Cellulari vietati alle superiori: la decisione “improcrastinabile” del Ministro Valditara quali effetti avrà? Ma soprattutto di quali mali è figlia? La scuola è pronta a questa sfida? Soluzione punitiva o educativa? Esiste la dipendenza da smartphone?
Questa settimana i fatti di cronaca e di politica aprono il dibattito sull’uso degli smartphone tra i giovani. Partiamo dal fatto di cronaca: a Torino, un ragazzo, a cui i genitori avevano tolto il cellulare, probabilmente come forma di punizione, è stato ricoverato in ospedale. I sintomi che presentava erano simili a quelli dell’astinenza da sostanze stupefacenti: ansia, tremori, agitazione, mal di testa, crisi emotive.
Il secondo fatto è l’annuncio del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara: dal prossimo anno scolastico, l’uso del telefono cellulare sarà vietato anche alle superiori. E non finisce qui: Valditara ha anche annunciato che esiste già una proposta di legge bipartisan, attualmente in discussione in Parlamento, per vietare l’accesso ai social network sotto i 15 anni.
E’ forse arrivato il tempo (direi, finalmente) di aprire gli occhi su un problema sociale e culturale che coinvolge tutti, famiglie, scuola e istituzioni? Perché succede che un ragazzo finisca in ospedale con sintomi di astinenza pur non facendo uso di stupefacenti?
Astinenza da smartphone: quando il cellulare diventa una droga
Un episodio inquietante, certo, ma purtroppo non isolato. È il segnale di una dipendenza che, troppo spesso, sottovalutiamo perché non ha ancora un nome spaventoso come le altre e che, in modo improprio, viene spesso chiamata “dipendenza da smartphone“. Non si limita alla sfera comportamentale: si manifesta in forma fisica, neurologica, affettiva. Ansia acuta, disorientamento, iperattività, sintomi somatici. Sono risposte reali a una separazione che non è vissuta come rinuncia a un oggetto, ma come perdita di un sistema di riferimento personale e relazionale. Cose già viste con la dipendenza da videogiochi.
Negli ultimi dieci anni, il dispositivo mobile ha assunto, per la maggior parte degli adolescenti, una funzione ben più complessa di quella comunicativa. È diventato il luogo principale in cui si costruisce l’identità, si negoziano appartenenze, si cercano conferme e si sperimentano relazioni. La progressiva sostituzione dell’esperienza diretta con la mediazione digitale ha generato un cambiamento profondo nella percezione di sé e del mondo. Il tempo connesso non è più intrattenimento, tempo di svago: è il tempo dominante. Lì si sviluppano i codici, i linguaggi, le dinamiche emotive che regolano i rapporti tra pari. Il dispositivo è solo la porta di accesso: ciò che conta è l’ambiente che spalanca.
Ma a quale prezzo?
La baby-sitter del Millennio
Interrompere bruscamente questo accesso, anche quando motivato da esigenze educative, può generare una frattura psichica, se manca una struttura interna capace di reggere l’assenza. Ed è qui che si evidenzia la fragilità del contesto educativo e familiare. Considerando la situazione in un quadro generale e non specifico, non abbiamo preparato i ragazzi a stare senza, perché troppo spesso li abbiamo lasciati soli e non li abbiamo preparati a imparare come stare con sé stessi e con gli altri. Peggio ancora, abbiamo demandato alla tecnologia il ruolo affettivo che spetta alla famiglia.
Il telefono è entrato nella loro vita in modo progressivo ma inesorabile, senza essere accompagnato da una riflessione, da una presenza, da un limite. L’assenza di una guida adulta ha reso più profondo il legame con il dispositivo, che ha finito per assolvere, in modo parziale ma intensivo, anche funzioni affettive e regolative.
A questo punto, rimuovere il mezzo significa sottrarre anche quel fragile equilibrio che, per quanto disfunzionale, si era costruito nel tempo. Non si tratta semplicemente di un eccesso d’uso. Si tratta di un processo di interiorizzazione che ha fatto dello spazio digitale l’unico spazio abitabile.
Dipendenza da smartphone
Quando un adolescente crolla perché privato del telefono, ciò che viene meno non è la connessione, ma la continuità del proprio senso di esistenza.
