. E per un po’ sono bastati a celare le nostre incertezze.
Primordiali alchimisti digitali, che ci tenevano la mano, ma non guidavano la penna.
Tutti bellissimi e colti
Oggi, invece, le cose hanno preso un passo più veloce e incisivo.
Grazie a strumenti come FaceApp e Compose, tutti noi finiremo – nelle nostre interazioni a distanza – per presentare versioni idealizzate di noi stessi.
I nostri tratti visivi, scolpiti dai filtri che ritoccano l’immagine, e la nostra comunicazione, affinata dai suggerimenti delle intelligenze artificiali, ci trasformeranno in esseri perfetti, privi di imperfezioni e apparentemente colti. Almeno nella nostra versione digitale.
Come nella serie fumettistica The Surrogates, in cui, in un dispotico futuro, l’essere umano delega la propria esistenza ad un avatar che idealizza i suoi presunti tratti migliori.
Nel futuro imminente che ormai ci appartiene, come faremo a capire dove comincia il confine tra il nostro vero io e la sua rappresentazione artificiale?
Ci salveranno i poeti.
In questo nuovo mondo che si profila all’orizzonte, la prima forma di ribellione sarà mostrarsi senza filtri.
Per molti, rinunciare alle nuove tecnologie e accettarsi così come si è sarà un autentico atto di coraggio.
Nella parola scritta, saranno i poeti a tracciare la sottile linea che separa l’artificio dalla verità, distinguendo il respiro vivo della vita dalla freddezza della perfezione artificiale.
E la poesia – con la sua attitudine a distillare il pensiero, a rovesciare prospettive, a perforare la superficie delle cose – tornerà a essere uno sguardo alternativo sul mondo, un modo diverso, più profondo, di abitare la realtà.


Spiriti ribelli
Perché i poeti sono, da sempre, spiriti ribelli. Non per scelta, ma per vocazione.
La loro è una fame che si sazia solo di poesia – una materia viva, che non si lascia imprigionare da ideologie, né politiche né religiose, perché nasce libera e rimane indomabile.
Vivono nel dettaglio, in ciò che sfugge allo sguardo distratto: si perdono nei margini delle cose, ascoltano il silenzio tra le parole, leggono emozioni nei gesti più piccoli. Portano dentro ricordi che si mescolano al presente, si commuovono davanti a un tramonto.
Sono coloro che, in un sorriso inatteso, scoprono un senso, anche se solo per un istante.
La visione dei poeti
Sarà proprio il modo in cui AI e poeti usano le parole a segnare una distanza abissale.
Mentre le macchine scandagliano milioni di dati alla ricerca di connessioni fredde e predeterminate, i poeti attraversano mondi visibili e invisibili, inseguendo verità che sfuggono alla superficie e alla logica rigida delle intelligenze artificiali.
Le reti neurali tracciano autostrade di dati, guidate da precise statistiche; i poeti invece si avventurano lungo sentieri nascosti dell’esistenza, impervi e inesplorati.
E c’è una bellezza profonda nel constatare come il tema del movimento, delle strade e delle scelte ci riconduca a una verità essenziale: i poeti sono per natura viaggiatori, eternamente in cammino.
Il viaggio
La poesia e la narrativa hanno, da sempre, utilizzato il viaggio come metafora della vita. Perché nulla, più del cammino, restituisce la complessità dell’esistere.
Un movimento continuo fatto di smarrimenti e rivelazioni, di passi falsi e di approdi inattesi, dove ogni meta è solo una tappa e ogni inciampo una possibilità di senso.
Don Chisciotte vaga nel deserto, sfidando mulini a vento che si ergono come il riflesso fragile e ostinato delle sue stesse illusioni e sogni irrealizzabili. Ulisse, nell’Odissea, affronta il mare non solo per tornare a casa, ma per ritrovare sé stesso: il suo è un cammino lento e profondo, fatto di memoria, smarrimenti e ritorni. Dante, nella Divina Commedia, discende nel cuore del dolore per risalire, passo dopo passo, verso la luce: un viaggio interiore, faticoso ma essenziale, dalla confusione alla consapevolezza.
Nuovi sguardi
Come scrisse Marguerite Yourcenar,“non si fa il giro del mondo per tornare al punto di partenza, ma per tornare con nuovi occhi su ciò che si ama.”
E forse è proprio questo che fanno i poeti: ci insegnano a tornare, ogni volta, con uno sguardo più vero. Verso gli altri. E verso noi stessi.
