Garlasco: e se fosse un errore giudiziario, chi paga?

Negli ultimi tempi, casi di cronaca che sembravano ormai chiusi sono tornati improvvisamente al centro dell’attenzione pubblica, uno su tutti: la riapertura, a distanza di 18 anni, del caso di Garlasco. Un omicidio che aveva scosso l’Italia intera, che aveva avuto un colpevole, un processo, una sentenza. E ora, di nuovo, tutto in discussione. Com’è possibile che la scienza, con le sue tecniche sempre più sofisticate, con i suoi protocolli rigorosi, possa “sbagliare”? O meglio: come può accadere che una verità ritenuta certa venga poi messa in discussione, quando tutto sembrava già scritto?

Questo interrogativo ci mette di fronte a un paradosso tanto affascinante quanto inquietante: la scienza, in quanto metodo, tende alla verità attraverso la verifica, l’errore, la revisione continua. Ma chi la esercita (esseri umani inseriti in contesti sociali, culturali, giudiziari), può deviare, interpretare male, o semplicemente non vedere. E quando ciò accade, non è solo una diagnosi sbagliata o un’analisi errata: è la vita delle persone che viene travolta.

Viviamo in una società che spesso eleva gli scienziati, i RIS e i consulenti scientifici a supereroi della provetta, investiti di un’aura di infallibilità. Ma è una visione distorta, spesso deformata dalla cultura televisiva di fiction e talk show. Nessuna scienza è neutra, nessun operatore è immune da pressioni o pregiudizi. E questo vale anche per i magistrati: esseri umani, anche loro, che operano sotto il peso delle prove, delle emozioni, dei riflettori mediatici e, spesso, delle lusinghe della popolarità.

Le parole hanno un peso (e un significato)

Per comprendere il nodo centrale, dobbiamo liberare la scienza dal mito dell’infallibilità. La scienza non è un oracolo: è un linguaggio, un sistema di pensiero fondato sull’osservazione, l’ipotesi, la sperimentazione e la revisione continua. Il metodo scientifico è il miglior sistema che abbiamo per avvicinarci alla verità, ma è fallibile per definizione, perché si costruisce anche sugli errori. Eppure, nella percezione pubblica, dire che qualcosa è “scientificamente provato” equivale a sigillare una certezza assoluta. La stessa percezione collettiva che si è creata in tempo di pandemia con le parole “immunità” e “vaccini”, usate con troppa leggerezza dalla comunità scientifica e dalla stampa per definire una terapia che non “immunizzava” e non “vaccinava” nel senso pieno e originario del termine.

Mi permetto l’inciso, per chi sta già invocando il complottismo: le parole immunità e vaccino significano rispettivamente e letteralmente: “condizione, innata o acquisita, in base alla quale un organismo è in grado di neutralizzare tutto ciò che gli è estraneo” e “preparazioni rivolte a prevenire una specifica malattia infettiva inducendo una condizione di immunità attiva”. Il senso è tutto nella definizione.

Questo equivoco si amplifica nei contesti giudiziari, dove la perizia scientifica ha un peso enorme. Ma ogni applicazione scientifica (dalle analisi del DNA alla lettura di una traccia ematica, dalla balistica alla genetica forense), è frutto di un processo umano: strumenti, interpretazioni, azioni, contesti. Un errore di manipolazione, una lettura influenzata da un pregiudizio, una contaminazione accidentale possono trasformare un dato in un inganno.

Errare humanum est

La scienza applicata alle indagini non vive nel vuoto. Si muove in un terreno pieno di insidie: pressioni mediatiche, urgenze politiche, aspettative sociali, risorse limitate. I periti non operano in laboratori neutri e silenziosi: sono chiamati spesso a lavorare in tempi stretti, su indizi parziali, a volte con la consapevolezza che il loro verdetto può orientare la condanna o l’assoluzione di un individuo.

