Il caso della famiglia che vive nel bosco: vittima o carnefice?

La storia di Catherine Birmingham e Nathan Trevallion, una coppia anglosassone (inglese lui ed australiana lei) che vivono in maniera alternativa, immersi nella natura come due secoli fa, in un’ex casa colonica senza elettricità, né servizi igienici in casa, e con i figli che non frequentano la scuola tradizionale, è una delle notizie che più mi ha colpito in queste ultime settimane.

In realtà, non è stata la storia in sé a colpirmi, ma le reazioni che si sono scatenate, i titoli dei giornali ed i commenti in tv e sui social media. Mi ha colpito non perché in qualche modo condivida la scelta di queste due persone né, tanto meno, le motivazioni che l’hanno determinata, ma il semplice fatto che la loro scelta di vita – quando non in contrasto con la legge – riguarda solo ed unicamente loro.

Il caso della famiglia che vive nel bosco, è una libera e manifesta espressione del diritto di autodeterminazione, ovvero del diritto di ogni individuo di decidere liberamente della propria vita, del proprio corpo e delle proprie scelte esistenziali, senza imposizioni esterne, purché, con tali scelte, non si ledano i diritti altrui o l’ordine pubblico.

Ma so bene che, quando si inizia a parlare di dichiarazione universale dei diritti umani e di autodeterminazione dei popoli o di carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sembra che si parli di massimi sistemi, di filosofia e di altre questioni molto distanti dal quotidiano.

Liberi liberi siamo noi…?

In realtà si tratta di questioni più concrete di quanto si possa pensare di prima acchito e, per essere più chiara, vi farò qualche esempio HOT.  I diritti fondamentali dell’individuo riguardano questioni come la libertà di decidere se sottoporsi o meno a un trattamento medico (consenso informato), la libertà di scelta sul fine vita (diritto all’interruzione dei trattamenti o al suicidio assistito), la libertà – udite, udite – di scegliere orientamento sessuale, identità di genere, religione o – e qui arriviamo ai nostri moderni eremiti di Palmoli – la libertà di scegliere la propria filosofia di vita e la libertà nelle decisioni familiari (matrimonio, genitorialità, etc.).

Sì, mi ha molto colpito tutto il clamore attorno alla storia di questa famiglia, diventata – proprio malgrado – protagonista dell’attualità degli ultimi giorni. Mi hanno infastidito, in particolare, i titoli delle testate storiche o di rilievo nazionale e internazionale, costruiti – come oramai accade sempre – unicamente con lo scopo di catturare l’attenzione e “vendere” surfando sulla superficie, o meglio, sulla superficialità del senso comune e senza alcun reale interesse o scrupolo etico-morale nel presentare un’informazione corretta e utile al lettore, salvo poi correggere il tiro man mano che emergevano dettagli che incontravano il favore dell’opinione pubblica. Ma forse questo senso comune è oramai così profondamente penetrato nella nostra società da non essere più strumentalizzabile, forse sono i giornalisti, così come molti altri, ad essere strumenti del pensiero comune.

Edizione straordinaria!

Sì, perché in questi giorni tutti noi abbiamo letto titoli del tipo: “Abruzzo, tre bambini cresciuti isolati nel bosco: interviene la procura minorile”, accompagnati da sottotitoli ed approfondimenti ad evidenziare come i “poveretti” vivessero in un rudere senza servizi igienici, riscaldamento ed acqua potabile, con bambini allo stato “brado” che non frequentano la scuola, e sul necessario e provvidenziale intervento dei servizi sociali che ha portato la procura minorile dell’Aquila a chiedere un intervento urgente per “grave pregiudizio nei confronti dei minori”, fino a ipotizzare l’affidamento dei minori e una limitazione della responsabilità genitoriale.

Prima di proseguire, e onde evitare di generare qualsiasi fraintendimento, faccio una doverosa precisazione: l’intervento dei servizi sociali è stato corretto e, anzi, era auspicabile. Il loro compito è proprio garantire che ogni persona abbia la possibilità di vivere una vita dignitosa, partecipata e autonoma, intervenendo attivamente quando si ipotizzano, o si accertano situazioni di bisogno, difficoltà o esclusione sociale al fine di rimuovere gli ostacoli sociali ed economici che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e quindi promuovere la partecipazione sociale, l’inclusione e l’accesso ai diritti. Ma strumentalizzare questo intervento — correttamente sollecitato da una struttura pubblica — come hanno fatto quasi tutte le testate, è moralmente deplorevole.