Quello che definiamo “dipendenza” non è quindi un problema individuale, ma l’esito di una costruzione collettiva. È il prodotto di un vuoto educativo, di una società che ha demandato alla tecnologia il ruolo che un tempo era delle relazioni, dei tempi lunghi, del confronto reale. Non si educa alla disconnessione se non si ricostruisce prima una rete reale, quotidiana, in cui i giovani possano sentirsi visti senza bisogno di essere esibiti.
A questo punto, non basta chiederci come correggere il comportamento. Occorre indagare cosa, nella realtà che offriamo, ha reso l’ambiente digitale tanto più abitabile e sicuro. Quale promessa viene mantenuta nei social che il mondo concreto ha smesso di mantenere?
Cogito ergo sum o appareo ergo sum?
Se i social network sono diventati lo spazio privilegiato in cui gli adolescenti cercano riconoscimento, non è perché offrono leggerezza o evasione. È perché, nella loro struttura, rispondono a un bisogno profondo: sentirsi visti, ascoltati, esistere attraverso lo sguardo dell’altro. L’adolescenza è da sempre il tempo della ricerca identitaria, della costruzione del sé in relazione al gruppo dei pari. Ma in assenza di ambienti reali sufficientemente capaci di offrire ascolto, confronto, contenimento e significato, questa ricerca si è spostata online, dove l’identità non si costruisce, si espone. Dove non si è, ma si appare.
Nei contesti social, la narrazione di sé avviene per immagini, reels, post e stories che condensano emozioni complesse in formule codificate e filtrate. Non c’è spazio per la contraddizione, per il dubbio, per il tempo lungo dell’elaborazione. Lì dentro, il sé viene impacchettato, pubblicato, validato. Ogni like è un’approvazione simbolica, ogni visualizzazione un’unità di misura dell’esistenza. È una grammatica affettiva nuova, immediata, che non richiede relazione ma reazione, che non chiede verità ma coerenza con lo stile visivo e retorico dominante.
Il paradosso è che, in questa sovraesposizione continua, la soggettività si indebolisce anziché rafforzarsi. Più si cerca di affermarsi attraverso il consenso digitale, più si perde contatto con la propria interiorità. I ragazzi smettono di chiedersi chi sono per chiedersi cosa funziona. La domanda identitaria, legittima, fisiologica, viene rimpiazzata dalla domanda strategica: “Cosa devo postare per essere accettato?”.
Questo slittamento produce una forma di insicurezza cronica, un’esposizione costante al giudizio altrui che si traduce in fragilità relazionale, in paura del confronto reale, in una crescente difficoltà a sostenere il dialogo autentico, quello che non può essere sostenuto, che non può essere limitato a una foto dove i filtri offrono una immagine di sé perfetta, muscolosa, prestante o sexy senza aver fatto un minuto di palestra.
Square rooms
L’ambiente virtuale, in questo senso, è un meccanismo di regolazione sociale che sostituisce i contesti educativi deboli. Quando la scuola perde centralità, quando la famiglia si frammenta, quando i luoghi fisici di aggregazione si svuotano, il social network diventa l’unico spazio in cui un ragazzo può misurarsi con il mondo. Non perché sia migliore, ma perché è l’unico che risponde. Anche se risponde male.
Non siamo di fronte a una patologia tecnologica, ma a un vuoto simbolico. Il cellulare non sostituisce solo la comunicazione. Sostituisce la compagnia, la presenza, la tenuta emotiva. Fa le veci di un adulto assente, di una comunità sfilacciata, di un ambiente culturale che ha disimparato a offrire significati solidi. In questo scenario, la dipendenza non è una deviazione, ma una strategia di sopravvivenza in un mondo che ha reso la relazione umana opaca, incerta, faticosa.
Ciò che accade oggi nei social non è semplicemente un’abitudine moderna: è un sistema che modella le emozioni, i desideri, le insicurezze. L’identità non si costruisce più nell’incontro, ma nella prestazione. Non nella parola, ma nell’immagine. Non nella narrazione di sé, ma nella sua monetizzazione sociale. E in questa logica, ogni tentativo di riportare i ragazzi alla realtà risulta faticoso, se quella realtà non appare altrettanto capace di restituire senso, presenza, valore.
La questione, allora, non è solo come contenere l’uso del digitale. È se siamo ancora in grado di costruire ambienti, famigliari, scolastici, comunitari, che offrano esperienze vere di appartenenza. Se non c’è alternativa alla vetrina, come si può scegliere la profondità?
