Bambini e dislessia, qual è il problema?

Mio figlio ha un problema. Va male a scuola ma la colpa non è sua. Forse ha la “dislessia”.

Facciamo un attimo di chiarezza. I bambini dislessici o discalculici non sono malati, quindi non “ha” ma semmai “è” dislessico.

E’ doverosa da parte mia una premessa e dare una definizione.

La dislessia fa parte dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) insieme alla disgrafia, alla disortografia e alla discalculia.

Le linee guida nate dalla Legge 170/10 che tutela gli studenti con DSA citano testualmente che “la dislessia corrisponde a una minore correttezza e rapidità della lettura a voce alta rispetto a quanto atteso per età anagrafica, classe frequentata, istruzione ricevuta”.

Quando si parla di discalculia ci si riferisce a quelle abilità aritmetiche che non coinvolgono esclusivamente il ragionamento logico – come nel caso di dover decidere quale numero è più grande di altri – ma che comportano invece l’automatizzazione delle procedure di base, come la lettura e scrittura delle cifre, la memorizzazione delle tabelline e delle procedure per eseguire i calcoli”.

Altro dovere è quello di informarvi dell’esistenza della Associazione Italiana Dislessia.

Ma è davvero il caso del vostro bambino?

La prima domanda che vi faccio è questa: quando andavate a scuola voi, quanti erano i bambini dislessici nella vostra classe? Scommetto che se avete più o meno la mia età, la risposta è nessuno. Anzi, non si era quasi mai sentita questa parola prima della fine degli anni ’90.

Proviamo a fare un percorso a ritroso, un po’ lungo, ma se la domanda iniziale vi riguarda, è bene legger fino in fondo ciò che vado a proporvi di analizzare insieme.

Un neonato ha sociologicamente un cerchio dell’ambiente ristretto, composto da un numero minimo di figure: padre, madre, nonni e, se ci sono fratelli o sorelle. Lui si sente speciale, unico, esiste solo lui.

Poi ci sono anche i vari parenti, ma per il bimbo è ben chiaro il punto di riferimento: i genitori e, se l’allattamento è al seno, sicuramente è la mamma la figura dominante. Con la suzione ha l’appagamento del primo istinto, la fame, i suoi occhi contemplano il viso della madre e quella è la visione più bella e rassicurante che l’infante possa avere.

Quando cominciano a delegarlo a nonni, parenti, o babysitter, il bambino ricerca quel “porto sicuro” che lo fa sentire tranquillo e protetto.

La mancanza lo fa arrabbiare e lo manifesta con i vari capricci.

La scuola “precoce”

Consideriamo poi che nei primi tre anni, la maggior parte delle famiglie si avvale di quella che io chiamo “scuola precoce”, e parlo del nido.

Otto ore con delle perfette sconosciute, con un gruppo di bambini più o meno della sua età. Per il pupo è ben chiaro fin dall’inizio che non è più unico e speciale ma ci sono minimo altri quindici marmocchi come lui che pretendono attenzioni. Primo grande trauma.

Le ore sono interminabili, spese nell’attesa che arrivi quel volto amato che lo porti via da li. E il suo pensiero è che una volta a casa torna ad essere un “piccolo lord”. Invece a casa, la mamma è occupata nelle varie faccende, il papà, se è già arrivato ci gioca un po’, ma poi tutto finisce perché è ora della nanna. Altra delusione, altro trauma.

Fra i tre e i cinque anni, con la scuola materna, per vostro figlio comincia una nuova avventura, fatta sempre di otto ore, con  nuovi bambini, perfetti sconosciuti o amichetti di vecchio retaggio, ma c’è di più. Ogni genitore crede di avere il bambino prodigio in casa e quindi cominciano con “fai vedere allo zio come hai imparato a scrivere il tuo nome”.

E visto che oramai ha acquisito la capacità di firmare, non gli mettono in mano un libretto di assegni, ma cominciano a regalargli un bel tablet.

Affascinato dai colori e dalle figure che si muovono, il bimbo inizia così a diventare schiavo di un rettangolo che sostituisce perfettamente una babysitter e lo tiene impegnato, seduto, mentre i genitori sono occupati a fare altro.

Poi è ora di cena, nanna e via. Un’altra giornata con due coccole frettolose e il bacio della buonanotte.

E il bimbo?

E il bimbo aspetta…spera che torni quel momento in cui i suoi occhi incrociavano i lunghi sguardi della mamma che amorevole le offriva il suo seno, per un tempo lungo e interminabile, con amorevole pazienza.

Infine, il percorso scolastico: tredici lunghi anni, fatti di otto ore di banchi di scuola, di schiamazzi, di confronti alla pari con “scugnizzi” e “nerds”, ma soprattutto con una maledizione chiamata “compiti”.

Si, perché ora le responsabilità arrivano come la neve a Natale. I “devi” fioccano e le punizioni pure.

Giornata “tipo” di un bambino tra i sei e i dodici anni

Ore sei e quarantacinque la sveglia suona. Il bambino viene messo davanti a una tazza di latte con la briochina o i biscotti zuppalatte (un carico di zuccheri e conservanti adeguato per affrontare una lunga giornata…), il tutto, naturalmente, davanti a un bel 57 pollici che trasmette cartoni animati in 3D o l’ultimo modello di cellulare con i giochi on line. Il bambino ha ancora il cucchiaio in bocca e il pollice sul telecomando che viene preso dal colletto per finire di vestirsi, lavarsi i denti, preparare la cartella (cosa che andrebbe fatta la sera) e catapultarsi in auto, “che anche stamattina siamo in ritardo”.