Come l’ospite di questa settimana: artista, poetessa, scrittrice, autrice di canzoni — una voce capace di innalzare la parola, restituendole spessore, luce e respiro.
Su Masterclass, la rubrica di Zetatielle dedicata alle eccellenze della musica italiana — e, in questo caso, della poesia e della parola — abbiamo il piacere di ospitare Marthia Carrozzo.
Perché se davvero saranno i poeti a salvarci, allora Marthia, con la nitidezza del suo pensiero e la grazia delle sue parole, è senza dubbio tra coloro che ci stanno già indicando la via.


Marthia Carrozzo. La voce sensuale del mito e della parola
Poetessa per vocazione, autrice per la musica e il teatro per destino, Marthia Carrozzo è tra le voci più riconoscibili del panorama poetico contemporaneo. Da sempre impegnata in una ricerca espressiva intensa, viscerale, profondamente incarnata.
Laureata in Scienze della Comunicazione presso l’Università del Salento e formatasi a Firenze nelle tecniche di management dello spettacolo, ha dato vita a un linguaggio che intreccia parola, corpo e respiro, restituendo al verso la sua dimensione sensoriale, fisica, viva.
La sua scrittura si muove sul crinale tra mito e desiderio, dove la riscrittura contemporanea ed erotica degli archetipi diviene strumento di esplorazione identitaria. In questo dialogo costante tra l’antico e il presente, si inscrive la sua produzione poetica, riconoscibile per una cifra stilistica che alterna dolcezza e ferocia, lirismo e materia.
Nel corso degli anni, ha collaborato con artisti di grande levatura, tra cui Etta Scollo (per Cuorescenza, Trocadero 2011) e il duo Hasa-Mazzotta nei progetti Ura (Finisterrae, 2014) e Novilunio (Ponderosa, 2017). La sua poesia si fa corpo musicale anche in Interpretare Zanzotto – Gli sguardi e i fatti di Senhal, omaggio scenico per il centenario di Andrea Zanzotto, impreziosito dalla presenza del musicista Frank Nemola e dalle scenografie visionarie di Gianluca Abbate.
Tra le sue pubblicazioni si annoverano: Utero di Luna (2007), con prefazione di Alda Merini; Pelle alla pelle – dimore di mare e solo sensi (2009), con introduzione di Gabriella Rusticali; Di bellezza non si pecca, eppure – Trilogia di Idrusa (2012), prefata da Lello Voce; Piccolissimo compianto all’incompiuto (2016), accompagnato da un testo di Danio Manfredini; e Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima), raccolta del 2022 in forma di dialogo poetico con il Maestro Claudio Fabi.
Tra libri e teatro
Nel 2004 prende parte al laboratorio Il potere della parola, diretto da Giovanni Lindo Ferretti a Melpignano (LE): un’esperienza fondativa che segnerà profondamente la sua visione artistica. Nel 2007 si aggiudica il primo Poetry Slam delle Culture Migranti e il premio “Questioni di Frontiera” a Bari; nel 2013 riceve il Premio Nazionale di Poesia Inedita “Ossi di Seppia” ad Arma di Taggia.
Dal 2019 dirige la collana “Camminamenti – scritture in movimento”, edita da Kurumuny Edizioni. Un laboratorio editoriale errante e militante che ha accolto, tra gli altri, autori come Joumana Haddad, Nabil Salameh, Jonida Prifti, Donatella Della Ratta e lo stesso Claudio Fabi.
Marthia si esibisce regolarmente in reading e spettacoli in cui la poesia incontra la musica e la scena, restituendo al verso la sua natura di rito collettivo. Tra le sue apparizioni più significative, si ricordano la Giornata Mondiale della Poesia a Taranto e la rassegna TerraMare, dove ha condiviso il palco con il Maestro Fabi.
Marthia Carrozzo non scrive soltanto versi: costruisce luoghi, gesti e silenzi in cui la parola si fa carne, vento e canto.
In ogni suo progetto si avverte il battito di una poesia che non chiede approvazione, ma invoca incontro — autentico, necessario, irripetibile.
Marthia Carrozzo: il pensiero di Gae Capitano
Da anni, poche voci dell’universo della musica e della poesia sono diventate il mio antidoto personale al mondo artefatto dell’arte. Dove l’ombra dell’intelligenza artificiale, dei plagi, della superficialità, dei riferimenti spudorati è assurta a nuova forma espressiva.
