Un post ironico, un riferimento sbagliato e per Miss Finlandia finisce il sogno stellato. Fino a dove si spingerà la cultura wok e chi colpirà la prossima volta? Dall’inquisizione spagnola al Tribunale dei social. Editoriale di Tina Rossi
Sarah Dzafce è stata deposta per volere dei social, perché colpevole di razzismo e tradimento dei valori wok.
Mia nonna avrebbe detto: «Siamo proprio alla frutta…» e i miei amici della canasta, purtroppo, direbbero che siamo ben oltre: che siamo all’amaro. E credetemi che questa storia l’amaro in bocca lo lascia davvero.
Ma se dal sentir popolare, di noi brutta gente di buon senso, volessimo passare al sapere scientifico umanistico, potremmo udire pareri che ci ricorderebbero che «non è la parola ad essere colpevole, ma lo sguardo di chi la giudica»… e sì, con tutta probabilità sarebbe questo il commento di Howard Becker, importante sociologo statunitense, tra i principali esponenti dell’interazionismo simbolico di Mead e Blumer e teorizzatore della Labelling Theory, con la quale ha portato all’attenzione del mondo che la devianza nasce dall’etichetta, e non necessariamente dall’atto (H. S. Becker, Outsiders).
Il club del…pc!
Eh sì, cari amici del politically correct: la devianza non è tanto una qualità dell’atto commesso da una persona quanto, piuttosto, una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di regole e sanzioni ad un “trasgressore”, ovvero è il risultato di un processo sociale di definizione. Il deviante è, in primis, colui al quale tale etichetta è stata applicata con successo, e voi, nuovi censori della nostra società malata – molto malata – di etichette ne applicate troppe, ovunque, a chiunque e senza tregua. Pare proprio non ne possiate fare mai a meno.
E così nel tempo, i protagonisti della cronaca sono identificati come il muratore di Mapello, il ricercatore Regeni, la famiglia nel bosco, l’influencer di Milano, la maestra su OnlyFans e così via… ma se provi a obiettare loro che ridurre l’identità e la complessità di una persona alla sua professione o provenienza è offensivo, quelli del WOK ti risponderanno che Massimo Bossetti era effettivamente un muratore. Già, come se un orientale non avesse effettivamente gli occhi a mandorla.
Ma Sarah, Miss Suomi, non avrebbe dovuto scherzare su questa evidente ed incontrovertibile evidenza fisiognomica perché è peccato.
Quel peccato non originale
Ovviamente ben sappiamo che le etichette non nascono a causa della perversione di alcuni né solo per cattiveria sociale. Dal punto di vista sociologico e psicologico, esse svolgono una funzione essenziale: semplificano la realtà, rendono il mondo leggibile, permettono agli individui e alle società di orientarsi nel caos della complessità umana. Classificare, nominare, distinguere è un bisogno cognitivo primario.
Senza etichette non esisterebbero né il linguaggio, né il diritto, né la convivenza sociale e neppure tante altre cose preziose.
La questione non è dunque l’etichetta in sé, ma il momento nel quale l’etichetta smette di essere uno strumento descrittivo e diventa un giudizio morale categorico. Ovvero, quando l’etichetta non è funzionale ad identificare, contenere, delimitare, insomma a distinguere l’oggetto di attenzione, ma viene utilizzata per “chiudere” il discorso; quando non è più contestualizzata, ma totalizzante; quando non indica un comportamento o una caratteristica, ma pretende di esaurire l’identità di una persona. È in quel passaggio che l’etichetta, da funzione sociale primaria, si trasforma in condanna.
La labelling theory non nega certamente il ruolo e quindi la necessità di applicare delle categorie: ne denuncia l’abuso. Mostra come, in certi contesti, l’etichetta non organizzi la realtà ma la deformi; non protegga la convivenza, ma produca esclusione; non chiarisca le caratteristiche del soggetto, ma ne semplifichi l’essenza sino alla caricatura. Ed è proprio in questa degenerazione che la reazione sociale – ora magnificata dagli strumenti social media – finisce per raccontare molto più di “coloro che giudicano” di quanto non dica a proposito di chi viene giudicato.
