Fabrizio “Cit” Chiapello e il Transeuropa Recording Studio

Nel cuore di Torino, il Transeuropa Recording Studio custodisce oltre trent’anni di storia della musica italiana. Dietro la sua console, Fabrizio “Cit” Chiapello porta avanti l’eredità di Carlo U. Rossi, il leggendario fonico che ha plasmato il sound di generazioni intere. Dai Litfiba a Jovanotti, da Ligabue ai Subsonica, passando per Caparezza, Vinicio Capossela, 883 e Gianna Nannini: gli album e le produzioni nate in questo studio hanno segnato la discografia italiana degli ultimi decenni. Oggi il Transeuropa parte dalle sue radici per essere un laboratorio sonoro in continua evoluzione, pronto ad affrontare le sfide di domani.

fabrizio cit chiappello in primo piano
Fabrizio “Cit” Chiappello e il Transeuropa Recording Studio

Carlo Ubaldo Rossi non è stato solo un tecnico del suono, ma un visionario che ha saputo catturare l’essenza artistica di artisti diversissimi tra loro: dai 99 Posse agli Africa Unite, dalle Negrita a Irene Grandi, da Litfiba a Max Pezzali, fino ad Arisa, Neffa, Baustelle, Paola Turci, Chiara Galiazzo e Syria. Il suo approccio al suono, la sua capacità di valorizzare ogni voce e ogni strumento, hanno fatto scuola.

Oggi Fabrizio “Cit” Chiapello ne raccoglie il testimone, mantenendo viva quella filosofia di lavoro che ha reso grande il Transeuropa. L’intreccio con il Musiclab ha aperto nuove prospettive, creando un polo produttivo dove tradizione e innovazione convivono. Chiapello non si limita a preservare un metodo: lo evolve, lo adatta ai linguaggi contemporanei, mantenendo però intatta quella ricerca della perfezione sonora che Rossi gli ha insegnato.

Questa è la storia di tre protagonisti indissolubilmente legati: un maestro leggendario, un allievo che ne onora l’eredità e uno studio di registrazione che continua a scrivere pagine fondamentali della musica italiana. Un racconto di passione, competenza e quella magia che si crea solo quando tecnica e cuore battono all’unisono.

Carlo Ubaldo Rossi: il pensiero di Gae Capitano

Il maestro del silenzio.

C’è un momento, prima che la musica diventi musica, in cui tutto è possibile.

È l’attimo in cui il mondo ancora non ha forma, e il suono è solo un’intenzione sospesa tra il pensiero e la materia. Carlo Ubaldo Rossi viveva in quel momento. Lo abitava con la pazienza di chi sa che la tecnica non è mai solo tecnica: è ascolto, è filosofia, è l’arte sottile di dare corpo all’invisibile.

Negli studi di Revigliasco, mentre i Subsonica preparavano le loro architetture sonore, Rossi chiedeva una cosa che nessuno si aspettava: il silenzio.

Spegnete tutto, diceva. E aspettava.

Ascoltava la stanza respirare, le frequenze naturali dell’aria, il modo in cui lo spazio stesso aveva una sua voce segreta. Solo quando quel silenzio “suonava bene” – così lo chiamava – allora si poteva cominciare. Non era un capriccio da perfezionista: era la consapevolezza che un buon suono nasce prima dell’attrezzatura, prima dei microfoni e dei preamplificatori. Nasce dall’attenzione. Dall’umiltà di chi sa mettersi in ascolto prima ancora di premere un tasto.

La tecnologia al servizio del pensiero

Rossi trasformava idee ancora informi in materia sonora con una naturalezza che sembrava magica.

Con Jovanotti, durante le sessioni di Lorenzo 1994, disse una volta all’artista: “Non cercare la nota giusta. Cerca il pensiero giusto, e il suono la troverà da solo.”

Era il suo credo: la tecnologia non serve a correggere, ma a illuminare ciò che l’artista già porta dentro.

Jovanotti lo definì “un musicista invisibile, ma presente come l’aria.” E forse non c’è definizione più esatta: Rossi era ovunque nella musica che contribuiva a creare, eppure la sua presenza non si imponeva mai. Era una forza discreta.

Con Irene Grandi, durante le sessioni per uno dei suoi album, Rossi impiegò più di un’ora a microfonare una chitarra. Un’ora. Irene gli chiese se avesse senso perdere così tanto tempo per uno strumento. Lui alzò lo sguardo, calmo, e rispose: “È un orecchio. Se non è posizionato bene, cambia tutto.”

Non era pedanteria: era cura. La certezza che ogni millimetro conta, che il suono si cattura o si perde in un gesto minuscolo, invisibile. La take fu quella giusta. Al primo colpo. E rimase nel disco.

Quando arrivò il momento di registrare Pipes & Flowers, il disco d’esordio di Elisa, Rossi volle qualcosa che sfidava ogni logica da studio: la presa diretta. Niente booth isolante, niente filtri protettivi. Voleva catturare “il fiato della stanza”, diceva. La voce doveva respirare insieme allo spazio, essere viva, reale, imperfetta nella sua verità.

Quando riascoltarono quelle tracce, l’intuizione era lampante: non c’era solo una voce, c’era un’anima. Elisa non lo dimenticò più.

L’eredità del maestro

Ecco chi era Carlo Ubaldo Rossi: un fonico che aveva capito che il suono non è una questione di decibel o di equalizzatori.

