Digital Creator sotto la lente del “Ministero della Verità”

Ci siamo: è stato creato l’albo ufficiale dei digital creator, meglio noti come influencer. L’Italia è tra le prime nazioni a introdurre ufficialmente il proprio “Ministero della Verità”. E non poteva accadere diversamente nel Paese delle corporazioni e degli albi.
Ma qual è il vero scopo di questo registro: quello dichiarato, “virtuoso”, o quello che emerge leggendo gli addendum della normativa?

Ve lo ricordate il Ministero della Verità, “Minitrue” in Newspeak?
L’edificio che Winston descrive sorprendentemente diverso da qualsiasi altro e sul quale campeggiavano, a lettere cubitali tipiche del totalitarismo, gli slogan del partito: War is Peace, Freedom is Slavery, Ignorance is Strength.

Questi motti, frutto della straordinaria creatività di un grande artista, oggi sembrano più attuali che mai perché descrivono con precisione la volontà di controllo culturale che attraversa la società contemporanea.

1984

1984” nacque all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, in un contesto sociale profondamente segnato dal trauma del conflitto e ancora attraversato da dittature e sistemi di censura. Il dibattito intellettuale ruotava soprattutto attorno alle libertà individuali, alla democrazia e al controllo dei media, in un’Europa che, segnata dagli orrori di nazismo e fascismo, condivideva appieno la preoccupazione di George Orwell verso il regime di Stalin in Unione Sovietica.

E se nel romanzo ad ispirare la società distopica furono le purghe, la propaganda di massa, il culto della personalità e la sorveglianza continua del regime sovietico, oggi dietro la “normativa sull’attività degli influencer” troviamo la medesima dinamica, generata ed alimentata dalla cultura WOK: culto della personalità, propaganda del pensiero “dei giusti”, purghe – anche se virtuali – e sorveglianza costante descrivono con precisione la deriva del pensiero occidentale e la progressiva perdita di libertà individuale, di cui i social media sono l’esempio più evidente, anche se, qualora diversamente “vissuti”, potrebbero esserne proprio l’antidoto.

La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni

Il nuovo “Ministero della Verità” targato AGCOM nasce davvero dal corretto intercetto di un’emergenza economica, o si cela semplicemente dietro di essa? La volontà è veramente di regolamentare un mondo digitale che, fino a pochi anni fa, neppure esisteva, ma che oggi ha un valore economico rilevante, con impatti diretti sull’economia reale e sulla fiscalità?

Perché, alla fine, per uno Stato – a differenza delle aziende – tutto non dovrebbe ridursi a fatturato e incassi, ma deve mantenere una componente più alta, ovvero aspirare al benessere del popolo e, allo stesso tempo, esercitare il controllo sulla sicurezza della vita pubblica, nel bene e nel male.

Leggendo la normativa, o meglio il suo allegato A, appare però subito chiaro che l’intento non sia unicamente di carattere economico e fiscale ma, poiché a noi piace pensare bene e non fare peccato, diciamo che al legislatore nello scrivere la normativa gli è “sfuggita di mano” la penna. Perché, altrimenti, verrebbe da pensare che dietro alla “presunta” volontà di regolare il settore ed al legittimo intento di risolvere un vuoto normativo, si nascondano intenti di ingegneria sociale.

Che cosa dice il codice di condotta?

Prima di tutto, concentriamoci sulla parte corretta e apprezzabile di questo albo — che in realtà albo non è, dato che non ha una natura amministrativo‑archivistica, ma è un semplice registro pubblico gestito dall’AGCOM — che punta ad assimilare i creator digitali agli altri fornitori di servizi media audiovisivi, per intenderci le emittenti televisive tradizionali, le piattaforme di streaming (come Netflix, Amazon Prime Video, Paramount+, Disney+, Apple TV+, HBO Max, Peacock, ecc.) e le piattaforme online che diffondono contenuti audiovisivi (come Youtube, tiktok, Twitch, Facebook, Instagram, ecc.).

Un intervento che, già di per sé, inciderebbe in modo significativo sull’intero ecosistema del marketing e della comunicazione (influencer, brand, agenzie, piattaforme social e, naturalmente, il pubblico), ma che completato con l’allegato A – il “codice di condotta” – assume altri significati e scopi.

