Delitto Afragola: crescere troppo in fretta è un’emergenza culturale e sociale

Il delitto di Afragola è uno di quei casi che impongono un silenzio prima di ogni parola. Una ragazza di appena 14 anni è stata uccisa dal suo ex fidanzato, un giovane appena maggiorenne. È un fatto terribile, che da solo racconta l’epilogo violento di una relazione malata. Ma ciò che dovrebbe inquietarci ancora di più è ciò che sta prima di quel gesto: la relazione tra una bambina – perché a 14 anni si è ancora bambini – e un ragazzo che con ogni probabilità aveva già smesso di esserlo da un pezzo. A colpire non è solo la differenza di età. È che la loro relazione, stando alle informazioni disponibili, durava da due anni. Si erano fidanzati quando lei aveva dodici anni. Dodici.

Da qui si apre una riflessione più ampia, che non può limitarsi al fatto di cronaca. Una riflessione scomoda, che coinvolge la società, la famiglia, il sistema educativo e culturale che circonda bambini e adolescenti.

Com’è possibile che una bambina di dodici anni sia considerata, da sé stessa, da chi le sta intorno, pronta per vivere una relazione sentimentale?

Com’è possibile che una dinamica tanto precoce non abbia acceso campanelli d’allarme? E, soprattutto: che cosa racconta questo caso del nostro tempo, della nostra civiltà e di un modo sempre più adulto e accelerato di concepire l’infanzia e l’adolescenza e, del resto, la vita stessa?

Non possiamo trattare questo episodio solo come una tragedia individuale. È un indicatore sociale, e come tale va letto. Perché quello che è successo ad Afragola non è solo il frutto di una singola follia. È il prodotto di una serie di disattenzioni culturali, di miti distorti sull’amore, di modelli genitoriali in crisi, e di un sistema educativo che spesso abdica al suo ruolo formativo. Non c’è una sola responsabilità. Ce ne sono molte, diffuse, stratificate. Ed è , forse, arrivato il momento di guardarle una per una.

Crescere troppo in fretta è un’emergenza culturale e sociale

Ci siamo abituati a pensare che i bambini oggi crescano in fretta. È una frase che si sente spesso, quasi con rassegnazione. Ma raramente ci fermiamo a riflettere su cosa significhi davvero “crescere in fretta”. Soprattutto, non ci chiediamo mai chi decide questa accelerazione, e a quale prezzo. Il caso di Afragola mette a nudo in modo drammatico un tema che riguarda tutti: l’infantilizzazione dell’età adulta e, al tempo stesso, l’adultizzazione dell’infanzia.

Da un punto di vista psicologico, a 12 anni un individuo si trova nella fase iniziale dell’adolescenza, una fase di profondi cambiamenti cognitivi, emotivi e fisici. È una fase di transizione, di particolare instabilità. Le strutture neuronali deputate alla regolazione delle emozioni, alla pianificazione, alla gestione degli impulsi sono ancora in pieno sviluppo. Non si è in grado, in modo autonomo e maturo, di gestire il carico affettivo che una relazione sentimentale comporta, tanto più se vissuta con una persona più grande. Ma non è che, forse, è proprio questo il risultato di modelli sociali che nel tempo hanno trovato credito, ma né forma né sostanza, nelle nuove generazioni e nei modi di comunicazione del nuovo Millennio?

I modelli sociali distorti

Il rischio che si creino dinamiche di dipendenza, idealizzazione, sottomissione è altissimo, anche quando all’apparenza tutto sembra consensuale. Ma il consenso, in età evolutiva, è sempre un concetto ambiguo. Perché non si tratta solo di dire “sì” o “no”. Si tratta di comprendere le conseguenze di quello che si vive. E un’adolescente, anche se precoce, non ha ancora la struttura per farlo.

C’è anche un discorso culturale da affrontare: siamo immersi in un contesto che spinge verso una precoce esposizione a modelli adulti, sessualizzati, performativi. Le bambine vengono spesso cresciute e incoraggiate a rappresentarsi in ruoli di seduzione, competizione e autonomia affettiva che non corrispondono alla loro età reale. I social network amplificano tutto questo, perchè la community premia l’apparenza, la coppia ideale, la passione romantica, anche tra giovanissimi. E noi adulti? Spesso guardiamo, commentiamo, ignoriamo.

Non viviamo in quella parte di mondo dove, per alleanze o convenienze economiche, i figli si vendono o i matrimoni si combinano fin da piccoli. Per lo meno, non più. Eppure, in un modo diverso, abbiamo costruito una società che ha smarrito il senso dei tempi dello sviluppo. Una società che non protegge l’infanzia, ma la consuma. Che non educa alla maturità, ma la simula.