È una questione di verità. Di presenza. Di quella capacità rara, quasi perduta, di saper stare fermi ad ascoltare prima di agire.In un mondo che corre verso la perfezione digitale, lui si fermava ad accordare il silenzio. E da quel silenzio, poi, nasceva tutto il resto.

Gli aneddoti che vi ho raccontato sono giunti a me attraverso i racconti di chi l’ha conosciuto: artisti, musicisti, professionisti del settore. Sono storie che si muovono in equilibrio tra ricordo e leggenda, ma coerenti con la sua filosofia di pensiero che è giunta fino a noi e che continua ad alimentare quell’affetto immutato per questo grande maestro della fonia italiana.

fabrizio cit chiapello in primo piano
Fabrizio “Cit” Chiapello e il Transeuropa Recording Studio

Carlo U. Rossi, la biografia

Carlo Ubaldo Rossi è stato uno dei produttori discografici e fonici più influenti della storia della musica italiana contemporanea. Nato a Monaco di Baviera il 17 agosto 1958 e scomparso prematuramente l’11 marzo 2015 in un tragico incidente stradale, Rossi ha lasciato un’eredità artistica straordinaria che continua a risuonare nella discografia italiana.

Il suo percorso artistico inizia negli anni Ottanta a Torino, sua città di adozione, con produzioni marcatamente new wave. Dopo essersi trasferito a Firenze, avvia una collaborazione fondamentale con i Litfiba, lavorando agli album Desaparecido e all’EP Transea, che segneranno l’inizio di una carriera leggendaria.

Nel 1987 torna a Torino dove, insieme ad altri musicisti, fonda il Transeuropa Recording Studio, destinato a diventare uno degli studi di registrazione più prestigiosi d’Italia.

La discografia leggendaria

La sua discografia parla da sola: ha prodotto, registrato e missato alcuni degli album più iconici della musica italiana degli ultimi trent’anni.

Con Ligabue ha realizzato Buon compleanno Elvis (1995), disco che ha consolidato il rocker emiliano nell’olimpo del rock italiano. Per Gianna Nannini ha prodotto Cuore, oltre ad aver mixato Un giorno disumano. Con i Litfiba ha continuato una collaborazione che ha attraversato gli anni, mentre con i Subsonica ha contribuito a definire il sound elettronico-rock che li ha resi icone della scena alternativa italiana, lavorando a capolavori come Microchip emozionale.

La collaborazione con Caparezza rappresenta uno dei capitoli più significativi della sua carriera: Rossi ha prodotto praticamente tutti gli album del rapper pugliese fino al 2014, da Verità supposte (2003) a Habemus Capa (2006), da Le dimensioni del mio caos (2008) a Il sogno eretico (2011), fino a Museica (2014).

Questa partnership ha dato vita a un sound unico che ha rivoluzionato il rap italiano, fondendo hip-hop, rock, elettronica e sonorità sperimentali con una raffinatezza produttiva senza precedenti. Nel 2017, Caparezza gli ha dedicato l’album Prisoner 709 in sua memoria.

Le innumerevoli collaborazioni

Tra le sue numerose collaborazioni figurano anche album per 883 (Uno in più, 2001), Jovanotti (Lorenzo 2002 – Il quinto mondo), Baustelle (La malavita, 2005, e Amen, 2008), Nina Zilli (Sempre lontano, 2010), oltre a Paola Turci, Irene Grandi, Negrita, 99 Posse, Vinicio Capossela, Neffa, Africa Unite, Arisa, Max Pezzali e innumerevoli altri artisti della scena indipendente e mainstream italiana. Nel suo palmares si contano nove dischi d’oro.

Oltre alla produzione discografica, Carlo U. Rossi si è dedicato attivamente alla formazione e alla divulgazione, insegnando presso il Conservatorio Ghedini di Cuneo dove è stato docente di Storia delle Tecnologie Elettroacustiche, Acustica degli Strumenti Musicali, e Tecnologia e Tecnica della Ripresa e della Registrazione Audio.

Il ricordo degli artisti

La sua morte ha lasciato un vuoto incolmabile nella musica italiana. Innumerevoli artisti lo hanno ricordato con affetto e riconoscenza: Gianna Nannini lo ha definito “uno straordinario produttore e ingegnere di alta levatura rock”, mentre Max Pezzali lo ha paragonato a un Obi Wan Kenobi, mentore e guida spirituale.

Paola Turci ha dedicato il suo album Io sono (2015) “alla memoria di Carlo U. Rossi, amico e produttore”, i Litfiba gli hanno omaggiato con la bonus track La danza di Minerva nell’album Eutòpia (2016), e i Subsonica con il brano Le onde nell’album 8 (2018).

Carlo U. Rossi non era solo un tecnico del suono, ma un autentico artista capace di trasformare le visioni degli artisti in realtà sonore. La sua capacità di fondere competenze tecniche all’avanguardia con una profonda sensibilità musicale lo ha reso una figura unica e insostituibile nel panorama della produzione italiana.

Il suo lascito continua a vivere attraverso i dischi che ha contribuito a creare e attraverso gli allievi che ha formato, testimonianza di una vita dedicata interamente alla musica.

L’ospite di oggi di Masterclass – la rubrica di Zetatielle Magazine dedicata alle eccellenze della musica italiana – è l’erede della filosofia del maestro Rossi, suo allievo e oggi responsabile di quel luogo leggendario che è stato il suo studio di registrazione: il Transeuropa Recording Studio di Torino.