Bias cognitivi come il confirmation bias (la tendenza a cercare solo prove che confermino una teoria già ipotizzata) possono influenzare anche gli scienziati più preparati. L’assenza di un contraddittorio tecnico, la mancanza di un confronto tra esperti indipendenti, può cristallizzare errori iniziali. E quando un errore entra in un processo, spesso si sedimenta come verità, difficile da smontare.

Tecnologie considerate oggi affidabili (come il sequenziamento del DNA ad alta risoluzione, l’intelligenza artificiale applicata al riconoscimento facciale, la genetica comportamentale), vent’anni fa erano inaccessibili. Non possiamo rileggere il passato con gli strumenti di oggi senza accettare che parte della verità sia stata oscurata dalla limitatezza del sapere di allora.

Nel caso Garlasco, la riapertura delle indagini rappresenta uno di quei momenti in cui la giustizia si trova sospesa tra la necessità di perseguire la verità e il rischio di oltrepassare il limite della ragionevole attendibilità. La nuova pista investigativa nasce da un “super testimone” che, a distanza di quasi due decenni, decide di alleggerire la propria coscienza. Le sue dichiarazioni spingono gli inquirenti a nuove attività: il sequestro dei telefoni del nuovo indagato e delle persone a lui vicine, la perlustrazione di un canale dove viene ritrovato un martello, possibile arma del delitto.

Ma che valore può avere un oggetto rimasto per diciotto anni in un corso d’acqua?

Anche se compatibile per forma e peso con le lesioni riscontrate sul corpo della vittima, quante migliaia di martelli simili esistono e sono stati venduti in quel tempo? E ancora, anche qualora si trovasse una minima traccia biologica, quale sarebbe la sua attendibilità, in un contesto di degrado ambientale così prolungato? L’oggetto diventa un simbolo: più che una prova, un’ipotesi materiale su cui si proietta un desiderio di giustizia che rischia di oltrepassare la soglia del razionale.

Sorge così una domanda fondamentale e scomoda: quale giudice si prenderà la responsabilità di trasformare questi indizi, per quanto suggestivi, in prove sufficienti a fondare una nuova accusa, o addirittura una condanna? E se davvero un altro soggetto (o più soggetti) venisse ritenuto colpevole, quale meccanismo potrebbe restituire dignità e vita a chi ha già scontato 18 anni da innocente? Alberto Stasi è stato condannato, incarcerato, stigmatizzato pubblicamente. Se dovesse emergere la sua innocenza, chi ripagherà la sua esistenza interrotta?

La magistratura super partes ma anche humaniter fallibilis

I magistrati sono interpreti della legge, ma anche della realtà. Prendiamo il caso Parolisi. In primo grado, la condanna è all’ergastolo, con l’aggravante della crudeltà. In appello, la pena scende a trent’anni. Infine, in Cassazione, si arriva a venti, con l’esclusione delle aggravanti. Un bacio d’addio, 35 coltellate, l’occultamento del corpo della moglie Melania a pochi metri dalla figlia che dormiva in macchina. Nonostante tutto, per i giudici supremi, non vi è crudeltà (in 35 coltellate?), né premeditazione (il portarsi dietro un coltello era casuale?): si tratta di dolo d’impeto. E da lì, si apre la porta ai benefici penitenziari, alla liberazione anticipata. È un caso che non interroga solo il diritto, ma anche il modo in cui l’uomo-giudice interpreta l’intenzionalità, la ferocia, il significato della giustizia e, di conseguenza, la gravità della pena da infliggere.

Certo: il magistrato non è solo in questo compito, ma coadiuvato da figure autorevoli che rappresentano i pesi che si posano sulla bilancia della giustizia e che contribuiscono con la loro professione e professionalità a fare chiarezza intorno agli eventi e alle responsabilità. Sono i periti, e un perito forense è, in aula, un’autorità. La sua parola pesa più di quella di un testimone. Ma questa autorevolezza non può trasformarsi in autorità incontestabile.

