“I soliti ignoti”: la trilogia che continua a raccontare l’Italia di oggi

Ho deciso di riscoprire I soliti ignoti in una sera in cui cercavo un film capace di scaldare un po’ l’atmosfera e riportarmi a quella sensazione di casa che solo certi classici sanno dare. È partita una maratona improvvisata, quasi senza accorgermene: prima il film di Monicelli, poi Audace colpo dei soliti ignoti e infine I soliti ignoti vent’anni dopo.

Alla fine della visione, mi sono ritrovato con la stessa idea che avevo anni fa, ma con una consapevolezza più forte: questa trilogia non solo rappresenta una pietra miliare della nostra cultura cinematografica, ma continua a raccontarci chi siamo con una precisione sorprendente. È cinema che parla al presente attraverso la memoria, capace di far ridere e, nello stesso tempo, di far pensare in modo affilato.

Mario Monicelli: l’inventore involontario della commedia all’italiana

Rivedere I soliti ignoti significa tornare al momento esatto in cui Mario Monicelli cambia il corso del cinema italiano. Il suo film del 1958 non nasce con l’intenzione di rivoluzionare un genere; eppure, proprio attraverso il suo sguardo limpido e realistico, Monicelli dà vita alla commedia all’italiana nella forma che ancora oggi riconosciamo. Allo stesso tempo, introduce nel nostro cinema un elemento narrativo allora quasi pionieristico: la struttura del caper movie, il film sul “colpo” orchestrato da una banda improvvisata, costruito su preparativi, piani più o meno geniali e inevitabili complicazioni. I soliti ignoti diventa così, di fatto, il capostipite italiano del genere, un modello destinato a influenzare decenni di cinema successivo.

Il regista osserva la povertà urbana, le aspirazioni frustrate, la dignità dei piccoli e la necessità di arrangiarsi tra mille difficoltà con un’ironia che non diventa mai cinismo. La sua regia mantiene un equilibrio difficilissimo: racconta personaggi marginali senza ridicolizzarli, trasforma la miseria in motore narrativo senza indulgere nel pietismo, e riesce persino a costruire un ritmo quasi da heist movie pur restando ancorato al realismo quotidiano. La grandezza di Monicelli sta nella gestione della coralità, nella capacità di far convivere commedia, osservazione sociale e ritmo narrativo senza che nessun elemento sovrasti l’altro.
La Roma che filma non è scenografia: è una presenza viva, un organismo che condiziona i destini dei personaggi. E nel suo sguardo ritroviamo la lucidità di un autore che sa osservare il Paese senza retorica, senza facili entusiasmi, con una precisione che resta ancora oggi un modello.

Il cast: un gruppo di interpreti che anticipa una modernità sorprendente

Il miracolo de I soliti ignoti nasce anche dal suo cast straordinario: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò, Claudia Cardinale, Renato Salvatori, Tiberio Murgia Carlo Pisacane e Memmo Carotenuto. Una costellazione irripetibile di talenti che Monicelli dirige con la sicurezza di chi sa esattamente cosa può ottenere da ciascuno. La modernità di queste interpretazioni colpisce ancora oggi: i personaggi non sono maschere, non sono macchiette, non sono caricature. Sono individui, fragili, contraddittori, spesso buffi senza volerlo, comici loro malgrado, come la vita quotidiana insegna.

Gassman sorprende per la sua trasformazione: smette i panni del seduttore brillante e crea una figura goffa, ambiziosa, teneramente sprovveduta. Mastroianni lavora su una timidezza che diventa carattere, costruendo un padre di famiglia che oscilla tra responsabilità e desiderio di emancipazione. Totò, nel ruolo iconico del “professore”, dosa il suo genio comico con una misura rara, inserendosi perfettamente nel realismo corale del film senza mai sovrastarlo. Claudia Cardinale, ancora giovanissima, porta al film un’energia che illumina ogni scena in cui appare.

Ognuno di loro contribuisce a creare un universo narrativo che anticipa una comicità moderna, fatta di tempi asciutti, silenzi significativi, battute che nascono da situazioni più che da istrionismi. È questo che rende il film ancora così vicino al nostro presente: la naturalezza, la tridimensionalità, l’umanità dei personaggi. Il pubblico non ride di loro, ride con loro. E in quella risata si riconosce, oggi come allora.