L’Io e l’altro
Se il mondo digitale si è imposto come spazio di rappresentazione, è anche perché il mondo reale ha progressivamente smesso di essere percepito come uno spazio sicuro. Nella quotidianità scolastica, nelle dinamiche familiari, nella vita di quartiere, l’incontro con l’altro non è più spontaneo, né necessariamente desiderabile. È diventato un’esperienza spesso faticosa, vissuta con disagio, carica di rischio. L’altro, fisicamente presente, imprevedibile, con il suo corpo, la sua voce, la sua complessità, non è più vissuto come risorsa relazionale, ma come minaccia alla propria stabilità emotiva. Ed è in questo vuoto che la comunicazione digitale si è inserita con forza.
I social non hanno cancellato le relazioni, le hanno semplificate. Hanno trasformato l’interazione in sequenza, la risposta in reazione, la presenza in visibilità. Hanno protetto dall’esposizione emotiva, dai silenzi, dall’imbarazzo. Ma nel farlo hanno contribuito a erodere le competenze relazionali che si sviluppano proprio nelle sfumature dell’incontro vero. Quello fatto di tempo, di attese, di gesti ambigui, di parole mal dette, di facce che arrossiscono. I ragazzi non sono incapaci di relazionarsi. Sono progressivamente disabituati a farlo. La spontaneità è stata sostituita da una forma di cautela continua. Ergo, mancanza di fiducia nel prossimo. Il rischio dell’errore, del rifiuto, della battuta fuori tempo è troppo alto in un mondo in cui tutto si gioca sull’immagine e sul controllo.
Cosa succede a scuola?
Nei contesti scolastici, questo è visibile in modo plastico. Ragazzi che stanno insieme solo se c’è uno schermo di mezzo. Che parlano più facilmente via chat che di persona. Che faticano a sostenere uno sguardo, a stare nel silenzio, a condividere qualcosa senza mediazione. Le pause diventano momenti di isolamento, ognuno rifugiato nel proprio dispositivo. Il gruppo, nel complesso, non è più una rete di relazione, ma un insieme di presenze parallele. La socialità si è rarefatta, appiattita, diventando spesso una finzione performativa. Ma come siamo arrivati a questo?
Questa difficoltà ha una base emotiva, ma anche culturale. L’educazione alla relazione, intesa come capacità di stare con l’altro, di ascoltarlo, di contraddirlo, di tollerarne la differenza, non è più centrale né nei contesti familiari né nei programmi scolastici. Abbiamo preferito l’autonomia precoce alla lentezza dell’apprendimento relazionale. Abbiamo sostituito la coabitazione con la convivenza digitale, abbattendo ogni soglia tra spazio pubblico e privato. In questo scenario, il rapporto diretto è diventato una dimensione disorientante. Non è un caso se aumentano i fenomeni di isolamento, di ritiro, di chiusura. La socialità richiede una preparazione emotiva che stiamo progressivamente perdendo.
Le trasformazioni dei punti di riferimento sociali
E questo non riguarda solo i ragazzi, ma l’intera società. Perché non possiamo chiedere a un adolescente di saper stare in relazione se non vede adulti capaci di farlo. Se l’adulto è sempre online, sempre distratto, sempre filtrato, il messaggio implicito è che l’autenticità non ha più valore
La scuola ha un ruolo chiave, ma non può supplire da sola. Serve una nuova alfabetizzazione relazionale che parta dalle basi: presenza, ascolto, tempo condiviso. La socialità reale, come ogni apprendimento significativo, richiede fatica, tolleranza, fallimento. Ma è solo in quel margine incerto dell’incontro autentico che si forma una soggettività capace di abitare il mondo. Se l’altro è evitato, il sé si svuota. La solitudine digitale, allora, non è solo isolamento: è una crisi del riconoscimento reciproco. E da lì, tutto comincia a sgretolarsi. Un contesto che riporta ad un tema centrale e ricorrente: la società dell’individualismo. La scuola senza il cellulare può essere efficace per ricostruire questo valore associativo?
Cellulari vietati anche alle superiori: l’annuncio del Ministro
L’annuncio del Ministro dell’Istruzione è stato chiaro: dal prossimo anno scolastico, l’uso dei telefoni cellulari sarà vietato anche alle superiori, cioè nelle scuole secondarie di secondo grado. La decisione, “improcrastinabile” anticipata con toni netti, si muove in continuità con quanto già disposto ufficialmente per la scuola primaria e per la secondaria di primo grado dalla circolare n. 5274 dell’11 luglio 2024. In quel documento, il Ministero sottolineava con precisione le motivazioni del divieto, richiamando evidenze scientifiche, studi internazionali, e soprattutto una visione della scuola come ambiente relazionale, cognitivo e formativo che deve essere protetto da forme di distrazione sistematica e di interruzione simbolica.