E qui, torniamo alla scienza, e la scienza non è democratica, ma il suo uso deve esserlo.

Deve essere sottoposta a controllo, critica, controanalisi. Quando invece si costruisce una verità giudiziaria su una perizia non replicabile, su un’unica voce “esperta”, ci si avvicina più all’alchimia che alla scienza e, quindi, al margine di errore.

Il caso Enzo Tortora, il caso Lelio Luttazzi e il caso Gigi Sabani sono tra gli esempi di errori giudiziari che più emergono dalla memoria collettiva, ma ci sono anche casi meno conosciuti, come il caso Morrone, il caso Girolimoni e il caso di Beniamino Zuncheddu. Tutti vittime di grandi errori giudiziari che hanno fatto la storia della giurisprudenza.

Serve una cultura della verifica incrociata, della trasparenza metodologica, dell’accessibilità dei dati. Ogni perizia dovrebbe essere documentata, riesaminabile, criticabile pubblicamente. Le università, le istituzioni scientifiche, i tribunali dovrebbero assumersi il compito di formare professionisti capaci, ma anche cittadini consapevoli. Perché la verità processuale non può esistere senza una scienza responsabile, etica e continuamente vigilata.

La verità giudiziaria…

Ogni volta che un caso viene riaperto grazie a nuove prove scientifiche, la società fa un atto importante: riconosce che può aver sbagliato. È un gesto che implica coraggio, umiltà, ma anche speranza. La possibilità di correggere un errore non rende meno credibile la giustizia, la rafforza.

Casi come quello di Garlasco mostrano che il passato non è mai del tutto chiuso. Se in questo specifico contesto, la riapertura arriva da un super testimone redento, è comunque verità inconfutabile che nuove tecnologie, nuovi occhi, nuove competenze possono cambiare la lettura di una scena del crimine. E torniamo al fattore umano. Ma non basta avere strumenti più avanzati: serve anche una mentalità aperta, pronta a rivedere ciò che si credeva consolidato. E questo vale anche per l’opinione pubblica, spesso abituata a fidarsi del primo verdetto pronunciato in televisione.

… e il tribunale mediatico

I media influenzano profondamente la percezione della giustizia, spesso anticipando o distorcendo i processi reali con narrazioni semplicistiche ed emotive. Nei tribunali televisivi, fatti di talk show, e podcast di true crime, manca spesso il rispetto per il dubbio e per la presunzione d’innocenza, e ciò può condannare o assolvere mediaticamente una persona indipendentemente dall’esito giudiziario. Questo fenomeno rischia di compromettere la ricerca della verità, che richiede invece tempo, rigore e rispetto delle regole, a discapito della bramosia di trovare un colpevole ad ogni costo.

I media hanno una responsabilità enorme nel modellare la percezione della giustizia. Hanno il potere di orientare le indagini, di legittimare o delegittimare testimoni, di ridurre la complessità in formule pronte all’uso. Ma hanno anche l’occasione, e il dovere, di raccontare le storie nella loro ambiguità, di accettare la lentezza dell’accertamento come segno di rispetto per la verità.

Una giustizia etica ha bisogno di essere raccontata con onestà e attenzione alle sfumature, perché la verità giudiziaria non è spettacolo, ma un processo complesso e delicato, proprio per permettere alla magistratura di lavorare in condizioni imparziali e serene, senza la pressione costante dei media e dell’opinione pubblica, ormai pregna di una cultura giuridica da fiction, dove ognuno si sente investigatore o giudice, pronto a emettere sentenze sui social, alimentando un clima emotivo e superficiale che ostacola la serenità e la profondità del giudizio, proprio perchè il rischio dell’errore giudiziario è sempre dietro l’angolo.

Chi paga per gli errori giudiziari?