“È la confessione, non il prete, che ci impartisce l’assoluzione.” Oscar Wilde
Ed è subito sera… cantava il poeta, ma io direi che purtroppo è già notte fonda. Notte buia e tempestosa perché siamo onestamente stufi della gogna mediatica e delle scuse ufficiali non richieste e non dovute.
Scuse ufficiali, dissociazione, condanna e così via… e alla disorientata ragazza – che come sempre ha tentato goffamente di giustificarsi peggiorando la situazione – è stata tolta la corona di Miss.




Sì, è accaduto veramente. Sembra impossibile o pare uno scherzo di cattivo gusto ma – purtroppo – è vero. Vittima dell’ennesima follia social, fortemente voluta da chi prende il chiacchiericcio dei leoni da tastiera (le comari del terzo millennio) come qualcosa di serio, e da chi, schiavo del politically correct, si indigna pure su commissione, è stata Sarah Dzafce, vincitrice della corona di Miss Finlandia (o Miss Suomi) lo scorso settemb
Per lei è stato sufficiente postare un video in cui si tirava gli occhi con le dita, fingendo che fossero a mandorla, per scatenare il finimondo. Ma diciamola fino in fondo: perché la ragazza è davvero senza vergogna… pensate che – non contenta – ha addirittura postato l’infamante e violenta didascalia: «Mangiare con un cinese».
Mamma mia, che persona orribile!
Giusto toglierle il titolo di Miss Finlandia e sacrosanta l’espulsione dal concorso di Miss Universo… ma scherzi a parte, purtroppo c’è davvero poco di cui ridere.
Vergogna! Vergogna! E ancora vergogna! È stata la reazione sui social, specialmente dal Far East.
Siamo tutti d’accordo nel condannare qualsiasi forma di razzismo e di derisione della condizione fisica di alcuno di noi, e siamo concordi nel sostenere che se ti insultano è giusto indignarsi, protestare e far valere le proprie ragioni: già, se ti insultano. Peccato però che in questo caso, l’offesa non ci sia stata.
Ma assenza del “reato” a parte, ciò che rende oltremodo curiosa la vicenda – ma forse l’aggettivo corretto è ridicola – è che gran parte delle proteste siano giunte da una parte del mondo che, tra le attività preferite, annovera l’esportazione di merci contraffatte, irregolari, pericolose e dannose per la salute, facendosi beffe di qualsiasi normativa europea, e che inquina il mondo fregandosene allegramente degli altri, di tutti gli altri. Ciò che suona fastidioso è che il moto di indignazione si sia mosso da una parte del mondo dove molti letteralmente schiavizzano i propri concittadini ed ancora sfruttano abbondantemente il lavoro minorile… sì, proprio da quelle povere anime delicate e pie è arrivata la condanna più forte.
Sì, proprio loro si sono maggiormente turbati. Del resto, le loro nobili, sensibili e pure anime non potevano che essere devastate dalla violenza di un simile gesto razzista…
“Non temete dunque; perché nulla è nascosto che non sarà rivelato, e nulla è segreto che non sarà conosciuto.” Dal vangelo secondo San Matteo, 10-26
A questo punto serve un po’ di sana franchezza, anche se urterà la sensibilità di alcuni.
E sì, cari orientali, e mi dispiaccio di essere costretta a tanta franca crudeltà, purtroppo per voi devo comunicarvi questa scioccante notizia: avete occhi con un taglio particolare, da noi detto “a mandorla”.
E pensare che noi, stupidi colonialisti europei dall’animo perverso e crudele, pensavamo – dopo aver sfanculato Lombroso e gli altri della Fisiognomica, che fosse una cosa normale avere una caratteristica fisica piuttosto che un’altra, e invece abbiamo imparato che degli occhi a mandorla bisogna vergognarsi.