Complice un pubblico sempre più distratto, confuso. Confuso come chi ha perso il gusto del dettaglio, il valore della presenza.
E proprio per questo, leggere, ascoltare e vedere Marthia parlare di poesia è uno spettacolo che emoziona.
Le sue parole si muovono in equilibrio sottile tra vibrazioni eteree e pensieri colti e profondi, tra la materia viva del corpo e il respiro leggero dello spirito.
La sua bellezza – esaltata da lunghi abiti che danzano intorno al corpo, dai capelli fluenti come versi non ancora scritti, dalle gambe dalle linee armoniose, poggiate con grazia su tacchi, e da tratti delicati, che sembrano sottratti a un fermo immagine di Audrey Hepburn – è il perfetto involucro di un’anima che pare custodire, intatta, l’essenza stessa della poesia.
Non per estetismo. Ma per armonia, coerenza, incarnazione.
Per Marthia, partire dal corpo è un approccio intimo e intuitivo al suo mondo poetico.
La poesia, per lei, è un atto orale, e vive nei libri solo per convenzione. Nel suo universo letterario, è attraverso il corpo che il pensiero prende forma, filtrando l’intenzione, creando un’esperienza unica, un atto di ascolto reciproco che chiude un cerchio invisibile tra chi recita e chi ascolta.
E ascoltarla parlare del suo lavoro di poetessa è già un’esperienza di eleganza, una lezione di stile. “Recitare poesie è scrivere versi a voce alta, che devono arrivare al pubblico su uno spartito di fiato”, dice.
La sua poesia si muove su due piani comunicativi. Quello dei social, più semplice – nella sua accezione più alta del termine. E quello della poesia pura, che richiede un proprio metro, un linguaggio che non ammette compromessi. Linguaggio che, pur affrontando miti e archetipi, li reinventa in chiave contemporanea, con un’impronta anche erotica.
Perché Marthia, quando parla di erotismo nella sua poesia, sa farlo come poche altre.
La sua lirica riesce a creare un’intensità che trascende la parola scritta, che, sebbene già di per sé poesia, acquista una dimensione diversa nella performance dal vivo.
È questa componente magica — che ha attraversato secoli di tradizione, dall’uomo che narrava attorno al fuoco fino alla raffinata arte del teatro greco e romano — a rendere il suo lavoro unico, al contempo antico e moderno.


Masterclass: l’intervista
Benvenuta Marthia
«Grazie Gae. Intanto desidero ringraziarti per l’invito, per avermi accolto in uno spazio come questo tuo — che ho potuto apprezzare particolarmente — ma che ho letto come prettamente dedicato alla musica. Ne sono, dunque, ancora più lusingata.»
Quello che mi colpisce, nella tua poesia, è proprio questa estrema vicinanza alla musica.
«In qualche modo, la poesia, per me, non è mai stata molto distante da quest’arte sorella, avendo, essa stessa, necessità di un metro proprio, di un proprio ritmo a connotare i versi. O, almeno, così è la mia poesia.
Poesia fatta corpo, in un incedere che si scrive sulla pagina, prima — che scrivo a voce alta — per poi completarsi, in scena, del valore aggiunto del corpo, della mia voce che deve necessariamente incarnarla.»
Una voce letteraria bellissima, ma anche complessa
«Se mi dici che la mia è una poesia complessa, non posso che prenderlo come un complimento, ringraziandoti anche per questa tua sensibilità. E no, non ne sono affatto inconsapevole: anzi, la mia è una scelta precisa.
Quella, cioè, di provare a guidare il pubblico fino a me — avvalendomi evidentemente dell’uso di particolari figure retoriche, scegliendo con cura ogni singola parola — di provare a credere in lui così tanto da invitarlo a rischiare quel disequilibrio necessario che lo porterà, nel tempo a lui più consono, al passo successivo, a un’inevitabile trasformazione, all’accadere di quel qualcosa, al brillare di quella scintilla, capace di per sé di racchiudere tutto il senso di questo meraviglioso lavoro che per me è la poesia.
Commuovere come muovere insieme, portando me, quanto chiunque voglia leggermi o, meglio, ascoltarmi, altrove. Del resto, la poesia non è altro che, etimologicamente, un fare, un farsi, un divenire. Insieme.»
Come conciliare una comunicazione efficace con una grande profondità di pensiero?
«Che si tratti di un libro, una poesia o una canzone, nella pratica — come spesso accade quando si affronta la scrittura di un testo — mi trovo ad usare due codici differenti.