È con noi oggi, per rispondere a domande tecniche e condividere ricordi, Fabrizio Chiapello. Per gli amici il “Cit”.

una sala di registrazione
Fabrizio “Cit” Chiapello e il Transeuropa Recording Studio

Fabrizio “Cit” Chiapello, la biografia

Sound Engineer, compositore, Producer, Arranger: Fabrizio “Cit” Chiapello è una delle figure di riferimento quando si parla di produzioni discografiche.

Con oltre venticinque anni di attività al Transeuropa Recording Studio di Torino, ha contribuito alla realizzazione di alcuni dei dischi più significativi della scena musicale nazionale, spaziando dal rock alternativo all’indie pop, dall’hip-hop al cantautorato.

Prima di diventare uno dei fonici e produttori più richiesti del panorama italiano, Chiapello ha mosso i primi passi come musicista. Chitarrista dei Dottor Livingstone, band torinese formatasi nei primi anni ’90, ha condiviso con il gruppo l’esperienza del Festival di Sanremo 1999, dove la band si esibì con il brano “Al centro del mondo”.

L’esperienza con i Dottor Livingstone, gruppo che si distingueva per la ricercatezza dei suoni e l’approccio trip-hop influenzato da Tricky, Portishead e Massive Attack, è stata fondamentale per sviluppare quella sensibilità sonora che caratterizzerà il suo futuro lavoro da fonico e produttore.

L’incontro con il maestro

Nel 1999 inizia la sua collaborazione con il Transeuropa Recording Studio, storico studio torinese fondato nel 1987 dal leggendario Carlo U. Rossi, compositore, arrangiatore e produttore che ha segnato la storia della musica italiana. Per anni assistente di Carlo U. Rossi, Chiapello ne eredita non solo la professionalità tecnica, ma anche quella visione artigianale della produzione musicale che pone al centro l’artista e le sue emozioni.

Dopo la prematura scomparsa di Rossi nel 2015, Chiapello assume la guida dello studio, diventandone il titolare e continuandone la prestigiosa tradizione.La sua filosofia professionale si riassume nelle sue stesse parole:

“Vivo lo studio come un artigiano e mi piace cesellare i miei lavori fino all’ultimo dettaglio. Metto a disposizione degli artisti la mia esperienza come musicista, sound engineer e produttore, immergendomi ogni volta nel loro immaginario per dare forma alle loro emozioni: la massima soddisfazione è vedere, alla fine del lavoro, gli occhi dell’Artista che brillano di piacere nell’ascoltare la propria musica.”

Questo approccio empatico e artigianale lo distingue nel panorama della produzione musicale italiana, dove la tecnica si fonde con una profonda comprensione artistica.

Nel corso della sua carriera ha lavorato come sound engineer, mix engineer e arrangiatore di alcuni dei nomi più importanti della scena musicale italiana, oltre a numerosi altri artisti emergenti e affermati della scena indipendente, premiati da pubblico e critica.

Oltre al lavoro in studio, Chiapello vanta una significativa esperienza come fonico Front of House, avendo curato il suono dal vivo nei tour di Baustelle, Niccolò Fabi, Arisa, Urban Strangers e Alexia. Parallelamente all’attività di produzione, è docente presso il MusicLab Studio di Torino, dove conduce seminari e workshop di audio mixing avanzato molto apprezzati nel settore.

Il presente e il futuro del Transeuropa

Dopo quasi un decennio di stretta collaborazione informale con Alessandro Lestino del MusicLab Studio, nel 2024 i due professionisti hanno ufficializzato e reso continuativa la loro cooperazione, consolidando il Transeuropa Recording come uno degli studi di riferimento nell’area metropolitana di Torino.

Il team attuale del Transeuropa include, oltre a Chiapello, Stefano Angaramo e Simone Pollino, offrendo servizi completi di produzione, mixing e mastering.

Il lavoro di Fabrizio Chiapello è apprezzato tanto dalla critica specializzata quanto dagli artisti con cui collabora, che riconoscono la sua capacità di coniugare eccellenza tecnica e sensibilità musicale, creando produzioni di altissima qualità che rispettano l’identità artistica di ogni progetto.

transeuropa records studio
Fabrizio “Cit” Chiapello e il Transeuropa Recording Studio

Ritorno al Transeuropa. Il pensiero di Gae Capitano

C’è qualcosa di inevitabilmente solenne nel ritornare in certi luoghi.

Il Transeuropa Recording Studio sorge sulle rive del Po, in quella Torino che sa essere discreta e magnifica insieme, a pochi passi dal Parco del Valentino con la sua fontana delle stagioni, e dal sommergibile Andrea Provana, silente custode del 1915. Ritornare lì, lo ammetto senza pudore, mi ha emozionato.

Conosco Fabrizio da anni. Abbiamo condiviso nottate come giudici in concorsi nazionali, a parlare di filosofia e artisti, in quelle ore sospese in cui la musica diventa l’unica lingua che conta. Eppure, chiacchierare nel suo studio è stato diverso.

Perché il Transeuropa non è semplicemente un luogo di lavoro: è una leggenda.

