Molise in smart working: un progetto pilota per riportare lavoratori nei borghi e trasformare lo spopolamento in opportunità
Lo smart working non è più soltanto una misura emergenziale legata alla pandemia, ma può trasformarsi in uno strumento di riequilibrio territoriale, come già avviene da tempo negli Stati Uniti (a proposito, il termine giusto sarebbe remote working, ma è un dettaglio).
E’ questa l’idea alla base della proposta della Lega, che punta a sperimentare in Molise il cosiddetto “smart working di ritorno”. Un’iniziativa che nasce con l’obiettivo di riportare i lavoratori pubblici nella loro regione d’origine. Il progetto prevede agevolazioni concrete come alloggi, connessione veloce e spazi di coworking.
Il Molise diventa così il terreno ideale per un progetto pilota destinato a fare scuola anche in altre aree del Paese.
Ma perché proprio il Molise?
Molise tra spopolamento e fragilità economica
Il Molise è la seconda regione più piccola d’Italia e oggi conta circa 288mila abitanti, in costante calo, con una perdita annuale di 4,3‰ (fonte Ansa). Negli ultimi vent’anni ha perso oltre 30mila residenti e le proiezioni Istat parlano di un ulteriore –12% entro i prossimi vent’anni (fonte Rainews.it). L’età media è di 46 anni, con un indice di vecchiaia tra i più alti del Paese: in alcune aree, come l’Alto Molise, per ogni 100 giovani ci sono quasi 400 anziani (fonte Ansa). A peggiorare la situazione, un tasso di natalità tra i più bassi in Italia (1,04 figli per donna) e una continua fuga di giovani verso altre regioni, attratti da maggiori opportunità di studio e lavoro (fonte Rainews.it).
Sul piano economico il Molise contribuisce con poco più di 8 miliardi al PIL nazionale, con un reddito pro capite sensibilmente inferiore alla media italiana (fonte Rainews.it). L’economia si regge soprattutto su agricoltura e allevamento, con produzioni di qualità che spaziano dall’olio ai latticini tipici, fino alla viticoltura. Accanto a questo comparto tradizionale resistono piccole imprese manifatturiere e un terziario legato ai servizi pubblici, mentre il turismo, pur in crescita negli ultimi anni, resta ancora marginale rispetto ad altre regioni.
Perchè la gente se ne va?
Le cause dello spopolamento sono molteplici: il 55% della superficie è occupato dalle montagne, con le relative difficoltà e problemi di desertificazione, comuni a tutte le aree montane: la scarsità di infrastrutture e collegamenti, la mancanza di sbocchi lavorativi qualificati, il ridimensionamento progressivo dei servizi nei centri più piccoli.
Non riguarda solo i campi che si svuotano o i boschi che avanzano su terreni un tempo coltivati: riguarda soprattutto la perdita di servizi, di opportunità. In molti comuni le scuole chiudono, i trasporti diventano sempre più rari e i presidi sanitari si riducono, rendendo complicata la vita quotidiana.
Negli ultimi vent’anni il Molise ha perso più di 30mila abitanti. Una cifra che pesa, soprattutto se si pensa che solo tre comuni superano i 20mila residenti. Il fenomeno non riguarda più soltanto i giovani che lasciano la regione in cerca di lavoro, ma interi nuclei famigliari. Questo esodo progressivo mette a rischio la tenuta sociale dei piccoli centri: le scuole chiudono, i servizi diventano scarsi, le comunità invecchiano e perdono coesione.
È in questo contesto che iniziative come lo “smart working di ritorno” assumono un significato più ampio: non solo una misura per agevolare i lavoratori, offrendo a chi lavora nella Pubblica Amministrazione fuori regione la possibilità di tornare a vivere nei luoghi di origine senza rinunciare alla propria carriera, ma un tentativo di invertire un trend che altrimenti rischia di lasciare intere aree senza futuro.
Perche non pensarci prima?
Purtroppo, la risposta è una sola: incuria. E non certo da parte di chi il Molise lo vive quotidianamente, ma di chi, sorridendo, ancora oggi ironicamente dice che “il Molise non esiste”. Se ogni giorno dici a qualcuno “sei scemo” e lo ripeti all’infinito, prima o poi, sia tu che quella persona finirete per convincervi che lo sia davvero.
E così è stato per il Molise.
Questa regione non ha certo goduto, da parte del Governo e delle istituzioni, le attenzioni che si sono invece riservate per i grandi centri urbani, per quelli balneari o di importanza turistica e la pandemia ha dato il classico colpo di grazia.