Uno per i social, ad esempio, più semplice e diretto. Che pure mai rinuncia a quelle che sono le mie peculiarità. Capace di risuonare in un cerchio d’attenzione che abita uno spazio specifico, con specifiche esigenze di comunicazione.
E uno più articolato, che, tra le pagine delle mie pubblicazioni, riscrive gli archetipi in chiave contemporanea ed erotica e non si esime dal farsi carico del ruolo, che per me è sempre stato del poeta, di farsi fulcro della propria comunità.»
Un lavoro minuzioso
«In quest’ultimo caso, quello della poesia pura, il lavoro di cesello, che pure non mi abbandona mai, diventa quasi maniacale, nell’ossessione del suono che mi accompagna sin dal mio innamoramento per la poesia.
Un amore che è stato per l’epica, già a 8 anni, essendo, io, cresciuta con le letture dell’Odissea da parte di mio padre. Come, più tardi, della Divina Commedia. E del teatro, avendo amato da subito le commedie di Eduardo De Filippo.»
Il tuo legame con la musica?
«Inscindibile. Nel tempo ogni libro pubblicato è diventato, per me, il pretesto di uno spettacolo, un concerto, di un reading di spoken music, capace di vivificarne le pagine.
Il mio primo incontro con la musica avviene con i grandi cantautori italiani e internazionali. Poi, grazie a un cugino bassista, un po’ più grande di me, durante la mia adolescenza imparo a conoscere e ad amare il punk dei CCCP.
Con loro, il salmodiare unico di Giovanni Lindo Ferretti. Con cui ho avuto poi la fortuna di collaborare per la Notte della Taranta del 2004, a Melpignano, in un bellissimo laboratorio sul potere della parola che mi avrebbe infine portato, due anni dopo, a pubblicare il mio primo libro.»
“Utero di luna”, dove Alda Merini — una delle più note e stimate poetesse del nostro tempo — ti dedica parole bellissime, importanti.
«Alda Merini, meravigliosa prefatrice del mio esordio poetico, mi ha fatto dono, per questa mia prima opera, delle sue parole: “Le premesse qui sono eccellenti e ci aspettiamo che fiorisca la grande poesia”. Parole bellissime, sì. E per me una grande responsabilità.
Sognai l’incontro con Alda Merini mentre preparavo l’uscita del libro. Dopo averlo fortemente voluto, tanto da averne cercato i contatti, battendo a tappeto tutti gli abbonati di via Ripa di Porta Ticinese.
Così, una volta fissato un appuntamento con lei, piuttosto incredula all’altro capo del telefono, partii per un lunghissimo viaggio su un notturno Lecce–Milano. Che mi avrebbe infine portato dalla mia Signora dei Navigli.»


Un desiderio ambizioso per una giovanissima poetessa
«L’idea di rivolgermi a lei, in realtà, non fu mia, ma di mio padre. Capace di suggerirmela come prefatrice senza tener conto alcuno della distanza che ci separava né tantomeno del fatto che per la Merini potessi essere non molto di più che una perfetta sconosciuta.»
Cosa ricordi di quell’incontro?
«Un “Attenti al gatto!” — sulla porta di un appartamento milanese, che avrei scoperto non ospitare alcun felino. Due sedie messe vicine per poterle sedere accanto. Pile di libri ovunque. Posaceneri al collasso e appunti presi sulle pareti con il rossetto.
Dopo aver sfogliato la mia bozza, accolse le mie lacrime commosse, e carezzandomi il viso mi disse: “Sa che mi sembrano già belle!”. E mi fece il dono della sua bellissima prefazione. Me la dettò al telefono giusto una settimana dopo il nostro incontro. E nel giro di poco sarei stata io stessa a tornare a Milano per farmela firmare.
Un dono e una attenzione che impressero su di me, sulla mia poesia da lì in poi, l’onere e l’onore della sua presenza immutata.»
Nella tua carriera, più volte le tue poesie sono diventate canzoni
«Ho scritto anche canzoni, sì. Due per Hasa-Mazzotta, rispettivamente “Del cielo e della terra”, per il loro primo album, “Ura” (2014). E “Novilunio” (2017), che avrebbe dato anche il nome al loro ultimo album.
Una mia poesia del 2010, “Dinuovoedinuovo”, postata come augurio per una imminente primavera, fu notata da Etta Scollo ed inclusa poi nel suo disco, “Cuoresenza” (2011). È un testo a cui tengo moltissimo, per tutto ciò che ha saputo regalarmi.»