Durante l’intervista, a un certo punto, Fabrizio si è dovuto assentare. Mi ha lasciato solo. E in quel silenzio – ironicamente inusuale per uno studio di registrazione pieno di strumenti – mi sono ritrovato faccia a faccia con qualcosa di più grande di me.

Forse era la suggestione dei ricordi, o forse la presenza fisica di quei dischi d’oro e di platino appesi alle pareti. Fatto sta che mi sono commosso.

Ho guardato quelle macchine e ho pensato che proprio lì aveva lavorato un tecnico del suono leggendario che ha immortalato il suo tocco nei dischi di Litfiba, Subsonica, 883, Gianna Nannini, Ligabue, Jovanotti, Caparezza. Nomi che hanno costruito l’immaginario di un’intera generazione, canzoni che sono diventate colonne sonore delle nostre vite.

Il fantasma gentile

Perché il fantasma del signor Carlo aleggia ancora in quello studio.

Non è una presenza inquietante, tutt’altro: è come un soffio che ti ricorda che la grande musica nasce dall’umiltà e dalla dedizione. I suoi insegnamenti, la presenza di Sandra, sua moglie, che continua a custodire quella memoria, e l’affetto di tutti i musicisti che gli hanno voluto bene, rendono quegli ambienti carichi di un’energia particolare.

Il Transeuropa non è bello nel senso convenzionale: è necessario. Uno spazio costruito per chi crea senza distrazioni, dove tutto parla di sostanza. Un’officina del suono in cui la storia della musica italiana si è scritta nota dopo nota, dove l’arte ha prevalso sul mercato.

Tutti amiamo gli studi iconici: sale immense, legni pregiati, tecnologia sofisticata. Ma senza un ingegnere del suono competente, quella strumentazione rimane inerte. Come possedere una Ferrari senza essere piloti. L’attrezzatura serve, e qui ci sono macchine storiche. Ma è chi la governa a trasformare circuiti in emozione, idee in canzoni. Il Transeuropa punta alla sostanza. E se noi artisti abbiamo bisogno di atmosfera per dare il meglio, qui si trova naturalmente.

E mentre sono lì a pensare tutte queste cose, capisco che certi luoghi ti cambiano.

Ti rendono parte di qualcosa di più grande. Ti fanno sentire, per un attimo, frammento di una storia che continua a scorrere, come il Po là fuori, indifferente e magnifico.

La storia continua

Fabrizio Chiapello, “Cit” per tutti – che in piemontese vuol dire piccolo, ragazzino – è l’erede di quell’universo sonoro che Carlo Rossi ha costruito con le sue mani e con la sua visione.

Custode di quella forma di rispetto infinito che solo i veri maestri sanno ispirare.

Ancora oggi, dopo tutti questi anni, Fabrizio rimane il “cit” di quella figura leggendaria che era Carlo. E forse, in fondo, è il “cit” anche per tutti noi che guardiamo a quel mondo con la meraviglia di chi sa di essere di fronte a qualcosa che lo supera.

Fabrizio ha continuato a far vivere quello spirito, quella ricerca della perfezione sonora, quell’approccio artigianale che mette l’artista al centro di tutto. Ha trasformato l’insegnamento ricevuto in qualcosa di suo, pur restando fedele all’essenza di ciò che il Transeuropa ha sempre rappresentato.

Guardandolo lavorare, ascoltandolo parlare con quella passione controllata che caratterizza i veri professionisti, ho pensato che forse è questo il senso più profondo della trasmissione: non lasciare che le cose muoiano, ma nemmeno trasformarle in musei.

È mantenere viva una fiamma, adattandola ai venti nuovi senza spegnerla mai.

È essere, insieme, radice e germoglio.

Oggi il Transeuropa continua a lasciare la sua impronta su questi anni veloci, ad essere quel luogo dove la musica si fa senza compromessi, dove il suono viene cesellato fino all’ultimo dettaglio, dove gli artisti arrivano con un’idea e se ne vanno con un’emozione incisa, resa eterna in tre minuti di canzone.

Grazie a un mestiere fatto di piccoli segreti e tanta cura. Fabrizio è il custode di quei segreti.

E mentre lo ascoltavo ho pensato che forse la vera grandezza sta proprio qui: nel saper essere, con dignità e senza clamore, il ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà.

Masterclass: l’intervista a Fabrizio “Cit” Chiapello

Vedo tracce sul bancone: a quale progetto stai lavorando?

«Sto selezionando una formazione per Patricia Millesi, un’artista francese molto raffinata. Il suo repertorio proviene dalla world music jazz ed è piuttosto sofisticato. Stiamo lavorando agli archi: di solito affido gli arrangiamenti ai Gnu Quartet, con cui so che hai collaborato per “Tabula Rasa” di Ilaria Porceddu. Essendo artisti molto richiesti e con base a Genova, è difficile far combaciare i loro impegni con le nostre sessioni di studio, quindi devo cercare alternative per questioni di tempistiche produttive.»

Come hai iniziato la tua carriera musicale?

«Ho iniziato come musicista, suonavo la chitarra per passione. Con i Dottor Livingstone arrivammo fino a Sanremo. Io e Andrea Bove curavamo gli arrangiamenti utilizzando tutti gli strumenti dell’epoca: Atari, midi, synth. Dopo Sanremo la casa discografica ci chiese un secondo album, ma eravamo in tour con un’ottantina di date. Trovammo la soluzione allestendo uno studio di registrazione in casa di uno dei musicisti, dove potevamo sia incidere che provare per i live.»