La circolare menzionava il Rapporto Unesco 2023 e l’indagine OCSE PISA 2022, che segnalavano come la presenza del cellulare, anche non attivamente utilizzato, produca un abbassamento significativo della concentrazione, un indebolimento del rendimento e un peggioramento della qualità dell’apprendimento. Non solo: veniva richiamato anche il potenziale impatto neurologico e cognitivo dell’uso precoce e prolungato dei dispositivi mobili, in particolare sulla capacità di attenzione, memoria e pensiero critico. La scuola, ricordava il Ministero, non può rinunciare alla propria funzione educativa, e proprio per questo deve porsi come argine consapevole, non proibitivo ma formativo, all’invasività della tecnologia quotidiana.
Perché si è arrivati a questa decisione?
Estendere questo divieto anche alle scuole superiori appare oggi una scelta inevitabile, ma tardiva. Si tratta di una fascia d’età – dai 14 ai 19 anni – in cui l’identità digitale si è già strutturata, le abitudini sono consolidate e il legame con lo smartphone è fortemente interiorizzato. Non è sufficiente vietare l’oggetto per cancellare la dinamica che lo ha reso centrale. Eppure, è necessario iniziare a segnare un confine. Il messaggio che la scuola lancia con questa misura è, finalmente, chiaro: non tutto è compatibile con il tempo dell’apprendimento, e l’educazione ha bisogno di presenza piena, di spazio mentale libero, di continuità relazionale.
Non si tratta di demonizzare lo strumento – questa sarebbe una scorciatoia ideologica – ma di ripristinare il senso del luogo scolastico. In aula non si consuma informazione, non si interagisce passivamente, non si cerca intrattenimento. In aula si costruisce sapere. E il sapere richiede tempo, silenzio, frustrazione, ascolto, noia anche. Tutte esperienze che il linguaggio dei social non contempla, e che la logica algoritmica delle piattaforme tende a escludere. Vietare il cellulare non è una misura autoritaria, ma una forma di tutela culturale.
Va però detto con la stessa chiarezza che il divieto non basta. Senza una pedagogia della presenza, senza un’educazione all’uso critico del digitale, senza adulti coerenti e consapevoli, ogni norma rischia di trasformarsi in un’imposizione inefficace o in un atto ipocrita. L’adolescente a cui viene tolto il cellulare in classe deve trovare, al suo posto, una relazione educativa viva, un contesto che lo coinvolga, che dia senso alla rinuncia. Deve poter toccare con mano che la realtà, quella scolastica, quella degli altri, quella del corpo, della voce, della parola, non è meno interessante dello schermo, ma è più impegnativa. E che in questo impegno si gioca la libertà.
Vietare è sufficiente?
No, o almeno non da solo.
L’intervento del Ministero, quindi, è necessario, ma non può essere l’unica risposta. La scuola non può limitarsi a togliere: deve anche saper offrire. Deve tornare a essere luogo di esercizio della libertà, e non solo di contenimento dei comportamenti. Deve restituire agli studenti la possibilità concreta di sviluppare un pensiero proprio, non solo di replicare contenuti. Ma per farlo, deve prima riconoscere che l’educazione, oggi, passa anche da un gesto di sottrazione. Togliere il cellulare non è punire, è liberare tempo e attenzione. Purché poi quel tempo e quella attenzione vengano accolti, nutriti, orientati. Riuscirà il nostro sistema scolastico per primo a raccogliere e affrontare la sfida di far comprendere alle nuove generazioni che invece di affidare passivamente la loro conoscenza alla connessione a wikipedia e/o all’intelligenza artificiale, possono e devono potenziare il loro processore e sviluppare i ram della proprio memoria?
Riuscirà il nostro sistema scolastico, per primo, a raccogliere e affrontare la sfida di far comprendere alle nuove generazioni che, invece di affidare passivamente la loro conoscenza alla connessione, a Wikipedia o all’intelligenza artificiale, possono – e devono – potenziare il loro processore e sviluppare i ram della propria memoria?
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