La dura legge del Mainstream

Oltre al sensazionalismo, ciò che emerge, in tutta la propria cruda e spietata realtà, è l’assoluta incoerenza del pensiero “mainstream“.
C’è infatti qualcosa di profondamente perverso nella “cultura” attualmente dominante e qualcosa di aberrante nelle contraddizioni della nostra società. E c’è qualcosa di deviato, se non addirittura di malato, in questa assurda abitudine di avversare tutto ciò che si discosta dal pensiero comune, mentre in piazza, con violenza, si rivendicano libertà “assolute e senza limiti” per ogni singolo individuo nei confronti – e spesso in contrapposizione ed in antitesi – con qualsiasi gruppo di individui.

Così, mentre gli atti giudiziari dipingono uno scenario di inadeguatezza, precarietà e degrado, la coppia anglosassone replica difendendo con forza le proprie scelte, descrivendole come un atto di protezione estrema per proteggere i figli da un mondo che, sostengono, abbia già fallito.

Ma il pensiero “mainstream” non ascolta: giudica e condanna.  
Perché se non vivi come loro e non pensi come loro… sei un diverso, ma quel genere di diverso che non va integrato, ma discriminato ed emarginato: tu, povero infedele!

Ma facciamo il punto, e cerchiamo di inquadrare meglio i contorni della vicenda e la famiglia che ne è protagonista.

Chi sono i genitori della famiglia che vive nel bosco?

Lui inglese di 51 anni, parrebbe un ex artigiano del legno, Lei australiana di 46 anni, ex istruttrice di equitazione con alle spalle una carriera “notevole”, almeno secondo i canoni del pensiero “mainstream”, e tre bambini, una di otto anni e due gemelli di sei anni. Tutti apparentemente sani, sicuramente sorridenti, e piuttosto curati nell’aspetto generale.

I genitori sono due persone pacate ma, come vedremo, molto determinate e tutt’altro che sprovvedute, che hanno comunque reagito con garbo alle intromissioni ed hanno risposto a giornalisti e istituzioni con puntualità ed anche con documenti alla mano, ma soprattutto lo hanno sempre fatto con il sorriso sulle labbra e con quella serenità che noi invece abbiamo perso da tempo. Tanto per capirci, non aspettavano i servizi sociali con le bombole del gas pronte ad esplodere dentro casa.

C’era una casa molto carina….

Man mano che emergono i dettagli della storia è più che evidente che non si tratta di una situazione di emarginazione né di una scelta obbligata dettata da povertà estrema o da ignoranza. Al contrario siamo di fronte a persone istruite e “normali” almeno sempre secondo i canoni del pensiero “mainstream”.  

Hanno deciso di acquistare una casa colonica – ma forse avrebbero dovuto occuparla perché allora sarebbe scattata la “categoria protetta” e la retorica connessa – e l’hanno ristrutturata in ciò che ritenevano importante ma rinunciando ai fronzoli estetici e ad alcuni dei tanti comfort che hanno, di fatto, rammollito – almeno secondo Huxley (“The New Comfort” (Vanity Fair, aprile 1927) – la nostra società, quali l’acqua corrente, i servizi igienici in casa e il riscaldamento – così come lo intendono quelli del “mainstream” che vivono condizionati tra i 22 gradi di inverno ed i 18 di estate – ma affidandosi alla legna – o alla frescura – che il bosco generosamente offre.

Insomma, i diversi, hanno scelto di vivere come vivevano i nostri nonni o i nostri bisnonni cento anni fa o poco più.

Ma allora che cosa c’è di strano? Probabilmente molto o forse nulla.

Che cosa c’è di sbagliato? Niente di niente, per l’appunto!

Ma non per il pensiero della cultura wok, portata avanti da chi non è neppure capace di abbinare i calzini ma vuole insegnare – o meglio, imporre – a tutti gli altri come vivere la vita. Perché il pensiero “mainstream” non accetta chi non apprezza tutti i comfort della vita moderna, chi non adora la tecnologia e chi non venera la green economy e soprattutto non tollera chi non fa della sostenibilità l’unico sostantivo del proprio vocabolario: qualsiasi cosa voglia dire per loro “sostenibile”.