Come sei arrivato a lavorare in questo studio?

«Con i Dottor Livingstone le cose andavano bene e decidemmo di farci seguire da un vero professionista. Arrivammo qui, nel regno del Signor Carlo. Il disco precedente era firmato da tre produttori di livello: Vernetti, Madaski e Liguori. Con “Mada” e Liguori eravamo in sintonia, meno con Vernetti che tendeva a renderci troppo pop. Certo, avevamo registrato a Londra ed era stata una bellissima esperienza, ma noi amavamo un sound più grezzo. Per il secondo album affidammo tutto a Carlo Ubaldo Rossi, che aveva già firmato lavori per Jovanotti, Litfiba, Linea77. La maggior parte dei miei compagni abitava nella sua zona, aveva una sala prova. Sua moglie Sandra era una delle cantanti delle Funky Lips, formazione femminile molto famosa in quegli anni, e dividevamo spesso gli spazi delle sale. La fama di Rossi era nazionale e noi eravamo i ragazzini talentuosi del quartiere: fu un incontro inevitabile.»

A un certo punto sei passato dalla musica alla fonia. Come è successo?

«Durante la lavorazione del disco la nostra casa discografica cambiò i vertici direzionali e il direttore artistico che ci seguiva. Iniziarono a non essere puntuali con le pubblicazioni programmate e vivemmo una situazione di stallo. Cominciai ad occuparmi di live, piccole produzioni, colonne sonore, e mi accorsi di avere delle lacune tecniche. Chiesi a Carlo se potevo passare del tempo con lui in studio per imparare il mestiere. All’epoca non c’erano scuole o master per fonici, e il nostro è sempre stato un lavoro artigianale. Il Signor Carlo era autonomo, molto scrupoloso, non aveva bisogno di nessuno. Ma nel tempo passato insieme si era instaurata un’amicizia ancora acerba ma sincera, e non mi disse di no.»

Cosa ti disse quando accettò?

«Dietro quella porta alla tua sinistra, c’era il multi traccia da 2,5 pollici e una libreria tecnica con tutti i manuali degli strumenti dello studio. Prese un bel po’ di libri e manuali — ognuno con lo stesso numero di pagine della Bibbia — e mi disse: “Quando hai studiato tutto, torna”. Sfogliai i libri e notai che quello di acustica non era in italiano. “Carlo, io non conosco il francese”, gli dissi. Lui mi guardò: “È un problema tuo”.

Per fortuna mia sorella lo conosceva bene e mi aiutò. Mi chiusi in tavernetta per tre mesi e studiai tutti i manuali. Tornai e iniziai a stare in studio con lui, seguendo tutto quello che faceva, cercando di non disturbarlo. Piano piano iniziai a eseguire piccoli lavori sotto la sua supervisione attenta. Quando trovava qualcosa che non gli piaceva, metteva gli occhiali di traverso: “Questa posizione del microfono mi pare un po’ bizzarra”.»

Come imparavi concretamente?

«Mi ero comprato una macchina fotografica digitale e rimanevo in studio a riprodurre i suoi settaggi sulle macchine e sulla microfonazione. Lui, appena entrato al mattino, faceva partire l’audio del lavoro lasciato la sera prima: “Hai toccato qualcosa ma non hai rimesso a posto!” Aveva un orecchio finissimo.»

Chi era Carlo Ubaldo Rossi?

«Un genio, un professionista, un uomo speciale. Potrei parlare di Carlo per ore. Collaborare con lui era lavorare su un altro pianeta: era capace di tirare fuori il meglio dell’artista coinvolgendolo nella ricerca della sua vera essenza. Proponeva riflessioni, indicava soluzioni, ma quella finale la lasciava sempre all’artista. Tecnicamente era la sua capacità di ascolto a renderlo unico. E la sua filosofia di vita. Mi diceva di leggere tanto, di ascoltare tanto. Di capire quali ingegneri c’erano dietro le macchine che venivano costruite. Di imparare a collegare le macchine al suono: con questa fai questo, con quest’altra fai quest’altro. Aveva una visione molto personale anche sugli orari: si arrivava alle 8:30 e si finiva alle 18:00, salvo eccezioni. “Noi siamo persone che lavorano ascoltando”, diceva, quindi lasciava le serate libere per frequentare locali e concerti.»

fabrizio cit chiapello
Fabrizio “Cit” Chiapello e il Transeuropa Recording Studio

Hai ereditato la sua filosofia sulla scelta della strumentazione?

«Prediligeva alcune macchine. Preferenze che ha trasmesso anche a me. Il mixer che vedi alle mie spalle era il suo “bambino”, un AMR 24. Storico banco DDA con sonorità analogiche autentiche e grande trasparenza di dettaglio. A un certo punto della carriera allestì anche un secondo studio a Revigliasco, dedicato agli artisti e ai lavori per le major, e se lo portò con sé insieme agli ascolti principali: delle Genelec 1022A anni ’80, dette Darth Vader per la sagoma che ricordava il personaggio di Star Wars. Mi lasciò una seconda soluzione, un Trident Audio serie 70 dal suono più inglese, vecchia maniera, con casse Tannoy. Ma andava avanti e indietro tra Revigliasco e Torino per ascoltare come cambiava il suono tra i due ambienti.»

Qual era il metodo di lavoro di Rossi?