Il risultato è che si cresce in fretta, si, ma si cresce male. E in tutto questo, che ruolo ha la famiglia?

Genitori sotto pressione: educare in una società che vuole figli già adulti

Quando una ragazzina di dodici anni vive una relazione sentimentale con un ragazzo più grande, e nessuno intorno la ferma, la domanda inevitabile è: dov’erano i genitori? Ma attenzione, non stiamo cercando colpe da distribuire come sentenze. Stiamo parlando di una responsabilità più complessa, profonda, che riguarda la nostra epoca, i suoi ritmi, le sue aspettative, e le condizioni concrete in cui le famiglie si trovano a crescere i figli. Perché oggi essere genitori non è solo difficile: essere genitori in una società dell’individualismo, è quasi una missione impossibile. Ma resta, per legge e per senso etico, un compito non delegabile, non solo nel mantenimento, ma anche e soprattutto nell’educazione e vigilanza.

La Costituzione – e la legge – italiana parla chiaro: è diritto e dovere dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli. La responsabilità genitoriale, che il nostro ordinamento, schiavo della cultura del politically correct, preferisce al vecchio termine “potestà”, non si esaurisce nel provvedere ai bisogni materiali. Riguarda il prendersi cura dello sviluppo psicofisico del minore, proteggendolo da situazioni inadeguate, disfunzionali o pericolose: in una parola, sorveglianza.

Questo include anche l’intervento tempestivo quando un figlio o una figlia si avventura in dinamiche troppo complesse per la sua età. Ma il fraintendimento (forse) si costruisce anche dietro la sostituzione di questo termine: potestas, che significa esercitare il potere, mentre essere genitore, genitoris, è una questione meramente fisica e biologica.

E, nella pratica, le cose non sono certamente così lineari. L’accesso precoce alla tecnologia, l’autonomia concessa troppo presto, l’illusione che i figli “se la sappiano cavare da soli”, costruiscono il terreno perfetto per l’assenza. E poi, l’illusione che sia sufficiente spiegare loro come funziona il mondo per renderli responsabili, ovvero capaci di giudizio critico. Un bambino? Un ragazzino? Certo, se in casa siamo convinti di aver un piccolo genio.

Piccolo genio o solo un piccolo Lord?

Viviamo in una società che manda segnali contraddittori: da un lato chiede ai bambini di diventare piccoli geni, piccoli leader, piccoli influencer, in grado di orientarsi nel mondo digitale, di avere performance scolastiche eccellenti, di sviluppare empatia, autocontrollo, competenze relazionali.

Dall’altro, non fornisce a questi stessi bambini il tempo, lo spazio, la protezione per crescere davvero. Non glieli forniamo noi, adulti. E questo succede anche perché spesso i genitori, stretti tra carichi di lavoro, insicurezze economiche e pressioni sociali, si trovano a gestire i figli più come manager che come educatori. E nel farlo, non solo perdono di vista il bisogno di orientamento, ma anche – e forse soprattutto – quello di affetto. Di affetto espresso, tangibile, fisico. Una carezza, uno sguardo, una parola detta con calma, un abbraccio non di fretta: gesti semplici che, nel rumore della quotidianità, diventano straordinari e che invece sono negati e sostituiti dalla materialità, da tutto ciò che è superfluo al bambino, trasformandoli in piccoli lord, pretenziosi e esigenti.

Eppure, è proprio questa carenza affettiva o mancata educazione sentimentale, così basilare eppure così trascurata, a minare nei figli la sicurezza emotiva, la fiducia, il rispetto, il senso di protezione. Senza questi codici affettivi, il mondo esterno – anche quello delle relazioni sentimentali – rischia di diventare l’unico rifugio, l’unico spazio sicuro dove cercare ciò che a casa non si è ricevuto. Lo ha spiegato bene il professor Ammaniti, neuropsichiatra infantile, nella trasmissione di Bruno Vespa 5 minuti, in onda su Rai Uno (e visibile su RaiPlay): “Amare una persona è una acquisizione importante ma che si acquisisce nei primi anni di vita con il rapporto coi genitori“. Con i genitori, non con i social.

Più sociali e meno “social

A complicare tutto ci sono i dispositivi elettronici, smartphone su tutti, che vengono consegnati sempre più presto nelle mani dei bambini senza una reale alfabetizzazione emotiva o un controllo costante. I social sono diventati il luogo dove si cresce, si sogna, si sperimenta, ma anche dove si sbaglia in solitudine.