Ma la vita di questi signori è super sostenibile… non è che sotto sotto, ciò che dà fastidio è che sono una famiglia che non paga le bollette, non guarda tv, internet?

Sia mai che qualcuno si accorga che si può vivere diversamente!

Ecco come si racconta la famiglia che vive nel bosco – guarda il video

Il caso della famiglia che vive nel bosco: vittima o carnefice?

Poco importa, perché il pensiero “mainstream” stigmatizza chi rifiuta, in parte o del tutto, le sue regole ed i suoi standard di vita perché il pensiero wok non considera le “comodità” dei mezzi per raggiungere un fine ma il fine in sé, ovvero considera tali comodità un bene, o forse il bene assoluto. La tecnologia, l’inclusione, la sostenibilità e tutto il resto di questa devianza è divenuta verità assoluta, e allora i “diversi” vanno ricondotti sulla retta via. Bisogna convincerli e renderli “liberi” di sposare il pensiero unico, con le buone o con le cattive.

Ma ovviamente solo in determinati casi e con tutte le eccezioni che piacciono a loro. Perché, se sei nomade e del tutto lecito non mandare i figli a scuola o mandarli a mendicare (per non scrivere altro…) perché è la tua cultura, ed è del tutto normale imporre alle bambine velo e marito, non istruire le “femmine” o stuprarle perché e la tua cultura.

In questi casi, è raro sentire di una procura minorile che decide per la “sospensione della responsabilità genitoriale” e “dare i bambini in affido” e c’è sempre una sorta di accettazione/rassegnazione delle istituzioni, giustificata dalla “tutela della cultura altrui”. Peggio ancora, purtroppo, si sente di bambini maltrattati o che subiscono violenze senza che le istituzioni intervengano con una misura così drastica.

Due pesi e due misure.

Forse perché questa famiglia non ha un’intera comunità alle spalle che faccia cerchio e li tuteli?

Intendo dire, se fossero parte di una comunità etnica extracomunitaria, dalle abitudini nomadi e con una coesione sociale centralizzata sulla difesa del gruppo, si sarebbe attivato lo stesso iter burocratico?

Ricordiamo ancora una volta, che i bambini sono ben nutriti, vaccinati, sono seguiti da un pediatra, frequentano i loro coetanei e la bambina ha superato positivamente le prove di idoneità scolastiche. La famiglia ha amici che hanno sposato lo stesso stile di vita, altri, invece, che vivono in modo diverso ma, tutti coloro che li frequentano, testimoniano di una famiglia che ha fatto una scelta compatibile con l’adeguata crescita dei figli.

Il caso della famiglia che vive nel bosco: vittima o carnefice?

La legge è uguale per tutti?

Tutti i figli pagano (o beneficiano) le scelte dei genitori, subiscono lo stile di vita dei genitori, crescono nelle condizioni scelte dai genitori, ma questo sta alla base del podestà genitoriale e del concetto di famiglia, come nucleo fondamentale della società moderna e di tutti i tempi.

La vicenda è complessa e non si risolve con un giudizio sommario. Il dovere dello Stato è proteggere i minori quando vi siano rischi concreti, non quando qualcosa appare semplicemente insolito.

Il punto, quindi, non è giudicare una singola famiglia. Il punto è interrogarsi su come e quando il sistema debba intervenire. Perché la sensazione diffusa è che la mano pubblica sia talvolta solerte con chi vive fuori dai percorsi tradizionali e molto meno presente in contesti dove i problemi sono strutturali, riconosciuti e accettati da anni.

Le lacune di scolarizzazione in alcuni insediamenti informali, la dispersione scolastica elevata in molte periferie, i casi documentati di violenza domestica in nuclei che vivono nel pieno centro delle nostre città: tutto questo esiste e spesso non incontra la stessa rapidità di intervento, la stessa attenzione, lo stesso zelo. È qui che nasce il caso. Non perché la vicenda non meriti un controllo, ma perché è difficile accettare che un criterio appaia rigido con alcuni e lassista con altri.

La tutela dei minori dovrebbe essere un principio uguale per tutti.

La protezione dell’infanzia non è un terreno da percorrere a macchia di leopardo. Se lo Stato ritiene di dover intervenire quando un bambino cresce in un ambiente alternativo, allora deve farlo con la stessa energia quando un bambino cresce in un ambiente degradato, violento, o privato dei suoi diritti fondamentali. Non si può scegliere a seconda della visibilità mediatica o dell’imbarazzo politico.