«Aveva un concetto chiaro: occorre fare il meglio con quello che si ha a disposizione. Però avevamo un parco microfoni molto copioso e chirurgico, e lui sapeva sempre quale fosse il migliore per ogni tipo di registrazione. Se gli chiedevo spiegazioni iniziava con le sue lezioni: “Un microfono è sempre un microfono, un mixer è sempre un mixer, delle casse sono sempre delle casse: la differenza la fanno le tue orecchie”. Quando lavoravamo in trasferta questa filosofia diventava concreta: portavamo con noi solo i microfoni e i compressori.»

Quali reverberi utilizzavate?

«Prima il 224 della Lexicon, poi inizio anni 2000, abbiamo scelto un DRE-S777, il primo reverbero a convoluzione della Sony, che fa parte del mio set di lavoro ancora oggi. Per le registrazioni acustiche abbiamo sempre preferito però curare l’ambiente per creare la giusta sonorità, e utilizzare le macchine quando era necessario a livello espressivo. Ho ereditato quella visione. Ancora oggi sento produzioni di archi che non suonerebbero così neanche se fossero state registrate a Notre-Dame. La registrazione è già di per sé un’operazione che falsa la realtà, ma credo che solo il calore di un ambiente possa impreziosire veramente il suono originale. Soprattutto nelle produzioni cantautorali dove la parola ha un certo peso e la registrazione della voce diventa l’attore principale.»

Qual è il tuo metodo di lavoro per la registrazione delle voci?

«Inizio utilizzando un Neumann con la stessa capsula del 47, capace di fotografare l’espressività dell’artista. Poi, se serve più presenza dinamica per l’attacco, aggiungo un Electro-Voice RE20, uno Shure SM7 o un AKG 414. Ogni tanto, per ovviare a certi “difetti” dell’artista – cantanti che sibilano troppo con le esse, per esempio – cambio strategia. Un microfono troppo chirurgico, per quanto bellissimo, può amplificare il problema. L’esperienza e gli insegnamenti di Carlo mi hanno portato a rendermi subito conto dei pro e dei contro e scegliere la soluzione più adatta.»

Come gestisci equalizzazioni e compressioni?

«Non equalizzo mai in fase di registrazione: a parte un filtro per togliere un po’ di rumble. Passo normalmente da pre API o SSL, e comprimo sempre in registrazione. Comprimendo bene posso cogliere con più precisione attacchi e transienti. Utilizzo un compressore della serie UREI della Universal Audio e un Distressor. Li scelgo in base al tipo di voce e di brano. L’UREI tende a “colorare” un poco il suono, mentre il Distressor è più flat. Molto spesso, mentre registro la voce e ottimizziamo i livelli, tendo a “splittare” tra queste due macchine per scegliere la più adatta. Passo dal banco per alcuni strumenti, in particolare quelli “veloci”. Per fortuna ho una bella esperienza di live e sapere da dove partire agevola qualità e velocità del progetto.»

Qual è lo strumento più difficile da registrare?

«La voce. Non è una macchina ma una persona: non ne esistono due uguali ed è influenzata da fattori come l’emotività, la giornata stessa. Una buona chitarra acustica suona sempre alla stessa maniera e il musicista può farla rendere più o meno bene. La registrazione della voce è molto legata alla performance del cantante e alle sue peculiarità. La voce è inoltre solitamente lo strumento principale: deve “bucare” l’ascolto e diventare il protagonista dello spettacolo sonoro.»

Altri strumenti complessi da registrare?

«Esistono strumenti dove occorre l’arte della microfonazione. Molto spesso bisogna sperimentare.”Parti sempre dalla cassa armonica, da dove esce il suono”, mi diceva, “Poi aggiungi elementi”. Anche ovviare a certi difetti di registrazione è un segreto per esperti: ogni strumento ha aspetti che non devono essere messi in risalto. Gli strumenti a fiato, per esempio, tendono ad andare diretti sulle capsule, che possono riprendere più aria che suono. Utile nei live, ma non in studio. In questi casi lavoro di più sulla campana, o sperimento. Come registrare più sulle meccaniche se si tratta di un sax baritono, per catturare gli attacchi.»

Come ti rapporti con la tecnologia di manipolazione delle voci?

«Il problema fondamentale è chiedersi se la registrazione deve rendere migliore la realtà. Negli anni ho sviluppato un orecchio allenato a riconoscere l’intonazione ma anche a preservare il carattere dell’interprete. Carlo era molto intransigente su questo: mi ha insegnato che a volte è molto più bella una voce non intonatissima ma che ti trasmette qualcosa, piuttosto che una tecnicamente perfetta. L’Autotune esiste dagli anni 2000 ed è nato come automatizzazione per velocizzare processi che i fonici eseguivano di routine. Negli anni ’90 anch’io utilizzavo un campionatore Akai per correggere l’intonazione delle singole sillabe. Un lavoro lungo e noioso che l’Autotune faceva invece con velocità e discrezione. Poi il suo utilizzo portato agli estremi l’ha reso famoso, ben oltre lo scopo ingegneristico originale.»

Quindi come la pensi sull’uso di questi strumenti?

«Se usati con intelligenza, Melodyne o Autotune servono a compensare i tempi di registrazione diventati più brevi nelle produzioni moderne, per questioni di investimenti e mercato. Si tiene una take magari non perfetta che può essere corretta, senza il bisogno di registrarne dieci per trovare quella giusta. Non dimenticando che questo processo toglie molto del carattere personale dell’artista, annullando in qualche modo il suo essere unico.»