Arriva a scuola dove lo attende la prima lezione: due ore di storia e antologia (mentre nella sua testolina sta ancora pensando chissà come è finito il cartone animato). E poi la verifica di  inglese, un piccolo intervallo dove ingurgitare l’ennesimo snack della kinder Ferrero, altra flebo di zuccheri, in attesa delle tredici, dove per un’ora potrà giocare al cellulare, per poi tornare sul banco di scuola fino alle sedici e trenta. E’ bene ricordare che questo non è il vecchio “doposcuola” dove si facevano i compiti, ma sono altre ore di studio.

Finalmente suona la campanella e le vetrate dell’istituto vomitano uno tzsunami di palline da flipper impazzite che urlano e corrono in tutte le direzioni, tra le macchine parcheggiate in quarta fila dei genitori che si sbracciano per farsi riconoscere. Il tempo di un’altra mega-brioches, pizza e coca cola e si riparte ma non per casa.

Il tempo del gioco è un ricordo lontano perché, dopo la scuola, dopo il calcio, la danza, il tennis, il karate, il nuoto e il corso di giapponese per bambini, si arriva finalmente a casa che è puntualmente già ora di cena.

I compiti, naturalmente, passano a dopo cena, che è un ottimo momento per un bambino, poiché è sicuramente ancora molto sveglio e concentrato. Verso le undici e mezza (se tutto va bene) possiamo dire buonanotte. Bacino e nanna.

…E le coccole di un tempo? “…ormai sei grande”.

Un piccolo essere umano nato da poco con già così tanti impegni e doveri.

Un equilibrio che ovviamente si manomette e che genera difficoltà.

 E’ sempre più frequente quindi trovare un numero crescente di bambini che manifestano disturbi dell’apprendimento e troppo spesso si abusa del termine “dislessia” o “discalculia”.

E’ dislessia?

Non intendo affatto avere la presunzione di sostituirmi a quelle che sono le figure competenti quali pedagogisti, logopedisti e psicologi, e, nel momento in cui gli insegnanti che seguono i vostri bambini vi dicono che ha difficoltà nell’apprendimento, non sottovalutate mai la possibilità che sia effettivamente un problema di dislessia, ma provate anche a fare un’analisi sulle abitudini della vostra famiglia.

Lavorando con i bambini da ormai tanto, tanto tempo, ho  potuto constatare questo progressivo aumento di casi, ma posso dire che statisticamente solo un bassa percentuale manifesta i veri segni di questi disturbi. Molto spesso i ragazzi riescono a raggiungere il livello di preparazione richiesto, nel momento in cui troviamo un metodo di studio adeguato al loro linguaggio di comunicazione.

Il più delle volte però, i risultati migliori arrivano lavorando più sulle abitudini quotidiane del nucleo famigliare, che sulle carenze intellettive presunte del bambino. La maggior parte delle volte, infatti, i ragazzi hanno test attitudinali nella norma o addirittura al di sopra. La loro indolenza a scuola nasconde, nel 90 % dei casi, una profonda richiesta di attenzione famigliare.

Certo, la nostra è una società che corre sempre, le famiglie hanno la necessità di essere sostenute dal lavoro di entrambi i genitori e il tempo è sempre troppo poco per tutti. Pur comprendendo tutte le dinamiche sociali, c’è da dire che è altrettanto vero che così inevitabilmente si danneggiano le relazioni personali. E sono proprio i bambini ad avere la peggio.

E allora che fare?

Basta davvero poco, ma fatto in tempo, ad esempio, spegnere il televisore quando la famiglia è riunita a cena, dedicarsi ad un momento di svago nell’arco della giornata, rinunciare ad un corso pomeridiano in favore di un pomeriggio in famiglia.

In un mio precedente articolo spiegavo l’importanza del tempo e vi suggerivo alcuni comportamenti utili. Ne ribadisco alcuni.

Finchè potete, tenete i vostri figli il più lontano possibile dalla tecnologia. Basta con questi bimbi che non sanno ancora camminare ma hanno già il cellulare in mano. Basta con questi giochi elettronici. I buoni vecchi Lego stimolano la fantasia e la creatività. Meno televisione! Mettetegli in mano un libro di figure da colorare e scoprite il mondo dei colori con loro. Lasciate nella loro cameretta una parete libera, dove possano disegnare, meglio ancora se li lasciate sporcarsi le mani con la pittura e li invitate a lasciare le impronte delle loro mani sul muro, magari vicino alle vostre.

Infine, stupiteli e stupitevi. Un suggerimento che dò sempre è questo: provate ogni tanto a svegliarlo al mattino farlo preparare e poi ditegli che oggi non si va a scuola perchè papà o mamma o entrambi hanno preso un giorno ferie per portarli al mare, magari di Mercoledì.

E’ giusto insegnare il dovere e le responsabilità, ma il vostro lavoro è avvertito da vostro figlio come qualcosa che vi porta via da lui e percepisce questa condizione come un abbandono, un allontanamento da voi.  E’ il primo trauma importante, che può cambiare la percezione di ciò che pensa di se stesso e di voi. Un giorno “fuori dal calendario” servirà a fargli capire che oltre alle regole esistono anche le eccezioni e che papà e mamma per un giorno hanno messo il loro bambino al primo posto e fatelo di nuovo sentire un “piccolo Lord”.

Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”