La guerra delle orecchiette infiamma i vicoli di Bari Vecchia: sequestri, multe, resistenza e proteste delle pastaie
Chiunque abbia passeggiato nei vicoli di Bari Vecchia, almeno una volta nella vita, ha assistito a qualcosa che ha il sapore di un tempo lontano: tavolini pieghevoli, mani veloci che schiacciano piccoli pezzi di impasto trasformandoli in conchigliette perfette, un sorriso allungato ai turisti incuriositi.
Le orecchiette sono molto più di un formato di pasta: rappresentano la memoria di un popolo, il profumo delle domeniche in famiglia, un’eredità che non ha bisogno di manuali scritti, perché passa direttamente da nonna a nipote. Le pasteie, le signore dei vicoli, hanno custodito per decenni questa tradizione, facendone un mestiere spontaneo e, insieme, un richiamo turistico potente. Il problema nasce quando la tradizione incontra il business, e il confine tra folklore e commercio diventa sottile come la sfoglia di un’orecchietta tirata bene.
Le regine dei vicoli e l’arte delle mani
Negli ultimi anni, via Arco Basso è diventata una sorta di palcoscenico gastronomico a cielo aperto. Pullman di turisti scendono ogni giorno per fotografare quelle mani instancabili e acquistare sacchetti di pasta fresca da portare a casa come souvenir commestibile. La scena è così suggestiva da sembrare scritta da un regista: le signore al lavoro, i vicoli assolati, il profumo di sugo che sbuffa dalle cucine, i gabbiani che fanno da comparse. Eppure, dietro la poesia, si nascondeva una guerra silenziosa. Una guerra che non si sta combattendo con fucili e granate, ma con mattarelli e titoli di giornale.
Tutto è iniziato quando qualcuno – tra turisti delusi e blogger troppo zelanti – ha insinuato che non tutte quelle orecchiette fossero davvero nate sul tavolo delle pastaie. Secondo le accuse, alcune confezioni altro non erano che pasta industriale travestita da artigianale. Il passaparola è diventato un boato. Le pagine dei quotidiani hanno raccolto la polemica, i social hanno amplificato il coro, e all’improvviso Bari Vecchia è diventata il centro di una contesa nazionale, ribattezzata dai giornalisti “la guerra delle orecchiette”. Una guerra che ha ferito l’orgoglio delle signore e scosso le fondamenta di una tradizione che sembrava intoccabile.
Orecchiette sotto processo
E così, in una mattina d’estate, le pastaie hanno deciso di incrociare le braccia, in segno di protesta. “Basta accuse!”, hanno gridato. Perché quelle donne abituate più a lavorare che a parlare, improvvisamente si sono trovate costrette a difendersi davanti a microfoni e telecamere. Per loro non era più solo una questione di vendere pasta, ma di proteggere la dignità di un mestiere antico.
Le accuse di frode hanno attirato l’attenzione della Procura. Si parlava di pasta industriale spacciata per artigianale, di turisti truffati. Bari Vecchia, che di solito si accende per il calore delle luminarie o per le voci dei bambini che giocano in strada, improvvisamente si è trovata al centro di un’inchiesta. Una tempesta di titoli e servizi televisivi, che hanno trasformato le orecchiette da simbolo di accoglienza a simbolo del raggiro.


La guerra delle orecchiette
Per le pasteie è stato un colpo durissimo. Alcune di loro hanno continuato a rivendicare la propria onestà, raccontando che l’unico compromesso a cui erano scese era quello di far seccare leggermente la pasta, così da renderla più resistente ai viaggi internazionali dei turisti. Un gesto pratico, più che un inganno. Altre, invece, sono state dipinte come vere furbette delle orecchiette, pronte a cavalcare l’onda del turismo gastronomico. Tra voci, insinuazioni e titoloni, la verità si è persa come un fusillo caduto dietro al fornello.