L’insegnamento più prezioso di Carlo sulle voci?

«La verità che la musica, alla fine, deve emozionare. E la voce è uno degli strumenti principali per arrivare a questo obiettivo.»

Molti dicono che alcuni capolavori non hanno intonazioni perfette…

«Curare “anche le mosche”, come diceva Carlo, in cerca della perfezione a volte fa perdere di vista l’emozionalità. Ci sono strumenti che “registrati male” rendono di più che immortalati in modo tecnicamente perfetto. Penso a certe chitarre acustiche dove le “sporcizie” che accompagnano il suono – l’attacco del plettro, il sibilo delle dita che si spostano sulle corde, il rumore di un palm mute – diventano importanti quanto il suono stesso. Il lavoro della produzione è capire quale tipo di suono è utile al risultato finale.»

Come ti poni sul processo di mastering?

«Lo discuto subito con i clienti per evitare fraintendimenti: il mastering è fondamentale per un risultato a passo con i tempi e gli impieghi professionali. Utilizzo uno studio esterno specializzato, uno dei migliori in Italia, e fornisco al cliente direttamente il loro listino e le opzioni disponibili, tipo mastering online o altro

Con la tua esperienza perché non farlo direttamente?

«È un lavoro che porta via molto tempo e gli studi che si dedicano solo a quello si sono specializzati con macchine dedicate, ottimizzando in qualche modo il processo, offrendo competitività di livello e velocità. Se me ne devo occupare per qualche motivo il mio processo di lavoro è passare il mix dal banco separando lo strumentale, le voci effettate, i cori per poi lavorare su pochi stem fondamentali. Masterizzo direttamente dal mixer se voglio sentire il lavoro di compressione. Via software se voglio curare meglio dinamica e apertura stereofonica. Infine ho delle referenze per capire il livello di volume: ma solitamente utilizzo le “orecchie” che non sbagliano quasi mai.»

Cosa possiamo ascoltare di tuo, di recente pubblicazione?

«Tra poco uscirà un disco di Morgan Icardi, un pianista e direttore d’orchestra molto giovane ma già preparatissimo. Con lui abbiamo fatto la registrazione di tutto l’album partendo dal concetto moderno di cogliere il suono dal punto di vista dell’esecutore, dall’ascolto del pianista stesso. Abbiamo scelto di catturare la riverberazione naturale della stanza e discusso molto sulla scelta migliore dei microfoni.»

So che hai usato le sale di ripresa del MusicLab, per questo lavoro.

«Sono molto contento della collaborazione con MusicLab di Settimo Torinese, nato negli spazi della Suoneria, una realtà dedicata a sale prova e concerti. Da anni tengo lì un seminario di mix e mastering e ho conosciuto i vari docenti, tutti professionisti preparatissimi. La struttura, guidata da Alessandro Lestino, ha un’ottima organizzazione e gli allievi arrivano da tutta Italia. Ogni anno ne prendo alcuni in stage: è un’esperienza bellissima perché mi piace insegnare e avere un contraddittorio.»

Come è nata questa collaborazione?

«Dopo la pandemia mi sono accorto che lo studio del MusicLab era poco utilizzato, se non per le lezioni. Ha una bella sala di ripresa e una bella regia. Allora ho proposto ad Alessandro di rimetterla in moto, cambiando alcune macchine e migliorandola. Ci ho portato diverse produzioni perché la sala si presta molto alle riprese con tutta la band. Ed è perfetta per accogliere progetti come quello al pianoforte di Morgan, dove l’ambiente diventa parte del suono stesso. Una struttura così permette di provare gli arrangiamenti di un brano e poi registrarlo con tutti i musicisti insieme: ho pochissimi rientri, successivamente devo fare solo overdubbing. Nella gestione ho inserito i miei due assistenti, Stefano e Simone, che stanno lavorando molto bene insieme ad Ale.»

Parlando di musica, cosa senti in giro in questo momento?

«Ormai si viaggia tutto su preset e mode. È un’involuzione perché tutto sembra uguale e te ne accorgi dalle scelte degli ascoltatori. Questo succede secondo me anche perché non esiste più affezione a un artista rispetto a un altro. C’è questo ricambio continuo di personaggi. Non c’è più una presa di posizione precisa da parte loro: “Io faccio questo!” Prendiamo artiste famosissime come Elodie e Annalisa. Ci sono brani in cui non riesci neanche a riconoscerle come timbro vocale, tanto i preset hanno standardizzato il risultato finale portandolo ai gusti del pubblico attuale. Invece di valorizzare il timbro e la voce di un cantante, si fa una scelta di mera funzione, se vogliamo parlare filosoficamente.»

È una sconfitta dell’artista?

«A volte mi chiedo quale differenza ci possa essere se la canta Arisa o l’intelligenza artificiale. Si perde tutto il lavoro di costruzione di un’identità, un lavoro che può costare una vita di studio, fatiche, sperimentazioni. Questo “piattume” fa perdere l’espressività che ci rende unici. Questo uniformarsi sarà il problema più grande per le prossime generazioni musicali. Lo vedo con mia figlia. Che per fortuna è praticamente cresciuta in mezzo a queste macchine e ha sviluppato una sensibilità musicale un po’ fuori dal comune.»