Una dodicenne con un cellulare ha accesso a un mondo adulto che nessun algoritmo di parental control può davvero filtrare. E spesso, tra una storia Instagram e una chat su WhatsApp, si sviluppano le prime relazioni, le prime dinamiche di coppia, i primi tentativi di definirsi attraverso lo sguardo dell’altro.

Il meccanismo che si innesca è pericoloso: mentre si concede libertà, si ritira il presidio. Si lascia fare, per stanchezza, per fiducia, per distrazione. Ma senza guida, l’autonomia diventa abbandono. E così i figli crescono da soli o, peggio, dentro relazioni che nessuno supervisiona.

Non ci si accorge se una ragazza vive un legame asimmetrico, se subisce pressioni psicologiche, se si isola, se sta male. Perché non si guarda più in profondità. E quando accade l’irreparabile, ci si accorge troppo tardi che l’amore, anche a quell’età, può diventare un’arma a doppio taglio. Soprattutto se nessuno insegna che amare non vuol dire possedere, e che lasciare non è un’offesa, ma una libertà.

Genitori o amici?

Un’altra grande distorsione della genitorialità contemporanea è la tendenza, sempre più diffusa, a voler essere “amici” dei propri figli. Un’idea che nasce con buone intenzioni – creare un rapporto di dialogo, complicità, vicinanza – ma che, se non correttamente interpretata, finisce per svuotare il ruolo educativo dell’adulto. I figli non hanno bisogno di un genitore che li tratti da pari, ma di una guida solida, coerente, capace di dire no quando serve, di dare limiti, di incarnare un modello. L’amico ti asseconda, il genitore ti educa. E non sono due piani che possono sovrapporsi.

Molti genitori, nel tentativo di evitare conflitti o per paura di sembrare autoritari, rinunciano all’autorevolezza. Permettono tutto, giustificano tutto, accettano tutto. Concedono troppo presto libertà che non sono ancora strumenti, ma fardelli, se non addirittura armi.

Fanno battute da adolescenti, usano il linguaggio dei figli, si inseriscono nei gruppi WhatsApp come coetanei, rinunciano alla distanza simbolica che serve a far comprendere che no, non siamo sullo stesso piano. I figli, in queste condizioni, non si sentono più contenuti: si sentono soli. Perché senza un limite, ci si perde.

La funzione genitoriale non è essere simpatici, non è essere cool, non è essere amati a tutti i costi.

È essere affidabili, presenti, credibili. È essere l’esempio in cui un figlio possa guardarsi e capire chi è e chi può diventare. Quando questo ruolo viene meno, il figlio perde l’orientamento. Non sa più dove finisce il suo mondo e dove inizia quello dell’adulto. Non sa più chi deve dargli regole, chi deve contenerlo, chi deve proteggerlo. E così cerca risposte altrove, spesso in modo confuso, pericoloso, a volte autodistruttivo.

Fare il genitore è faticoso. Richiede fermezza, pazienza, coerenza. Richiede anche di tollerare l’impopolarità, di essere a volte odiati, contestati, sfidati. Ma è in quella frustrazione che il figlio costruisce i suoi strumenti per affrontare il mondo. I figli non hanno bisogno di adulti che vogliono restare adolescenti. Hanno bisogno di adulti veri me di una famiglia.

Famiglie presenti ma assenti

Molti genitori oggi vivono un doppio paradosso: sono sempre connessi, ma sempre più lontani. Lavorano instancabilmente per garantire ai figli un futuro migliore, ma faticano a esserci nel presente. Spesso sono fisicamente accanto, ma emotivamente altrove. Una distanza che non sempre si nota subito, perché è silenziosa, sottile, e proprio per questo pericolosa. Una distanza che non si misura fisicamente, ma in attenzioni mancate, dialoghi evitati, sguardi sfuggiti. È questa la nuova forma di assenza che le famiglie moderne stanno vivendo: non mancano solo le ore, manca la qualità della relazione.

Negli ultimi decenni, il mutamento del contesto lavorativo e sociale ha trasformato profondamente la struttura familiare. Famiglie monoreddito sempre più rare, genitori che lavorano entrambi per necessità, orari estesi, ritmi serrati. A questo si aggiunge la narrazione collettiva del successo personale come unica misura di realizzazione: essere produttivi, brillanti, “vincenti”. Uno su mille ce la fa. Anche come genitori.

E così, mentre si moltiplicano le attività extra scolastiche, i corsi, i dispositivi tecnologici regalati “per non farli sentire esclusi”, i figli si ritrovano spesso soli nelle loro stanze, iperconnessi ma emotivamente disorientati, abbandonati da genitori sempre vigili ma distratti e poco efficaci a livello affettivo ed educativo.