Questa vicenda obbliga a una riflessione seria sul funzionamento delle procure minorili e dei servizi sociali. Occorre trasparenza nei criteri, proporzionalità nelle misure e soprattutto equità. Nessuna famiglia, italiana o straniera, organizzata o marginale, dovrebbe avere la sensazione che l’ago della bilancia cambi a seconda di chi sei o di dove vivi.

Ciò che davvero serve, è un sistema che intervenga presto e bene quando un minore è realmente in pericolo, che accompagni le famiglie invece di colpirle quando non è necessario, che non confonda stili di vita poco convenzionali con maltrattamento.

La storia di Arezzo ci ricorda che la giustizia minorile non dovrebbe e non può permettersi zone d’ombra. La credibilità delle istituzioni si gioca proprio nella capacità di essere giuste sempre, non solo quando è più semplice.

Ma questa singolare vicenda apre un tema ancora più profondo: il diritto di ogni genitore di crescere i propri figli secondo la propria visione del mondo, entro il limite invalicabile della sicurezza e della dignità dei minori. È un confine sottile e spesso scivoloso. Non è semplice stabilire dove finisca la libertà educativa e dove inizi una condizione considerata inadeguata dallo Stato.

Stile di vita alternativo o stile di vita pericoloso?

Nel caso di questa famiglia, i bambini sono stati valutati idonei dal punto di vista scolastico. Studiano, apprendono e mostrano un livello di preparazione ritenuto adeguato. Questo elemento non è secondario, perchè indica che la scelta di vivere fuori dai canoni non ha compromesso la loro crescita intellettiva. Il nodo quindi non è l’istruzione, ma le condizioni materiali di vita.

La contestazione delle istituzioni riguarda l’assenza di bagno, acqua corrente ed elettricità. Per i genitori si tratta di una scelta consapevole. Rifiutano l’acqua trattata perchè la considerano “troppo ricca di cloro” (cit.). Vivono senza corrente elettrica perchè hanno deciso di limitare al massimo l’impatto ecologico e tecnologico. Si riscaldano con una stufa a legna, soluzione che fino a poche generazioni fa era la normalità per tutte le famiglie italiane.

Questo modello di vita è radicale, non c’è dubbio.

La domanda però è un’altra: la sua radicalità lo rende automaticamente pericoloso? La povertà di comfort è sinonimo di trascuratezza?

Il caso della famiglia che vive nel bosco: vittima o carnefice?

La modernità è l’unico metro per misurare la cura parentale?

Una società che si considera adulta dovrebbe saper distinguere tra trascuratezza e scelta alternativa. Le condizioni igieniche non vanno giudicate solo in base agli standard urbani. Vanno valutate secondo criteri di effettiva salubrità e sicurezza. Una casa senza bagno tradizionale non equivale a una casa insalubre se esiste un sistema diverso, anche rudimentale, ma funzionale. Una casa senza elettricità non rende automaticamente un minore meno tutelato, se quell’assenza è gestita con attenzione e non comporta rischi.

Il punto è la proporzionalità. Se la scelta dei genitori è estrema ma coerente, e se i figli sono nutriti, al sicuro, istruiti e seguiti, lo Stato dovrebbe agire con prudenza. Perchè togliere un bambino dalla propria famiglia è sempre l’atto più invasivo che un’istituzione possa compiere. Si tratta di una decisione che deve poggiare su evidenze indiscutibili, non su differenze culturali.

Questa vicenda ci mette davanti a una questione che raramente affrontiamo: quanto spazio diamo alla diversità nel modo di crescere i figli?

Siamo davvero disposti a tollerare modelli di vita che non coincidono con il nostro, finché non violano diritti fondamentali?

Il rischio è scivolare in una forma di paternalismo di Stato che confonde benessere con uniformità. Una comunità viva è una comunità che accetta la pluralità. Una comunità matura è una comunità che interviene quando un minore corre un pericolo reale, non quando semplicemente non riconosciamo il suo stile di vita.