Bea, la tua principessa, la tua “Donnamoderna”. Come riesci a conciliare il lavoro in studio con il ruolo di padre?

«Be’, non è sempre facile, lo ammetto. Gli orari dello studio di registrazione sono quello che sono: quando un musicista entra in sessione alle otto di sera e ti dice “senti, stasera mi sento ispirato”, non è che puoi dirgli “scusa ma devo andare a casa per la cena”. Però con Bea abbiamo trovato un equilibrio. Lei respira musica da quando era nella pancia della mamma: concerti, studio. Fin da piccolina ballavamo rock ‘n roll mettendo su vinili. Mi spiace solo per la fine che ha fatto “Breakfast in America” con la sua manina che voleva metterlo su da sola! Il punto è che non ho mai tenuto separati i due mondi. Lei è cresciuta con questo mestiere intorno, e penso che questo ci abbia aiutato.»

Quest’estate l’hai portata su un paio di concerti in cui lavoravi. Com’è andata?

«Per necessità, in realtà: amici e parenti tutti via e noi non ancora in vacanza. Ma s’è divertita tantissimo! E mi ha fatto morire con i suoi commenti: “Io sposterei la pedaliera del chitarrista un po’ più in là così non dà fastidio alla cantante”, “Mmm, tende a essere un po’ calante”, “Bravi, ma questo pezzo l’han fatto preso troppo veloce”. Considerazioni che molto spesso non mi fanno neanche degli stagisti che escono dalle scuole di produzione! Ha un ottimo orecchio, devo dire. Oltre alla pazienza, la diplomazia, la gestione dei musicisti. Cose che a me hanno richiesto anni di lavoro su me stesso.»

Però lei continua a dire che da grande vuole fare la matematica…

«Sì, sempre detto che vuole fare la matematica, che le piace moltissimo. Studia pianoforte di sua sponte, fa la media musicale ed è contenta. Mi dice: “Pà, quando suono sono felice, sono solo io con me stessa e le note. Tutto il mondo là fuori, la scuola, le ansie, non esistono”. Sono felice che la musica abbia una parte importante nella sua vita, ma se scegliesse di fare qualunque altra cosa, lo sarei lo stesso sapendo che è quello che vuole fare e che la rende felice.

Con lei ho scoperto che cos’è l’amore incondizionato. Molti mi dicono che ho un rapporto simbiotico con mia figlia. Non lo so. Sicuramente ho capito perché nei secoli l’umanità ha spesso paragonato l’amore di un Dio a quello di un genitore per il proprio figlio. Di poter sentire tutto ciò, ogni giorno, le sono grato.»

Che eredità ha lasciato a tua figlia, Carlo Ubaldo Rossi, anche se l’ha conosciuto per poco tempo?

«Il signor Carlo era suo padrino e, anche se l’ha vissuto per poco, ne sente il carisma e la suggestione. Ama sentire i miei racconti su di lui e me li chiede, spesso per l’ennesima volta, come se fossero le favole della buona notte. Per me raccontarle di Carlo è un modo per tenerlo vivo, e per lei è come avere una figura mitologica nella sua storia personale. C’è qualcosa dell’approccio di Carlo, quella serietà mista a passione, che spero le arrivi attraverso questi racconti. Perché se Bea dovesse scegliere di fare musica nella vita, anche solo un piccolo frammento della visione di Carlo sarebbe preziosa, in questi tempi musicali in continua evoluzione.»

E se il Signor Carlo fosse qui oggi, cosa pensi avrebbe detto di questi tempi musicali?

«Probabilmente avrebbe messo di traverso gli occhiali e ci avrebbe guardati sorridendo in silenzio.»

fabrizio cit chiappello in primo piano di profilo
Fabrizio “Cit” Chiapello e il Transeuropa Recording Studio

Gli occhiali di traverso”. Che bella immagine.

E questa frase mi ha fatto tornare in mente una dedica che Fabrizio aveva scritto in un post. Parole semplici, ma così vive da attraversare il tempo. Le ho cercate. E le condivido con voi.

Perché raccontano, più di ogni altro tentativo, la storia di un’amicizia che non finisce. Che resiste, che continua a brillare. Oltre gli anni, oltre le distanze.

Oltre tutto.

“Impossibile non ricordarti, Sig. Carlo. Come ogni giorno. Dieci anni. Manchi: mancano i tuoi consigli, la tua amicizia, i tuoi PDF di mixer e microfoni spediti mentre eri in barca chissà dove. Il «Questa compressione mi sembra un po’ fascistella!», i negroni a fine giornata di lavoro e i tuoi occhiali messi storti che valevano più di mille parole. Però, in questi dieci anni, ci sei sempre stato. Quando serve, una tua frase – a cui magari avevo dato poco conto – mi bussa sulla spalla e si fa sentire. Aiuta. Quando serve, ci sei sempre. Grazie.” (Il Cit)

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Gae Capitano
Gae Capitanohttps://gaecapitano.it/
Paroliere, compositore, arrangiatore e musicista italiano. Disco d’Oro – Disco di Platino – Finalista Premio Tenco – Vincitore Premio Lunezia Autori- Vincitore Premio Panchina, Resto del Carlino – Vincitore Premio Huco- Finalista Premio De Andrè – Valutazione Ottimo Mogol e Docenti Centro Europeo di Toscolano
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