Perché avere un taglio di occhi diverso, oppure un naso aquilino, all’insù o a patata, o ancora essere biondi piuttosto che castani, corvini o rossi, o avere la fossetta sul mento piuttosto che la fronte più o meno alta, da oggi è una cosa di cui tutti noi – peccatori – dobbiamo vergognarci. E dobbiamo pretendere il pentimento anche dal parrucchiere, quando ci dice che abbiamo la ricrescita grigia o che sulla piazza i capelli si stanno diradando… insensibile razzista!
Purtroppo, a quanto pare, non è più possibile avere una propria identità fisica, perché i grandi cultori del diverso e dell’inclusione, il diverso lo avversano in nome dell’omologazione fisica e culturale: ma ovviamente dipende dai casi. Certo che sì, dipende da caso a caso: cari infedeli, perché voi non sapete ciò che fate, ma quelli del WOK, loro – atei, agnostici e “senza Dio” – conoscono la verità rivelata.
Loro sanno che cosa è giusto.
Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.
Ovviamente anche in questo caso i santoni della religione WOK, quella del politically correct, si sono affrettati a porre rimedio alle ignobili azioni di questa peccatrice… così il premier finlandese Petteri Orpo, estremamente turbato ed in profonda crisi mistica – perché mai nella sua vita si era trovato di fronte a qualcosa di sittanto grave – (del resto è uno di quelli che vede volare i droni russi), si è affrettato a definire il gesto della Miss e dei parlamentari che l’hanno sostenuta, “scriteriato e stupido”, appoggiato e incalzato dalla solerte direttrice del concorso di Miss Suomi, Sunneva Sjögren, che senza indugio alcuno ha squalificato la miscredente.
E mentre scrivo queste parole, mi pare quasi di udire lo scricchiolio del legno delle antiche tribune inquisitorie. Sì, perché l’arte della condanna pubblica non è certamente nata oggi: già un tempo lontano bastava un sospetto, uno sguardo storto, una fisicità particolare o una risata cupa, e il paese intero si trasformava in tribunale.
Allora l’anatema, quella maledizione solenne e definitiva, era l’arma da fuoco dei vescovi: separava il “peccatore” dal gregge, lo dichiarava contaminato e lo escludeva, condannandolo al silenzio eterno. E chi osava opporsi rischiava di ritrovarsi sull’altare del pubblico giudizio, alla gogna o sul rogo per ricordare a tutti che la morale era quella dei potenti e dei giusti in toga o in mitria. Ma, quanto meno, al tempo. una morale giusta o sbagliata, condivisa o imposta, c’era: una serie di valori che, anche qualora non condivisi o avversati, erano quantomeno interpretabili e quindi “prevedibili”.
Exigit sincerae devotionis affectus (Papa Sisto IV – 1478)
Oggi, non servono più i tribunali inquisitori né i roghi: basta un dito sul mouse o uno smartphone nella mano. La nuova inquisizione non è spagnola ma globale, e la sua versione 2.0 non ha bisogno di una Bolla Papale di autorizzazione, perché viaggia veloce sulla fibra ottica, e i social network sono le sue piazze medievali sulle quali si brucia la strega.
Un gesto ingenuo, una battuta leggera, un video spensierato o anche stupido (perché tutti, chi più chi meno, prima o poi facciamo sciocchezze e diciamo stupidaggini) e subito scatta l’anatema contemporanea. Non più vescovi, ma influencer, opinionisti e WOK-santoni; non più roghi, ma timeline in fiamme, commenti violenti e meme assassini. Il “colpevole” diventa un simbolo e la persona scompare dietro l’etichetta. Non importa se la colpa è reale, immaginaria o relativa: a quel punto il processo è già terminato e la condanna è stata pronunciata, l’etichetta è stata applicata ed è impossibile da togliere.
E così, cari fedeli del politically correct, eccoci qui, inerti di fronte ai nuovi inquisitori che non hanno più bisogno di pergamene né di croci, a loro bastano hashtag e condivisioni.