La verità è che vivendo in una società che è tutt’altro che priva di difetti ed avendo sposato uno stile di vita tutt’altro che privo di incongruenze e contraddizioni, non dobbiamo scagliarci contro la loro scelta, giusta o sbagliata che la si ritenga, perché è una scelta consapevole e come tale va difesa, sempre che non sia contraria alla legge e non crei pregiudizio ai figli.
Diversamente, la loro fuga deliberata da una società che ritengono “tossica” ed il loro pensiero – assolutamente discutibile e criticabile per moltissimi aspetti – dovrebbe indurci a qualche riflessione, su temi e questioni di una certa importanza. Mi riferisco alla loro dichiarazione che un tempo i bambini crescevano in “libertà, amore e felicità”, ed invece oggi sono “stressati, malati, separati ed emotivamente sofferenti”: affermazione che credo colga decisamente nel segno.

La junk culture

Già, siamo proprio sicuri che il modo giusto di crescere i nostri figli – sia quello proposto da una società la cui unità di base – la famiglia – frammentata, quando non addirittura disgregata, cresce i figli in quella che essa stessa definisce “junk culture” e delega la formazione e il tempo libero dei figli al mercato, che propone loro modelli fondati su competizione e culto del successo immediato e della gratificazione istantanea diffondendo così una normalizzazione del cinismo e dell’indifferenza, dove il successo è più importante della moralità, ed il consumismo diviene il principale modello educativo: avere anziché essere.

In questo relativismo etico, sempre più famiglie stanno progressivamente perdendo il contatto con i figli e con esso la capacità di ascolto, rinunciando così a qualsiasi funzione educativa, sia valoriale che affettiva, riducendo la famiglia ad una mera unita di gestione logistica priva di qualsiasi autorevolezza, per timore di risultare autoritaria, e priva di vero affetto sempre più spesso sostituito dalla più comoda compensazione, che li asseconda ed accontenta in tutto. Il risultato è una generazione satura di individui iperprotetti, totalmente incapaci di gestire la frustrazione, il fallimento e la responsabilità.

Come stanno i figli della nostra società?

I numeri non mentono, e rilevano un quadro decisamente più preoccupante di quello manifestato dai bambini della famiglia che vive nel bosco.

Le indagini statistiche rilevano che i disturbi d’ansia come la preoccupazione persistente, il timore eccessivo e gli attacchi di panico sono in continua crescita tra gli adolescenti. Così come la depressione, i disturbi dell’umore, l’apatia e la stanchezza psicologica sono divenuti quasi la normalità. Ma le casistiche sono in crescita anche per i disturbi del sonno, i disturbi alimentari, i disturbi di attenzione/iperattività – ADHD, i disturbi della condotta e persino per la diffusione di disturbi neurologici che, sebbene non siano scientificamente direttamente correlati con “la vita moderna e la diffusione della tecnologia”, presentano numeri mai visti prima.

E che cosa dire del crescente isolamento sociale, della solitudine, delle difficoltà relazionali e della sensazione di inadeguatezza che confessano moltissimi ragazzi e sempre più in giovane età? Disagio sociale ed incapacità relazionale che l’uso problematico di social media e tecnologia non fanno che potenziare generando problemi di gravi crisi di identità, di autostima, e di immagine corporea sino ad instillare pensieri o comportamenti suicidari o di autolesionismo. E qui mi fermo perché potremmo citare anche le difficoltà motorie e altri disturbi fisici in crescita tra bambini ed adolescenti o la questione delle dipendenze da alcol, droghe, gioco d’azzardo e social networks.

Allora siamo davvero certi che stiamo crescendo bene i nostri figli?
Siamo sicuri che gli stiamo creando le migliori condizioni di vita possibile?

O forse si stanno criticando questi due genitori perché inconsciamente sappiamo che non è giusto lasciare i figli a baby-sitter improvvisati, dalla modesta istruzione e che non parlano la nostra lingua, che è sbagliato creare agende iper-stressanti per tenerli occupati abbastanza a lungo per conciliare gli orari di lavoro e della scuola, e che liberarsene anestetizzandoli fin da piccoli con diverse modalità video – perché anche noi genitori abbiamo le nostre esigenze di individui e sempre più marcate – non viene fatto certamente per “il loro bene”?