Parli del tuo incontro con il Maestro Franco Battiato
«Sì. Grazie a questa canzone si avverò un sogno. Etta una sera — dopo i nostri carteggi di mesi, dopo le mail serrate e le chiamate Skype — mi confessò: “Franco ha ascoltato il brano, dice che il tuo testo è il più bello del disco!”, lasciandomi senza parole, dall’altra parte dello schermo.»
Hai avuto modo di conoscerlo personalmente, in seguito?
«Etta mi invitò ad assistere, all’Auditorium di Roma, a “Note di merito”. Un concerto in favore dell’Associazione “Luca Coscioni”, e lì ebbi l’onore di conoscere il Maestro. Ho un ricordo vivido ed emozionante di quell’incontro.
Stringendomi la mano e posandomi l’altra sua su una spalla, quasi ad accogliermi, mi disse: “Complimenti! È un testo davvero bellissimo!”. Mentre con un sorriso pieno, tutto d’occhi, mi avvolgeva tutta.»
Un incontro sicuramente emozionante. Nel tempo, cosa ha determinato questa continua frequentazione della tua poesia con la musica?
«La poesia e la canzone palpitano al ritmo di un unico metronomo. Quindi il loro incontro è un percorso in qualche modo naturale, ed è avvenuto più volte. Un’altra collaborazione a cui sono particolarmente legata è quella con Frank Nemola, storico musicista e arrangiatore di Vasco Rossi.
Con lui, negli anni, ho potuto sperimentare e consolidare un’intesa particolarmente fortunata, portando avanti diversi progetti di spoken music, sulla poesia di Andrea Zanzotto, per esempio, o partendo da una rilettura della Vita Nova di Dante, per approdare a una performance in cui le mie donne poco angeli e molto nel loro corpo, nel loro eros, provano una risposta differita al Sommo Poeta, indicando un’altra feritoia possibile di conoscenza dell’altro, come del mondo e di noi.
O, ancora, nella nostra “Antigone a Chatila”, in cui la principessa tebana tratteggiata da Sofocle rivive nei Campi profughi di Beirut ovest, diventando un’eroica sorella palestinese che canta il ritorno alla propria terra.
Per tutto questo, la musica di Frank è stata fondamentale. È stato fondamentale il suo apporto ad una partitura unica volta a ricentrare la storia che dicevamo e i suoi protagonisti. Ore e ore di composizione, uno accanto all’altra, a cercare l’incastro ritinteggiato in musica e in poesia nei colori più consoni a quanto volevamo raccontare, per poi scegliere di farlo fiorire o deflagrare nella voce, la mia.»
Ancora dall’incontro tra poesia e musica, nasce la tua collaborazione con il Maestro Claudio Fabi, padre di Niccolò Fabi. Storico, raffinatissimo produttore e arrangiatore di diversi autori molto noti della musica italiana e internazionale
«L’incontro con il Maestro Fabi è per me uno di quei doni che il Fato sceglie di farti quando decide di sottolineare quanto il tuo lavoro sia sulla strada giusta.
Qualche anno fa, come spesso accade in quest’epoca in cui le finestre virtuali dei social ci permettono, volendolo, di intercettare e seguire traiettorie che risuonano in noi, il Maestro ha notato la mia poesia, il mio lavoro al servizio della stessa, nella direzione di Camminamenti, una piccola collana di scritture in movimento – da me ideata per Kurumuny edizioni – che mette in dialogo la poesia con altri saperi, invitandomi a ascoltare un suo progetto.
Fui molto colpita dal suo “Hermetico” e scelsi di invitarlo a partecipare al terzo e ultimo numero della collana, che, per la caratura di un tale autore, ha visto scendere in campo anche me, i miei versi, a conclusione di un percorso in tre volumetti che definiscono la mia idea di poesia come camminamento comune, chiave privilegiata di lettura del mondo, necessariamente mediata dalla pelle, dal corpo che mi permette di entrare in relazione con l’altro.»
Un incontro che è divenuto un bellissimo progetto comune: un libro e un format concerto
«Dai nostri incontri nacque l’idea di confrontarci in una lunga intervista sui temi del rapporto tra musica e poesia, del corpo che muove prima e dell’autenticità necessari, fondamento imprescindibile tanto all’identità quanto alla creazione artistica, come del resto al nostro essere uomini e donne in cammino.