La città si è divisa: c’è chi difende a spada tratta le signore, custodi della memoria barese, e chi chiede controlli severi, convinto che non basti il folklore a garantire la qualità. Intanto la Procura ha aperto un fascicolo, e il caso si è trasformato in un intrigo a metà tra cronaca giudiziaria e commedia all’italiana. Perché in fondo, c’è qualcosa di ironico nel pensare che la giustizia si debba occupare di orecchiette, mentre nel resto del mondo i tribunali si affollano di cause ben più gravi. Ma a Bari, si sa, il cibo non è mai solo cibo: è identità, politica, racconto collettivo.
Blitz, sequestri, proteste e tavoli ribaltati
La guerra delle orecchiette non è rimasta confinata alle accuse e alle aule di tribunale. La cronaca più recente ha raccontato un episodio che ha scosso ancora di più l’opinione pubblica. Taralli dolci e salati, orecchiette e pomodori secchi sono stati sequestrati dalla polizia locale perché venduti senza autorizzazione e, soprattutto, perché non artigianali. Alcuni banchi allestiti per la vendita sono finiti sotto sequestro, mentre tre commercianti sono stati multati per commercio abusivo e occupazione irregolare di suolo pubblico. La scena, tra sequestri e proteste vivaci, sembrava uscita da una tragicommedia meridionale.
Le pastaie non sono rimaste in silenzio. Le istituzioni, nella figura di alcuni assessori, hanno ribadito un punto chiave: nessuno vuole cancellare la tradizione delle orecchiette fresche, anzi l’obiettivo è tutelarla. Le signore possono continuare a esporre i loro telai e a preparare la pasta sotto gli occhi dei turisti, ma la vendita di orecchiette industriali resta vietata senza autorizzazioni specifiche. Alcune pastaie già possiedono le carte in regola, altre stanno completando l’iter per mettersi in regola. La polizia locale, dal canto suo, ha precisato che l’azione di sequestro segue le stesse regole che valgono per i mercati cittadini o per i ristoranti: tracciabilità e legalità non sono opzionali.
Questo dimostra che la guerra è tutt’altro che finita. Anzi, la tensione è ancora alta nei vicoli, con le pastaie divise tra chi vuole adeguarsi alle regole e chi teme che la burocrazia spenga definitivamente la magia della tradizione. Nel frattempo, i turisti continuano ad affollare Arco Basso. Per loro, l’orecchietta non è solo pasta: è un vero e prorpio spettacolo a cui assistere in diretta.
Tra vicoli e tavoli, la tradizione resiste
Oggi la cosiddetta guerra delle orecchiette è entrata in una nuova fase, meno romantica e molto più concreta. Non si parla più solo di accuse mediatiche, ma di sequestri, multe e autorizzazioni da ottenere. Le pasteie sono tornate nei loro vicoli, ma con la consapevolezza che non basta più ripetere i gesti delle nonne per sentirsi al sicuro. I tavoli in acciaio hanno preso il posto di quelli in legno, i lavandini a pedale fanno ormai parte del paesaggio, e la tradizione deve convivere con l’ombra di controlli e verbali.
Questa vicenda insegna qualcosa non solo a Bari, ma a chiunque si interroghi sul rapporto tra cibo, identità e legalità. Le orecchiette non finiscono in tribunale per caso: ci arrivano perché rappresentano molto più di un formato di pasta. Per Bari, sono il simbolo di una comunità che deve imparare a difendersi senza rinunciare a sé stessa. Per l’industria e la globalizzazione, sono un business da migliaia di euro che passa direttamente dal produttore al consumatore, e questo, molto probabilmente, non piace, ma al di là delle battute provocatorie, sta di fatto che il turismo di massa e la richiesta di autenticità hanno trasformato un semplice piatto di grano e acqua in una bandiera nazionale da difendere.
Guardando le pastaie oggi, c’è quasi un senso di ammirazione e malinconia. Continuano a fare ciò che sanno meglio – schiacciare impasti e trasformarli in piccole conchiglie – ma devono farlo tra regole e diffidenze. La guerra delle orecchiette, più che una parentesi, è ormai un capitolo della storia cittadina, scritto con farina, orgoglio e resilienza. E se un giorno sorrideremo davanti a un piatto di orecchiette al sugo, sarà perché sapremo che dietro quella semplicità si nasconde una battaglia che non ha ancora deposto le armi.