La verità è che c’è molto che non funziona nel nostro sistema sociale sia per portarlo come esempio che, tanto meno, per giudicare chi lo ripudia. E soprattutto c’è molto che non funziona in questo egocentrismo, in questa presunzione che sta alla base dell’ideologia sociale contemporanea, e troppo che non funziona in questo pensiero egoriferito per il quale oggi tutti ritengono – e sono legittimati a farlo – che “ci sono io con i miei diritti, poi ancora io con le mie esigenze e le mie debolezze – ovviamente da assecondare, comprendere e giustificare – e poi ancora io in un mondo totalmente libero in cui tutto è lecito purché non avvenga nel mio giardino, ledendo – o semplicemente infastidendo – la mia sensibilità di individuo.“ 

Sì, questo è – in sintesi – il pensiero largamente diffuso nella nostra società occidentale, quello che oggi quegli stessi cultori di questa ideologia amano definire “mainstream”, e solamente perché utilizzare l’equivalente nella lingua italiana – “pensiero dominante” – non sarebbe altrettanto “cool”. Già anche questa “dell’inglese a tutti i costi” è un’altra perversione ossessiva, ai limiti del ridicolo, che caratterizza in negativo la cultura pop, senza identità, della nostra nazione: ma questa è un’altra storia.

Questione di coscienza…

Ciò che è veramente grave è che questa grande perversione del pensiero “mainstream” origina dalla mancanza di una morale autentica e realmente processata. Alla società contemporanea manca infatti, e completamente, quel percorso di riflessione sulle “questioni di coscienza” e di elaborazione dei “dilemmi morali” – che prima o poi attraversa le menti di ciascuno di noi e che è necessario per elaborare una coscienza morale e dei principi etici. Oggi ci sono solamente tante regole “etiche”, alle quali è obbligatorio conformarsi, pena il pubblico ludibrio o, peggio ancora, la gogna, ammassate in quello che non è né il manifesto di un movimento né tanto meno il suo compendio, dato che di sintesi non c’è neppure l’ombra.

Questo delirio è il risultato della degenerazione di una volontà di inclusione e di rispetto che ha scaturito l’esatto opposto della tolleranza e della integrazione, il contrario della libertà di pensiero e di scelta: insomma ha creato solamente un folle ed infinto elenco di comportamenti e di linguaggi approssimativamente codificati e malamente preconfezionati per adattarsi ad ogni circostanza, ma che di fatto sono un guazzabuglio di idee, di principi e di valori presi qua e là tra le varie culture e religioni, che creano solamente confusione e codici di comportamento spesso antitetici. E così, “pensando” e “pazziando”, la società occidentale è divenuta la società delle regole, delle tante regole e delle infinite specificazioni pensate per includere tutti e per non offendere nessuno, una società “progettata” per essere tutti “neutri” e “neutrali” e, di fatto, tutti socialmente “neutralizzati”.

…Questione di buon senso

Potremmo metterla sul piano intellettuale, quello che un tempo era il vanto dei sinistri, scrivendo delle teorie dello psicologo e psicoanalista Erik Erikson, e della sua teoria di sviluppo morale che, nell’intero arco della vita, determina lo sviluppo emotivo umano tra crisi psicosociali e conflitti utili per trovare il proprio equilibrio. Potremmo scrivere di qualcuno dei suoi colleghi “teorici dell’evoluzione morale” da Kohlberg a Piaget – fondatore dello studio psicologico dello sviluppo morale – o di Lawrence e di Carol Gilligan, collaboratrice e critica di Kohlberg… ma noi siamo persone semplici, e per questo ci limiteremo ad appellarci al buon senso comune, quello che, dai tempi che furono, regola il mondo ed i rapporti sociali.

Quel buon senso sul quale, un tempo, poggiavano quei principi morali – condivisi con la propria comunità – che creavano una scala di valori e, quindi, di regole etiche che sostenevano il mondo ed aiutavano le persone, tutte le persone, nell’interpretare, affrontare e regolare i fatti della vita. Non ideologie applicate a caso, come e quando capita, secondo comodo e quindi senza alcuna coerenza di pensiero e di giudizio, ma principi morali sentiti e profondamente condivisi, che erano il motore delle comunità. Mentre oggi, da un lato si predica – giustamente – una società aperta, inclusiva, attenta a non discriminare, e dall’altro si razzola nel fango di aggressioni verbali ed emarginazione di chi la pensa diversamente.

Parafrasando Wilde, potremmo descrivere la morale dell’individuo wok come la confusione che regna in un negozio di rigattiere, tutto mostruosità e polvere ed ogni cosa con il suo prezzo.

Foto copertina di Jirka da Pixabay

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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
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