Educare significa portare alla conoscenza ed alla coscienza, significa sviluppare le doti e le capacità del singolo ed al contempo tracciarne i confini determinando i limiti, anche per la scuola.

Il problema non è solo quantitativo. È qualitativo.

Non è solo una questione di tempo. Il punto non è “quanti minuti” si passano con i figli, ma come li si vive.

Ci sono genitori che riescono a trasmettere presenza anche in spazi brevi e genitori che, pur stando accanto ai figli, non riescono a entrare in relazione. Questo perché manca una vera cultura dell’ascolto.

Non si ascolta il non detto, non si osservano i segnali sottili del disagio, non si dedicano energie a cogliere la complessità emotiva che ogni bambino o adolescente porta con sé. La sofferenza, quando arriva, è spesso già in fase avanzata. E in certi casi, come quello di Afragola, ha superato il punto di non ritorno.

Cos’è l’amore nel Nuovo Millennio

Delegare la funzione affettiva ai contesti esterni – amici, relazioni amorose precoci, social network – è uno degli errori più gravi che una società possa commettere. Perché i figli imparano cosa sia l’amore osservandolo in casa. Imparano il rispetto, la frustrazione, la tenerezza, il valore dei confini, vivendo relazioni significative e stabili con i genitori. Se tutto questo manca o viene sostituito da un tablet, da un like o da una relazione precoce con un coetaneo (o peggio, un giovane adulto), la costruzione del sé avviene su basi fragili. E quel che chiamiamo “amore” può diventare facilmente dipendenza, bisogno, paura. O controllo.

Quel controllo che affonda radici, anche qui, nel modo di amare della famiglia. Quando un genitore esercita il controllo in modo ossessivo attraverso una tempesta di telefonate o messaggi per sapere “dove sei” “con chi sei” “cosa fai” e che giustifica con “lo devo sapere perchè ti voglio bene”, esercita un controllo che diventerà un transfer nel bambino che, crescendo, eserciterà a sua volta sulla persona “amata”, perchè è così che “mamma lo ama”, senza capire che diventa uno stalker.

Le relazioni affettive vissute in adolescenza non sono mai banali. Possono essere esperienze di crescita, certo, ma anche zone di grande vulnerabilità. Se non c’è un adulto che le accompagna, non giudicando, ma guidando, il rischio è che si trasformino in campi minati.

E in questo vuoto, “l’amore” può trasformarsi in bisogno, dipendenza o controllo.

Il confine sottile tra privacy e tutela

A peggiorare le cose, l’idea distorta della privacy: se esistono genitori che esercitano un controllo ossessivo, è altrettanto vero che molti genitori rinunciano a entrare nel mondo dei figli per timore di essere invadenti, accettando passivamente che un tredicenne abbia “segreti inviolabili”. Ma la privacy, quando si parla di minori, non è un muro. È un confine da abitare con rispetto, non da temere.

Non si tratta di spiare, ma di conoscere per proteggere. Perché senza presenza, senza sguardi attenti, senza affetto espresso anche fisicamente, un abbraccio, una carezza, un “come stai?” sincero, si lascia campo libero a dinamiche invisibili, che possono diventare pericolose. Non basta essere genitori “bravi”. Serve essere genitori coinvolti. Che sappiano esserci anche quando non è comodo.

Che abbiano il coraggio di dire “no”, ma anche quello di entrare in profondità. Perché un figlio che non si sente visto in casa, cercherà uno sguardo altrove. Anche se fa male.

Il figlio perfetto: l’educazione capovolta che non ammette il rifiuto

L’omicidio di Martina Carbonaro e quello di Giulia Cecchettin (per citarne due) sono delitti figli di uno stesso nodo culturale irrisolto: un’incapacità crescente soprattutto, tra i ragazzi, di accettare un “no”. No a una relazione, no a un’aspettativa, no a un desiderio frustrato. Un no che, in una mente non strutturata emotivamente e non allenata ai “no” e al fallimento, diventa una ferita ingestibile. Una minaccia da eliminare.

Ma come siamo arrivati a tutto questo?

Viviamo in un’epoca in cui troppi figli crescono come se fossero intoccabili. I più bravi, i più belli, i più speciali. “Mio figlio non può aver sbagliato”, “se ha preso un brutto voto è colpa dell’insegnante”, “non è possibile che mio figlio abbia fatto una cosa del genere”. E così si alimenta un meccanismo perverso: il figlio non può mai fallire, non può mai essere rimproverato, non può mai essere messo in discussione.