I soliti ignoti: un piano perfetto che non nasce perfetto

La bellezza della trama di I soliti ignoti sta nella sua semplicità apparente e nel modo in cui Monicelli innesta il cuore del caper movie americano dentro la realtà popolare romana. Seguiamo un gruppo di piccoli delinquenti che tenta un “colpo” teoricamente semplice, un piano che dovrebbe garantire un futuro migliore a chi non ha mai avuto nulla. Ma la distanza tra le ambizioni del genere e la concretezza dei protagonisti genera una comicità irresistibile: nessuno possiede davvero le competenze necessarie, ma tutti, per orgoglio o disperazione, cercano di convincersi che il momento della svolta sia finalmente arrivato.

Il film procede tra tentativi, improvvisazioni, attese e complicazioni quotidiane, trasformando la preparazione del colpo in un affresco sociale. Le dinamiche interne al gruppo emergono con naturalezza, rivelando tensioni, rivalità e momenti di solidarietà inattesa. Non è la suspense a guidare il racconto, ma la vita stessa dei personaggi, fatta di errori, di piccoli slanci, di ostacoli che sembrano insormontabili.

Monicelli racconta il crimine non come avventura glamour, ma come illusione di emancipazione: una spinta umano-matematica verso qualcosa di meglio, un sogno che nasce dalla povertà e si scontra con la realtà. Il risultato è una storia che coinvolge perché respira verità e perché mette al centro un desiderio universale: la possibilità di cambiare destino, anche quando il mondo sembra già aver deciso per noi.

I due sequel: l’evoluzione di un gruppo che non smette di cambiare volto

Continuare la visione con Audace colpo dei soliti ignoti significa entrare in un’estensione naturale del primo film. Nanni Loy raccoglie l’eredità di Monicelli e la trasforma in un film più dinamico, più luminoso, quasi europeo nel ritmo, mantenendo però intatta la malinconia sociale della banda. Il meccanismo del colpo si ripete, ma non come semplice copia: Loy amplia lo spazio narrativo, sposta l’azione, aumenta la mobilità dei personaggi e costruisce un racconto che dialoga con la grande tradizione del cinema popolare degli anni ’60.

I soliti ignoti vent’anni dopo, invece, cambia completamente prospettiva. Todini non gira un semplice sequel, ma una riflessione sul tempo e sulla memoria. I protagonisti sono più anziani, più disillusi, più segnati dalle sconfitte della vita. Il colpo non è più un sogno di successo, ma un tentativo di recuperare un’identità perduta. La trilogia, osservata oggi, appare come un unico arco narrativo che attraversa quasi trent’anni di storia italiana: speranze, fallimenti, illusioni, trasformazioni. Una lunga corsa che non porta dove i personaggi sognavano, ma che racconta molto di ciò che siamo diventati.

Perché la banda dei “soliti ignoti” continua a restare viva

Rivedere la trilogia oggi significa riconoscere una parte essenziale del nostro immaginario collettivo. Nei piccoli sogni ostinati dei protagonisti, nella loro fame di dignità, nella loro capacità di ridere delle disgrazie e di cercare comunque una via d’uscita, ritroviamo ancora una vibrazione attuale. Questo cinema continua a parlarci perché affronta l’esistenza senza filtri, con un’ironia che non cancella la sofferenza ma la rende narrabile. Monicelli, Loy e Todini mostrano un’Italia che cambia volto senza cambiare davvero la sostanza dei propri desideri.
La banda dei “soliti ignoti” resta viva perché racconta il Paese non attraverso i vincenti, ma attraverso chi continua a tentare, nonostante tutto.

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Lele Boccardo
Lele Boccardo
(a.k.a. Giovanni Delbosco) Direttore Responsabile. Critico musicale, opinionista sportivo, pioniere delle radio “libere” torinesi. Autore del romanzo “Un futuro da scrivere insieme” e del thriller “Il rullante insanguinato”. Dice di sè: “Il mio cuore batte a tempo di musica, ma non è un battito normale, è un battito animale. Stare seduto dietro una Ludwig, o in sella alla mia Harley Davidson, non fa differenza, l’importante è che ci sia del ritmo: una cassa, dei piatti, un rullante o un bicilindrico, per me sono la stessa cosa. Un martello pneumatico in quattro: i tempi di un motore che diventano un beat costante. Naturalmente a tinte granata”.
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