L’anatema non brucia più sulla pelle, ma nella reputazione, nell’identità digitale, nella memoria collettiva. Così come accadeva con la caccia alle streghe, non serve capire: è sufficiente classificare, giudicare, isolare. E guai a chi prova a riderne, a scherzarci sopra, e a non prendersi sul serio: perché rischia di finire assieme agli altri nel rogo dei click e delle notifiche. E se vi sembra esagerato, ricordatevi che la storia si ripete sempre ed anche se oggi i roghi sono virtuali, l’odore freddo della paura sociale è identico.
Ecco, dunque, la nuova inquisizione: globale, digitale, onnipresente. Non distingue tra innocenti o colpevoli, tra ironia e cattiveria, tra gesto consapevole e leggerezza. Tutto ciò che conta è etichettare e sfogare la propria insoddisfazione, il proprio disagio sociale affibbiando a chi la pensa diversamente un marchio indelebile, una condanna morale altamente simbolica che spazza via la persona e lascia solo il caso, il meme, il bersaglio.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Ma anche lei, dico io: come si fa a non sapere che una miss deve solamente essere brava e ben pensante? E che, ora come ora, non serve più neppure essere bella? Possibile che nel regolamento del concorso di BELLEZZA non ci fosse scritto che la bellezza nulla c’azzecca? E soprattutto, è possibile che non sapesse che le uniche dichiarazioni che si possono fare ad un concorso di bellezza riguardano il desiderio di pace nel mondo?
Tesoro mio, ma non sapevi davvero che non hai l’etichetta giusta per fare dell’ironia?
La tua etichetta di Miss Finlandia ti concede un’ampia serie di diritti: ma tra questi non c’è il diritto alla leggerezza dei vent’anni. Del resto, ragazza mia – sii seria – non stai mica partecipando a un concorso di bellezza. Qui ed ora si sta scrivendo la storia del mondo!
La bella Sarah non sapeva che per fare battute bisogna avere l’etichetta di comico. Con quella etichetta, allora sì che – come direbbe Fabio Capello – si possono dire “cassanate” o cambiando Fabio, “litizzate”, a tutto spiano e pure sulla TV di Stato. Se si gioca con la squadra dei giusti e con l’etichetta corretta, si può lapidare chiunque! Ma per insultare il prossimo in generale, va bene anche l’etichetta del politico, o quella di opinionista oppure ve la potete cavare anche con una trasmissione televisiva, purché in prima serata. Invece, per essere ricchi, serve il numero sulla maglia, una filmografia adeguata, oppure un’etichetta musicale ma, mi raccomando, state molto attenti – è rigorosamente vietato e soprattutto moralmente disdicevole – essere ricchi se si fa impresa.
Anatema su di voi, il wok vi guarda!
Lei, probabilmente, nel postare un video spensierato durante una cena di piacere, non ha pensato che c’è un sacco di gente che non ha “caspita” di nulla da fare se non inventarsi nemici, e non ha certamente pensato alle regole stringenti dei benpensanti della cancel culture. Non ha pensato al loro complesso prontuario etico, a ciò che loro del “Grande Fratello WOK” ammettono, ciò che incoraggiano e ciò che vietano. Ed anche se ci avesse pensato, non avrebbe potuto orientarsi in questa ortodossia prescrittiva o interpretarne il pensiero, perché non si tratta di valori, ma di regole e regoline che si accavallano, si contrappongono e molto spesso si contraddicono, tanto che alle volte le questioni più gravi passano inosservate mentre le idiozie divengono sempre questioni di stato.
Ma, soprattutto, permettetemi di trovare disdicevole e, anzi, aggiungerei moralmente e istituzionalmente grave, che un premier si debba scusare per le affermazioni – di qualsiasi natura siano – di una Miss, una cittadina qualunque (sull’aggettivo “qualunque” mio marito ha protestato…), anche perché così facendo si da, o si darebbe, loro una importanza che altrimenti non avrebbero. Ma i soliti leoni da tastiera, invece, direbbero che, in qualità di Miss Finlandia, rappresenta la nazione ed i suoi valori… si, i valori di avere un bel faccino, le gambe lunghe ed il culetto sodo!