Tutti condividiamo la necessità, e riteniamo quindi più che giusto, anzi doveroso, regolamentare l’influencer marketing, poiché incide profondamente sulle scelte di consumo e sui comportamenti sociali. Proprio per questo si apprezza l’intento di tutelare i consumatori e si comprende lo spirito che ha mosso gran parte della delibera n. 197/2025, con la quale l’Italia ha recepito il Digital Services Act (DSA) e le altre iniziative della Comunità Europea ancora in evoluzione, definendo in essa, criteri, obblighi, regole e sanzioni ed introducendo – in un settore troppo a lungo lasciato all’autogestione – il concetto di trasparenza.

It is always with the best intentions that the worst work is done

Obiettivo di trasparenza che però – in quell’assurda esigenza, tutta contemporanea, della categorizzazione e dell’etichettatura di tutto, ha finito con il trasformarsi in volontà di garantire la “correttezza formale” dei contenuti, quindi in protezione dei minori, delle minoranze e di tutti gli esseri umani nella loro unicità e tipicità, scadendo poi – e non poteva essere che così – nella presunzione di insegnare ciò che è giusto fare o dire e ciò che diversamente non va fatto, detto ma neppure pensato, definendo di conseguenza un dettagliato regolamento dei comportamenti permessi.

Ed è così che l’infinita catena di categorie e precisazioni, costruita per includere ogni possibile casistica, ha creato un mostro spaventoso: non per la mole, ma per la sostanza.

Era già accaduto con il femminicidio, dove una nuova etichetta ha generato una fattispecie di reato già pienamente ricompresa nelle norme esistenti e nelle aggravanti o attenuanti applicabili – caso su caso – dai giudici, producendo una mostruosità legislativa in evidente contrasto con il tanto cantato “diritto di genere” ma soprattutto con uno dei valori supremo fondanti in qualsiasi democrazia: “La legge è uguale per tutti”. Ma con i maschi, si sa, si può fare…

La “vera verità” è che, quando l’opinione pubblica spinge con forza, anche in democrazia il mezzo più semplice per governarla è assecondarla, aggirando questioni e princìpi e, all’atto pratico, raggirando il popolo: un metodo molto più facile e assai più pratico e veloce di gestire Gerione in “Erythia”, piuttosto che informarlo ed educarlo.

Dio punisce i malvagi… e a volte anche i giusti

È con questo animo malato ed è in questo contesto sociale che O’Brien e compagni hanno partorito Ortros, il Codice di Condotta degli Influencer a due teste, una buona ed una cattiva. E non accetto l’opinione ingenua di chi sostiene che non fossero coscienti del proprio errore, dato che si sono premurati di specificare nelle premesse che […] si applica agli “influencer rilevanti” come definiti dal paragrafo 1 delle Linee guida di cui all’Allegato A alla delibera n. 7/24/CONS (di seguito “Linee guida)” e a ogni contenuto, di qualsivoglia natura, pubblicato da questi ultimi.

Per tutti gli influencer che non superano le soglie indicate al paragrafo 4. i. delle Linee guida, resta ferma l’applicabilità degli articoli 41 e 42 del Testo unico,1 e della delibera n. 298/23/CONS, recante “Regolamento recante attuazione dell’art. 41, comma 9, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 208  […].

Norme la cui applicazione è però demandata alle piattaforme Social.

Già questa distinzione inserita nelle premesse è un grave indizio di colpevolezza, se non addirittura un’ammissione di responsabilità, perché un reato d’odio, una istigazione a delinquere o al suicidio, una discriminazione sessuale, raziale o di altro genere, la diffamazione e qualsiasi altro reato che possa essere commesso sui social, resta reato anche per chi di follower non né ha neppure uno.

In buona sostanza, già dalle premesse si capisce che l’utilizzo di questo codice di condotta non è finalizzato a garantire la legalità a difesa del consumatore, ma diversamente intende imporre un modus operandi che sia in assoluta conformità con il pensiero mainstream della cultura WOK. E scrivo ancora di cultura WOK perché l’accozzaglia di idee e di filosofie spicciole di vita che muove gli intenti della banda WOK, rappresenta gran parte del delirio popolare di inclusione che divide, parità che discrimina e libertà che opprime nel quale sta affondando la cultura occidentale.

Dal registro pubblico al codice di condotta: che cosa cambia davvero per i creator digitali?

A questo punto occorre raccontare nel dettaglio che cosa prevede la Delibera n. 197/2025 AGCOM, quali obblighi introduce e quali sanzioni prevede per il mancato rispetto delle regole da parte di chi opera come creator digitale, ma – ricordiamolo – solo se ha numeri di follower superiori a 500.000 e/o interazioni mensili oltre il milione. È importante sottolinearlo perché questa discriminante in premessa viene proposta proprio quanto il mercato si sta decisamente orientando verso i Micro e Nano influencer.