Da qui prese vita anche la possibilità di condividere il palco, accanto alla sua estrema generosità, tanto nel raccontarsi quanto nell’esprimersi sui suoi tasti, in un esserci in due che è diventato il nostro Concerto per pianoforte e poesia, che dal libro prende il nome: “Di bellezza non si pecca, eppure”.»
Parlando di bellezza in stile Fabi: hai avuto modo di ascoltare il nuovo, prezioso, album “Libertà negli occhi” di Niccolò?
«Alla presentazione dello scorso 18 maggio, al Conventino. Niccolò mi chiese se avessi avuto modo di ascoltare il disco e cosa ne pensassi. La mia risposta, come sempre accade quando qualcuno è capace di togliermi le parole, fu un vago e riservatissimo, ma densissimo, “sì, dall’altro giorno, e lo trovo bellissimo. Dico davvero, da Poeta a Poeta, e ti ringrazio.”
Poeti e Musica. Esiste un modo altro di approcciarsi alla scrittura, se parliamo di un testo destinato all’incontro con la musica?
«Certamente esiste una maniera altra di comporre, così come dicevo, sullo spartito del fiato, ogni volta che scelgo di farlo accompagnandomi alla musica.
Esiste un fare spazio differente ogni volta che il mio strumento diventa un noi, non limitandosi alla mia sola voce nuda, che deve tener conto del mio corpo, delle mie mani come prolungamento di me in scena, di un modo solo mio di estendere la voce per contagiare il pubblico.
Collaborare con la musica – ho imparato presto – significa fare spazio a un altro respiro che scrive con me l’accadere di quell’unico testo capace di portarsi dentro note e fonemi insieme.»
Tante storie, tanti incontri importanti nella tua carriera. Forse la bellezza della poesia è un portale magico che mette in comunicazione anime speciali
«Quanta fierezza c’è in me, lo ammetto, nel ripensare a ciascuna di queste collaborazioni, incontri, che mi rendono così grata.»


C’è una delle tue poesie – Impromptu (o dell’impronta che resta) – tratta dal tuo libro “Di bellezza non si pecca eppure (O del corpo che muove prima)”, che mi emoziona ad ogni rilettura per la sua intensità.
(…) Io, dalle mani, dalle tue, le tue soltanto / Solo le dita, quelle tue, lungo i miei tasti. / E l’aderire fermo e fiero sulla bocca. / La forma esatta, sulle labbra, a farmi cava. / Resto in silenzio per sentire, arresa, ausculto. / Mi faccio olfatto, già mondata, tra i tuoi palmi. / Contro lo sterno, salgo, sfrego, chiamo il genio, / che ci esaudisca per la grazia che ci consta. […] Come una scorciatoia per il mondo, / infilami, guidando, senza verbo. […]
Come risacca sgrumi i lembi, mi fai pronta. / Tornisci i pori per nettàre una promessa. / Cresci di bianco alla mia cala a ricolmare. / Ti fai frangente per coprirmi di nitore. / Mi scovi i passi, la prudenza ed ogni ardire. / Stretto alla schiena a computare i miei cifrari. / Parli la lingua che ricuce al mio bagliore, / tasti più piano; a feritoia, le falangi.
Mi sporgo e salto dalle mani sino al mare, / come risacca a cui non argino le risa. / Mi faccio rena, faccio sponda alla tua fame, / che spolpa il cuore ed ogni carne e me: / mi slega. (…)»
È una vertigine di immagini sensoriali, una lingua che sembra incarnarsi nel corpo che dà voce alla storia. Cosa racconta davvero per te?
«Se mi chiedi chi io sia, cosa possa rappresentare me la mia poesia, allora ricorro alla bella Idrusa.
Alle parole di questa sua impronta, improvvisa come un impromptu, che balugina e si staglia nitida a indicare quanto sia impossibile prescindere dal corpo, dal suo richiamo, da quell’eros luminoso e trasformativo che porta questa donna diversa e coraggiosa – come dovrebbe portare ciascuno di noi – a cercare la propria autodeterminazione semplicemente scegliendo di amare.
E che cos’è l’amare se non una meravigliosa improvvisazione che ci sfida a ricentrarci nella parte migliore di noi? Un impromptu, come la stessa improvvisazione poetica, quando la poesia è tale, autentica, capace di segnarci per sempre.
In questo progetto completata dall’incanto della musica di cui è capace solo il Maestro Claudio Fabi.»
Grazie Marthia, per averci accompagnato nel tuo mondo delicato. E grazie per il dono della tua poesia.
«Grazie ancora a te per l’attenzione e la cura.»
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