Perché in un concorso di bellezza conta la bellezza e null’altro, così come in un concorso canoro conta l’intonazione, il controllo e la tecnica vocale e non la bellezza.
La spensierata Sarah non ha riflettuto sul fatto che, nel mondo di oggi, i genitori wok non sono orgogliosi dei figli per i loro successi accademici, sportivi, artistici o quant’altro guadagnato con l’impegno ed il sudore. Non sono questi i valori da trasmettere ai figli. Oggi gli occhi dei genitori wok si riempiono di gioia e commozione per le “dichiarate o presunte” (le metto entrambe perché non ricordo quale sia la dicitura corretta) identità sessuali dei loro figli, finalmente liberi di scrivere sulla tessera del tram la loro identità di genere. E per permettere loro di identificarsi in ciò che vogliono si battono il petto, irti di orgoglio sui loro carri allegorici arcobaleno, nelle loro stantie processioni ornate di piume e culi scoperti.
Lei non sa che, nel mondo dell’indignazione permanente, l’eventuale errore – eventuale perché nel caso specifico l’errore neppure c’è – non viene più discusso, ma rapidamente e lapidariamente classificato, e che, una volta classificato l’errore ed etichettato chi erra, costui non è più una persona ma un caso, un simbolo e, soprattutto, un facile bersaglio.
“Guardatevi dal giudicare, perché con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati.” Dal Vangelo secondo San Matteo 7,1-2
E così, tra hashtag infuocati e indignazioni a comando, apprendiamo la dura lezione del nostro tempo: non conta più ciò che fai, ma ciò che gli altri decidono che tu abbia fatto. Non contano più le intenzioni, il contesto, la leggerezza o “l’essere umani”: conta l’etichetta che ti viene cucita addosso, la gogna digitale a cui sei esposto, e la capacità di sopravvivere all’occhio onnipresente del Grande Fratello WOK. In questo nuovo mondo, chi osa, senza il loro permesso, ridere, scherzare o vivere con leggerezza viene condannato.
Forse siamo ancora in tempo per fermarci a pensare prima di condannare, forse possiamo evitare che questo processo mediatico si inneschi senza essere moderato da alcuna riflessione, senza pietas umana e spesso senza motivo.
Perché Becker ci ha insegnato che si diventa effettivamente devianti solo ed esclusivamente quando l’etichetta viene applicata con successo, cioè quando è riconosciuta, accettata e condivisa dall’ambiente sociale rilevante. E’ solo così che l’individuo non viene più giudicato per ciò che ha fatto, ma per ciò che è diventato agli occhi della collettività. Il contesto può essere ambiguo e l’errore leggero, contestuale o persino irrilevante ma l’etichetta, invece, è totale, stabile, pervasiva.
E’ solo così che, anche se l’atto nel tempo si dissolve, l’identità resta.
Perché quando l’etichettatura ha successo, l’identità pubblica della persona viene riscritta. Non è più un individuo che ha compiuto un’azione discutibile, ma un tipo umano: il razzista, il deviante, l’eretico, il nemico morale. Da quel momento in poi, ogni comportamento successivo rischia di essere interpretato alla luce di quell’identità imposta. E non si osserverà più la persona, ma si cercherà la conferma dell’etichetta.
E mentre noi, gente comune del vecchio buon senso, cerchiamo ancora di capire da dove origini tutta l’energia negativa che pervade questo nostro povero mondo, resta il monito Social: anche se ti penti, non avrai l’assoluzione; anche se spieghi, non verrai ascoltato; anche se chiedi perdono, non sarai perdonato. L’etichetta rimarrà, indelebile, pronta a trasformarti in un simbolo, in un caso, nell’ennesimo bersaglio della frustrazione del terzo millennio.
Ed è così che, un po’ alla volta, senza nemmeno accorgercene, questa nostra abitudine di etichettare ha preso il posto del libero pensiero… lasciandoci in bocca quel gusto un po’ amaro di cose perdute, di cose lasciate lontano da noi…
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