Se prende una nota, il genitore non chiede spiegazioni al figlio: attacca l’insegnante. Se riceve una punizione, è il sistema ad avercela con lui. Si arriva persino a scene surreali (ormai sempre più frequenti) di genitori che minacciano o aggrediscono i docenti per un richiamo o un voto non gradito. In questa dinamica, l’educazione smette di esistere.

Perché educare significa anche dire “no”, mettere un limite, accettare che i figli sbaglino, che siano imperfetti.

Fino a pochi decenni fa, in un tempo che non è così lontano, se un figlio avesse preso un’insufficienza sarebbe tornato a casa in silenzio, consapevole che sarebbe scattata una punizione. Nessuno pensava di scrivere una mail di protesta o minacciare di denunciare la scuola. Era chiaro – nel bene e nel male – chi esercitava l’autorità.

Oggi il rapporto di forza si è capovolto.

Il genitore è diventato alleato, avvocato difensore, complice. Il figlio, sempre più spesso, un piccolo tiranno emotivo incapace di reggere il peso del fallimento o della frustrazione.

Ed è qui che il “no” sentimentale diventa esplosivo.

Se per tutta la vita ti hanno fatto credere che il mondo ti debba qualcosa, che sei speciale, che nessuno può dirti di no, allora anche una rottura amorosa non sarà vissuta come un passaggio di crescita, ma come un’ingiustizia da vendicare. Un’umiliazione intollerabile. Un torto da lavare col sangue.

Non parliamo solo di patologie individuali. Parliamo di un modello educativo malato, in cui l’amore per i figli è stato confuso con la protezione a oltranza, e il senso del limite è stato cancellato.

Rieducare a perdere, a sbagliare, a essere delusi, è oggi un atto rivoluzionario. È lì che si forma il carattere, la capacità di stare in relazione, il rispetto dell’altro. Perché chi non impara a tollerare un “no” sarà sempre un potenziale pericolo. Per sé e per gli altri.

A tal proposito, citerei la risposta di Maria Carla Gatto, Presidente Del Tribunale dei minori di Milano che, alla trasmissione 5Minuti di Bruno Vespa, ha così commentato: “io penso che il comportamento tenuto dal ragazzo dimostri che non ha maturato proprio alcuna affettività e ciò accade nonostante si tratti di un ragazzo inserito in un contesto familiare anche amicale. Capita di imbattersi in questi giovani che sono incapaci di elaborare i loro sentimenti e di comunicare con l’altro, cioè di comunicare con l’altro in maniera aperta creando un dialogo, cosa che non è assolutamente avvenuta, purtroppo, nel caso che stiamo esaminando. Quindi, questa incapacità, ha determinato una impossibilità da parte di questo giovane di accettare un rifiuto”.

E allora, cosa deve fare una famiglia? E la società?

Il delitto di Afragola non è solo una tragedia individuale, ma un grido collettivo. Non ci parla solo di violenza, ma di vuoti. Di adulti che non hanno visto, di segnali ignorati, di una società che ancora fatica a prendere sul serio l’adolescenza come fase delicata e cruciale dello sviluppo umano. È più facile dare la colpa ai giovani, ai cellulari, ai tempi moderni. Più difficile, ma necessario, guardarsi allo specchio e chiedersi: cosa stiamo facendo (e non facendo) per accompagnare davvero la crescita dei nostri figli?

Educare significa esserci. Essere presenti non solo nel dare, ma nel guardare, nell’ascoltare, nel correggere, nel contenere, nell’abbracciare. Educare significa avere il coraggio di non delegare all’esterno ciò che solo una relazione profonda può costruire: la fiducia in sé, la capacità di amare senza annullarsi, il rispetto dei limiti propri e altrui. E questo non si insegna a parole. Si insegna vivendo. Si insegna ogni giorno, nelle piccole cose.

Non servono genitori perfetti. Serve una società che sostenga i genitori, li formi, li accompagni, li faccia sentire parte di una rete, e non individui isolati che arrancano nel buio. Serve smettere di correre dietro a modelli di successo che ci allontanano dalla nostra umanità, e ricominciare a dare valore al tempo condiviso, allo sguardo autentico, alla cura reciproca.

Il delitto di Afragola ci lascia in eredità una domanda che non possiamo ignorare: dove eravamo noi, mentre una bambina di dodici anni iniziava una relazione con un diciassettenne? Dove siamo oggi, quando i nostri figli si chiudono in camera col telefono, o ci rispondono con un “niente” che in realtà vuol dire “tutto”? Abbiamo ancora il tempo e il dovere di rispondere. Con verità. Con coraggio. E, possibilmente, con amore.

Foto copertina di Silviu on the street da Pixabay

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(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
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