In Italia, in caso di un errore giudiziario, il cittadino ha diritto di agire contro lo Stato e richiedere un risarcimento per ingiusta detenzione o condanna errata, secondo quanto previsto dagli articoli 314 e seguenti del Codice di procedura penale. Ma, ottenere questo risarcimento è spesso difficile: la vittima deve dimostrare non solo la propria innocenza, ma anche di non aver contribuito con dolo o colpa grave alla situazione.

La riparazione per ingiusta detenzione è un indennizzo da atto lecito e non un risarcimento da atto illecito, derivando il danno dalla legittima attività dell’Autorità giudiziaria, sicché la decisione è assunta in via equitativa. L’entità della riparazione dev’essere commisurata alla durata della privazione della libertà e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla detenzione (combinato disposto degli artt. 315 co. 3 e 643 co. 1 c.p.p.) e non può comunque eccedere € 516.456,90 (art. 315 co. 3 c.p.p.)” (Fonte MEF)

I fondi per questi risarcimenti provengono direttamente dal bilancio dello Stato, e quindi dalle tasse dei cittadini.

Chi può denunciare un magistrato?

Il magistrato responsabile dell’errore, salvo rarissimi casi, non è tenuto a rispondere in prima persona. La legge 117/1988 (Legge Vassalli) prevede la possibilità per lo Stato di rivalersi sul magistrato, ma solo in caso di dolo o colpa grave accertati. Giustamente.

Attenzione a questo concetto: lo Stato ha diritto di rivalsa sul magistrato, non la parte offesa. Entro nello specifico: chiunque sia sospettato di aver commesso un reato e sul quale gravino denunce, prove o indizi ragionevoli, può essere indagato e, a seconda dei casi, subire anche la carcerazione cautelare. La parte lesa può (anzi deve) sporgere querela, richiedere un risarcimento, oltre che giustizia. Ciò non avviene per i magistrati, unico caso in cui solo lo Stato può decidere di rivalersi e solo dopo che sia stato accertato l’errore. Non durante, come avviene di norma per qualsiasi altra persona, ma dopo, ad accertamento avvenuto (e forse neanche dopo). Nel frattempo, nessuna sospensione, nessuna ripercussione, neanche sull’avanzamento della carriera.

Nella realtà dei fatti, le azioni di rivalsa sono talmente rare da risultare simboliche. Il principio che regola questo sistema è la tutela dell’indipendenza del giudice, ma il risultato finale è un paradosso: lo Stato risarcisce, ma nessuno, a parte il contribuente, paga davvero.

Ne deriva un sistema dove l’indipendenza della magistratura è giustamente garantita, ma a costo di una quasi totale impunità per gli errori.

Questo squilibrio solleva un dibattito urgente: come conciliare la tutela dell’autonomia giudiziaria con la necessità di rendere conto delle proprie azioni? È legittimo che un cittadino, privato della libertà per anni senza colpa, venga risarcito dallo Stato, ma non riceva mai neppure un’ammissione di responsabilità da parte del magistrato? Una giustizia matura dovrebbe trovare il coraggio di rispondere a queste domande.

Quanto ci costano gli errori giudiziari?

I dati del Ministero della Giustizia mostrano che ogni anno lo Stato paga milioni di euro per errori giudiziari. Solo tra il 1992 e il 2022, l’Italia ha sborsato circa 900 milioni di euro per risarcire cittadini detenuti ingiustamente. Nel 2024 lo Stato italiano ha pagato 26,9 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione. Dal 2018 al 2024, la cifra complessiva ha superato i 220 milioni di euro, con 4920 persone finite in carcere per errore. Ma, nello stesso periodo, solo nove magistrati sono stati sanzionati per gli errori commessi.

È quanto emerge dalla Relazione al Parlamento del ministero della Giustizia su “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione” per l’anno 2024. I distretti di Corte di Appello con il maggior numero di richieste di risarcimento sono quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma. Mancano però i dati sulle riparazioni per errori giudiziari, cioè per chi è stato riconosciuto innocente dopo un processo di revisione successivo a una condanna definitiva (Fonte Servicematica).