Ma possibile che i nostri burocrati siano sempre così distratti?

Mi permetto una precisazione per tutti quanti non si occupano di marketing. I nano influencer, identificati in chi ha tra i mille e i diecimila follower, sono utenti estremamente attivi che parlano a comunità piccole ma molto coinvolte, spesso legate a un territorio o a un interesse specifico. La loro forza risiede nell’autenticità: sono infatti percepiti come persone comuni e per questo più credibili e più vicine, proprio perché prive della presunzione patinata di chi si crede una star del web.

Per questa ragione il loro pubblico tende a fidarsi delle loro opinioni e delle loro raccomandazioni, che non sembrano pubblicità ma veri consigli tra pari.  Sono invece definiti micro-influencer, quelli che oscillano tra i diecimila e i centomila follower che, pur avendo una platea più ampia, mantengono un rapporto diretto e genuino con la propria community, spesso verticalizzata su un tema e/o interesse specifico.

Il mercato sta sempre più puntando su queste due categorie perchè questi digital creator minori sono percepiti più autentici e garantiscono quindi performance complessive superiori, in quanto l’engagement è più alto, dato che parlano a pochi che però li ascoltano davvero, i costi sono molto più accessibili permettendo di costruire campagne “diffuse” utilizzando molti profili differenti anziché un solo creator di alto lignaggio, e aumentando così la capillarità e l’efficacia del messaggio.

Ma torniamo ai nostri Winston Smith ed agli obblighi del Grande Fratello Orwelliano

Tra i punti principali della direttiva troviamo l’obbligo, entro i prossimi 3 mesi, di iscrizione al registro pubblico – fornendo dati identificativi, tipologia di contenuti e canali utilizzati – per tutti gli influencer digital creator con più di mezzo milione di follower o di un milione di interazioni mese; l’obbligo di trasparenza dei compensi e delle collaborazioni nel rispetto del quale ogni contenuto sponsorizzato dovrà riportare informazioni precise sui brand coinvolti, secondo linee guida simili a quelle già previste dal Digital Services Act; ed infine l’obbligo di etichettatura dei contenuti, nel rispetto del quale, anche i post educativi, culturali, di informazione, di intrattenimento o anche i profili personali, potrebbero essere soggetti a classificazioni e tag obbligatori.

Ovviamente dove vi sono obblighi vi sono controlli e sanzioni per gli inadempienti. In caso di violazioni, il registro prevede richiami, multe fino a 250 mila euro, e fino a 600 mila nel caso di violazioni a danno di minori, nonché – ovviamente – la possibilità di sospendere la pubblicazione dei contenuti.

Regolamentazione o censura?

Il quadro normativo appare quindi piuttosto chiaro: non si tratta di un albo simbolico, ma di un vero strumento di controllo con fini di monitoraggio fiscale e di protezione degli utenti. Tuttavia, la linea tra regolazione e censura resta sempre sottile, specialmente se il controllo viene affidato ad una autorità, molto esigua nei componenti e quindi scarsa in termini di confronto e che, sebbene sia definita (da statuto) “indipendente”, viene costituita con nomine politiche (2 membri dalla Camera dei Deputati e due dal Senato della Repubblica, mentre il Presidente dell’Agcom è nominato su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, d’intesa con il Ministro delle Comunicazioni e previo parere delle competenti Commissioni parlamentari).

Molti, e non solamente tra i content creator, temono – non senza ragione – che, sia la regìa di AGCOM sia l’obbligo di categorizzazione e trasparenza dettagliata nel Codice di Condotta, finiscano per limitare la libertà creativa introducendo un meccanismo censorio del tutto soggettivo.

In altre parole, mentre lo Stato sostiene di voler tutelare i consumatori e garantire correttezza nel marketing digitale, il risultato pratico potrebbe trasformarsi in un controllo generalizzato dei contenuti ed al loro adeguamento pedissequo al pensiero mainstream del politically correct. E questo porta a una domanda inevitabile: la regolazione dettagliata, tutela davvero? Oppure serve solamente a creare gli spazi per la censura, dato che, per punire il comportamento scorretto (contra legem) di “chi pubblica”, esiste già la legge?

Libertà di espressione e regolamentazione: un equilibrio molto delicato.