La bella notizia è che, finalmente, qualcosa si muove. La brutta – in realtà sono due – è che non solo il Molise non è l’unica area geografica italiana a soffrire di desertificazione demografica, con la conseguente desertificazione economica, mal comune – senza mezzo gaudio – di quasi tutte le aree montane, ma che per realizzare un piano di ripopolazione basato sullo smart working bisogna insistere sulla necessità di portare connessioni veloci e affidabili anche nei borghi più piccoli. Non si tratta solo di Netflix o social network: è una questione di diritti. Senza internet non si può lavorare da remoto e, per estensione, non si può fare impresa, non si può accedere a servizi sanitari digitali o educativi.
Smart working di ritorno: come funziona?
Il progetto di smart working in Molise non si limita a un’idea suggestiva, ma punta a definire un quadro normativo chiaro e strumenti concreti. Si parla di un regolamento regionale che stabilisca criteri e modalità della sperimentazione, di un tavolo tecnico con Funzione Pubblica, Istat, Università del Molise e Aran per garantire coerenza istituzionale, e soprattutto di incentivi pratici. Oltre al sostegno per la casa e alla connessione internet, l’iniziativa prevede la creazione di spazi condivisi per il lavoro agile, così da favorire la socialità e la collaborazione anche tra chi sceglie di vivere in piccoli centri. L’idea di fondo è semplice: rendere attrattivo il rientro e trasformare un vincolo – la distanza – in un’opportunità.
Il ritorno dei lavoratori non porterebbe solo benefici economici o demografici, ma rafforzerebbe il tessuto sociale. Nelle aree interne del Molise la maggioranza degli abitanti è composta da persone anziane. Il rientro di uomini e donne over 45, ancora pienamente attivi, garantirebbe un presidio di sicurezza, solidarietà e cura. Non si tratta soltanto di riempire case vuote, ma di ricostruire reti di vicinato, di ridare vitalità a paesi che rischiano di scomparire, di riattivare forme di assistenza familiare e intergenerazionale che fanno parte della nostra cultura.
Per capire la portata della proposta occorre ricordare com’è regolato oggi lo smart working nel settore pubblico. Finita la fase emergenziale, le regole sono diventate più rigide: il lavoro a distanza è ibrido, subordinato alla richiesta del dipendente e all’autorizzazione dei dirigenti, che devono verificare compatibilità delle mansioni e continuità dei servizi. Le norme di riferimento restano quelle della legge 81/2017 e dei contratti collettivi, mentre ogni amministrazione definisce piani organizzativi e linee guida. In altre parole, oggi il lavoro agile nella PA non è più un diritto generalizzato, ma uno strumento da gestire con cautela.
Molise, laboratorio di un’Italia che non si rassegna
Se la sperimentazione avesse successo – perchè non è scontato che incontri la disponibilità dei dipendenti – il Molise potrebbe diventare un modello per altre regioni alle prese con lo stesso problema: dallo spopolamento delle aree interne del Sud, fino ai piccoli comuni montani del Nord.
L’idea dello smart working di ritorno in Molise, così come pensata oggi, riguarda in primo luogo i dipendenti della Pubblica Amministrazione. Ma questo progetto potrebbe essere un possibile punto di partenza per un cambiamento più ampio. Se la sperimentazione in Molise funzionerà, nulla vieta che lo stesso schema possa essere adottato anche dalle imprese private. In questo caso, il Governo potrebbe prevedere incentivi e agevolazioni specifiche, per incoraggiare le aziende ad aderire e rendere sostenibile il rientro dei lavoratori nelle aree interne.
Sarebbe un modo per trasformare lo smart working da semplice strumento di flessibilità a vero motore di riequilibrio territoriale ed economico. Le imprese, dal canto loro, avrebbero l’opportunità di rafforzare la propria responsabilità sociale e il legame con i territori, mentre i centri più piccoli potrebbero tornare a crescere.
La sfida è culturale prima ancora che economica. Non è solo una questione di numeri, ma di futuro dei territori, di qualità della vita e di equilibrio tra tessuto urbano e extra urbano. Potrebbe essere un forte strumento per riportare i giovani ad abbracciare attività agricole e artigianali, soddisfacendo una tendenza già in atto. Insomma, lo smart working, se ben gestito, potrebbe trasformarsi in una nuova politica di coesione territoriale, capace di restituire dignità a comunità che non vogliono scomparire e non sarebbe più solo una misura emergenziale, ma una leva concreta per ridare vita ai borghi italiani.
Immagine di copertina generata con IA Bing
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