L’Italia non è sola in questo dilemma. Errori giudiziari e risarcimenti per ingiusta detenzione sono un problema globale, che mette alla prova tutti i sistemi giuridici che si definiscono democratici. Negli Stati Uniti, organizzazioni come Innocence Project hanno ottenuto la revisione di numerose condanne sbagliate grazie a nuove prove scientifiche, con risarcimenti spesso milionari. Anche in Regno Unito e Francia esistono meccanismi di revisione: in UK, la Corte d’Appello Criminale ha il compito di revisionare i casi sospetti, ma il processo resta elitario e poco accessibile, mentre in Francia, un’indagine interna può condurre alla revisione di un processo solo se emergono, anche qui, “elementi nuovi” che non erano disponibili durante il processo originario. La revisione, insomma, un pò dappertutto, è l’eccezione, non certamente la regola.

Scienza e giustizia: poteri da difendere, responsabilità da pretendere

Quasi il 75% delle richieste di risarcimento trova accoglienza per “accertata estraneità ai fatti contestati”. Solo il 25% riguarda l’illegittimità della misura cautelare. Nel 2024, su 1293 domande presentate, il 46,6% è stato accolto, il 49,4% respinto e il 4% dichiarato inammissibile (fonte Servicematica).

Questa impunità istituzionale rischia di alimentare una doppia ingiustizia: non solo si sbaglia, ma si scarica l’onere dell’errore (del magistrato) su chi è del tutto estraneo (il cittadino). Aprire un dibattito sulla responsabilità economica e morale di chi agisce in nome della giustizia non significa mettere sotto accusa la magistratura o la scienza. Significa, piuttosto, completare il disegno di uno Stato di diritto in cui tutti, davvero tutti, devono rispondere delle proprie azioni. Anche quando sono commesse in nome della legge.

D’altro canto, difendere la magistratura e la scienza non significa accettarle acriticamente. Significa proteggerne il metodo, sostenerne la trasparenza, esigerne la correttezza. Imparare a distinguere tra scienza come strumento di verità e scienza come autorità indiscussa: la prima è preziosa, la seconda pericolosa.

Oltre Garlasco: una questione aperta tra scienza e diritto

Viviamo in un’epoca in cui il sapere tecnico e tecnologico influiscono direttamente sul destino delle persone. In ambito giudiziario, questo impatto è definitivo: può decidere se una persona vive da libera o da colpevole, se una memoria viene infangata o riabilitata. Per questo dobbiamo imparare a convivere con un principio scomodo ma fondamentale: la scienza può sbagliare, perché è esercitata da esseri umani, e proprio per questo deve essere continuamente verificata, discussa, migliorata.

Ma da questo principio non discende il pessimismo: al contrario, è qui che nasce una responsabilità collettiva. La fiducia nella scienza non è un atto cieco, bensì un impegno vigile. Significa costruire istituzioni trasparenti, formare cittadini consapevoli, creare spazi di confronto in cui anche l’esperto è chiamato a rendere conto. Il caso Garlasco non è solo una vicenda processuale: è una lente potente che ci obbliga a interrogarci sulla tenuta del nostro sistema giudiziario, sul ruolo della scienza nei processi, sull’efficacia delle garanzie costituzionali, sulla responsabilità morale e civile di chi ha potere di decidere sul destino degli altri. Ogni processo, ogni sentenza, è un atto umano, quindi fallibile.

Una giustizia veramente giusta non è quella che non sbaglia mai, ma quella che sa riconoscere i propri errori e sa correggerli con trasparenza, tempestività e rispetto per chi ha pagato senza colpa. Una giustizia che non si arrocca, ma che dialoga con la scienza, con l’informazione corretta, con la società civile. Perchè se errare humanum est, perseverare autem diabolicum.

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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
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