Uno degli aspetti più complessi e controversi nella regolamentazione del mondo digitale, riguarda la necessità di conciliare il controllo dei contenuti con la tutela della libertà di espressione, un diritto sancito dalla Costituzione italiana (articolo 21) e dalle principali convenzioni internazionali sui diritti umani, perché, in realtà, il controllo dei contenuti è già esercitato dai tanti “sceriffi” dell’epoca moderna che non desiderano altro che additare il prossimo, e dalla sempre più ampia squadra dei leoni da tastiera, sempre attenti alle pagliuzze negli occhi dei fratelli.

Se da un lato, è innegabile che la crescita esponenziale dell’influencer marketing e la diffusione massiccia dei contenuti sui social media richiedano strumenti di trasparenza, dall’altro lato, però, ogni tentativo di regolamentazione deve fare i conti con il pericolo di trasformarsi in censura mascherata. Quando un’autorità, per quanto indipendente, ha il potere di stabilire cosa può essere detto o pubblicato, si pone il problema della limitazione della libertà di opinione, della pluralità dei punti di vista e del diritto dei cittadini a informarsi da fonti diverse, anche scomode o critiche. Insomma, il rischio di manipolazioni è reale e merita attenzione.

La verità, tra algoritmi e fake news

Personalmente, credo che solo la pluralità dell’informazione, del pensiero e della libertà di parola – che i social media mettono a disposizione anche a chi non possiede una tv o un giornale – possa generare nel tempo un vero equilibrio. Intendo che l’ampia libertà offerta – ad esempio – da TikTok (a parte la ridicola censura di alcune parole, facilmente aggirata con puntini o asterischi) regoli in autonomia la circolazione di fake news, di idee balzane o di contenuti che ledono i diritti e/o la dignità di chiunque, così come i contenuti sessisti, razzisti e qualsiasi comportamento, evidentemente sconveniente o contro la legge, salvo bannare anche in maniera non omogenea contenuti innocui ma ritenuti pericolosi al controllo di un algoritmo che non è in grado di distinguere, comprendere e capire contesti e situazioni.

Per ogni contenuto discutibile ce ne sono decine che levano gli scudi a difesa del pensiero mainstream. Il confronto ed il dibattito sono liberi e ricchi, ed alle autorità di controllo sarebbe sufficiente navigare per intercettare i comportamenti Contra Legem grazie alle segnalazioni e/o alle crociate contro post, reel o video, o contro altri digital creator, rei di comportamenti ritenuti non consoni.

Vi porterò un esempio per chiarire che cosa intendo. Solamente poche ore dopo l’orribile figuraccia del procuratore Nicola Gratteri riguardo la fantomatica intervista del giudice Borsellino sulla separazione delle carriere, citata durante la trasmissione Piazza Pulita in onda sul canale La 7, sulla piattaforma social TikTok vi erano già decine di video che trattavano l’argomento, e mentre in alcuni si sollevando dubbi e in altri si cercavano conferme, il dibatto era fervente e già il giorno successivo circolavano altri video a commento delle informazione messe a disposizione da “Facta” e da “Il Dubbio”, che hanno smascherato nero su bianco l’intervista come una fake news.

Nessuna buona azione resta impunita

Insomma, sui social, dove l’informazione circola velocemente, basterebbe tenere un approccio critico e pluralistico per individuare immediatamente le cosiddette Fake News, ovvero è sufficiente confrontare le fonti, verificare i dati, leggere/ascoltare opinioni diverse e non fermarsi mai alla prima “notizia”.

Ma tornando al delicato compito che si è data l’AGCOM è importante ricordare che la Costituzione — che secondo molti non potrebbe essere migliore persino se fosse stata dettata direttamente da Dio — tutela la libertà di espressione e non solo come diritto individuale, ma anche come pilastro della democrazia. E le normative di legge attuali tutelano efficacemente il rispetto di questa, come di quasi tutte le altre libertà. Per questa ragione, ogni ulteriore norma o regolamento che intervenga su questo tema si muove su un terreno molto insidioso per una missione degna di Don Chisciotte della Mancia.

La sfida per AGCOM sarà dunque operare con equilibrio: controllare senza soffocare, proteggere senza censurare, tutelare senza trasformare il diritto all’informazione in un atto di omologazione. E Sancio Panza dovrà continuamente ricordare loro che comunque “nessuna buona azione resta impunita”.

Foto copertina di kevin hicks da Pixabay

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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
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