La veccia, amata e odiata dai contadini medioevali
La veccia riscosse nel Medioevo alterni favori. Il suo nome latino, vicia, deriva dal verbo latino vincire, ossia “legare”, perché i suoi cirri abbracciano le piante vicine senza più staccarsi. Siccome attecchisce facilmente nei campi di grano e di cereali in genere, è da sempre stata considerata una maledizione per i raccolti. E non è facile estirparla: come infestante, si è meritata infatti il soprannome di “indistruttibile”.


D’altra parte, in anni di carestia, quando scarseggiava il cibo, è venuta in soccorso ai contadini quale alimento alternativo. Coltivata sin dall’Età del Ferro per foraggiare il bestiame, i semi erano a loro volta apprezzati e diventavano mangime per animali da cortile (soprattutto piccioni). Eppure, se il raccolto era stato insufficiente, se ne cibava anche l’uomo. Dai semi si ricavava una farina oleosa che sostituiva in parte o del tutto quella di frumento, nella preparazione del pane, ottenendo il cosiddetto “pan vecciato”.


La sua capacità di legarsi ad altre specie in un abbraccio indissolubile la rendeva gradita agli sposi. Risale appunto al medioevo la tradizione di porre un mazzolino di vecce in fiore sotto le lenzuola del letto nuziale, durante la prima notte di nozze. Ciò avrebbe garantito alla giovane coppia la gioia d’amarsi per tutta la vita.
Erba da topi e da cavalli, in Irlanda
C’è un detto famoso, in Irlanda, che riguarda la veccia:
A vetch will grow through The bottom of an old shoe.


Esso si traduce come “Una veccia crescerà attraverso la suola di una vecchia scarpa”, a indicare che delle vecce non ci si libera facilmente. In lingua irlandese, la veccia è chiamata An Pheasair e viene data come foraggio a pecore e capre in allattamento, per aumentare la produzione di latte.
In realtà, dato che tra le vecce si contano più di 150 specie diverse, nell’Isola di Smeraldo hanno distinto quelle più adatte ai vari animali. Tra queste, citiamo Peasair na Luch, ossia la “veccia dei topi”, dai piccoli fiori viola, e Peasair Chapaill, ovvero la “veccia da cavallo”, dai più grandi fiori rosa.


Breve descrizione botanica di piante comunissime
Più che di veccia, sarebbe più corretto parlare di vecce, dato che sono una tribù. Appartengono tutte, ovviamente, alla famiglia delle Fabacee: elencheremo di seguito alcune tra le più frequenti. La veccia da latte è catalogata come Astragalus danicus L. e ha infiorescenze viola simili a quelle del trifoglio.
La cracca, ossia Vicia cracca L., è rampicante, con fiori numerosi, sempre viola, e raggiunge addirittura i 2 metri d’altezza. La veccia comune, che è la più diffusa in Italia, ha grandi fiori purpurei e ha il nome latino di Vicia sativa L.


Vi illustreremo meglio la veccia selvatica, ovvero la Vicia sepium L., dato che, per la sua capacità di adattamento climatico, è quella tipica dell’intera Europa. Come habitat predilige i campi, i prati e le siepi. I fusti, la cui lunghezza varia tra i 30 centimetri e il metro, possono essere striscianti ma anche rampicanti, grazie ai viticci. Le foglie sono composte da 5 a 9 paia di foglioline ovate e oblunghe e terminano appunto con un viticcio ramificato. Nella cracca, per fare un confronto, troviamo fino a 30 foglioline per foglia!


La veccia selvatica fiorisce tra maggio e agosto e le infiorescenze, che hanno un breve peduncolo, recano sino a 6 fiori. Questi sono rosati e hanno la tipica forma a papillon della famiglia. Il calice dentato è un tubicino formato dalla fusione dei sepali. I frutti sono legumi che anneriscono a maturazione, prima di aprirsi per liberare i semi. Sono lunghi meno di 3 centimetri e si restringono all’apice.


Mancano gli studi clinici per supportare un utilizzo medicinale
La veccia non viene utilizzata in fitoterapia. Pur avendo nei semi un contenuto interessante di proteine vegetali (pari al 18% circa), non è stata oggetto di studi clinici. Ci restano testimonianze tratte dalla medicina popolare: sulle montagne dell’arco alpino, ad esempio, in decotto o mangiata in insalata, era usata come diuretico e depurativo.


D’altronde tutte le piante – tra quelle che, naturalmente, non abbiano principi tossici! – sono più o meno diuretiche. Si avvalgono, infatti, dell’acqua stessa che s’impiega nella preparazione della tisana. Tuttavia, se proprio cercate un diuretico, ce ne sono centinaia migliori della veccia, che resta un’erba indistruttibile ma senza troppe qualità.
Scrisse Collodi, nel XXII capitolo di “Pinocchio”:
Quella sera [il burattino] ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse: «Non avrei mai creduto che le vecce fossero così buone!» «Bisogna persuadersi, ragazzo mio» replicò il Colombo «che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le vecce diventano squisite!»
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