Vertice di pace di Anchorage: Putin parla da statista

Anche nel caso di un fallimento assoluto del Vertice di pace di Anchorage, che era evidente non sarebbe stato centrato sulla guerra in Ucraina ma piuttosto sugli equilibri politico-economici globali, il presidente russo avrebbe comunque potuto presentare l’incontro come un successo della politica estera della Federazione ed il riconoscimento della Russia, dello Zar Putin, quale interlocutore paritario da parte della Casa Bianca. Mentre per Trump il fallimento sarebbe stato più difficile da digerire.

Putin è arrivato a questo vertice con la necessità di scrollarsi di dosso l’immagine del dittatore, invasore, criminale di guerra che una parte dell’occidente gli ha affibbiato, a torto o ragione poco importa. Purtroppo, sì, è così: la storia la scrivono i vincitori e la storia è piena di grandi peccatori e povera di santi. Putin resterà leader della Federazione Russa e tutto l’occidente dovrà, in qualche modo, farselo piacere, andarci d’accordo e – spesso – dovrà stringergli la mano. Ma Putin ha bisogno anche di riguadagnare consenso, anche internamente, perché tre anni di guerra, di sanzioni e, soprattutto, i tanti morti di questa guerra – che hanno toccato da vicino la sfera emotiva di tantissime famiglie russe – pesano, e molto.

Dimostrando ancora una volta la grande lucidità che guida da sempre la sua storia politica, Putin ha deciso di parlare da statista, con un discorso preparato ed incentrato sui rapporti di buon vicinato, sulla storia comune, sulle tante attuali, future e futuribili relazioni economiche ma, soprattutto, sul rispetto reciproco e sul riconoscimento dell’autorevolezza della figura dell’attuale Presidente USA.

Make America Great Again!

Per Trump è stato uno spot elettorale in diretta mondiale. Trump ha scelto di confermare il proprio personaggio, se di personaggio si tratta, ovvero di presentarsi – anche in questa occasione storica – come l’uomo diretto e decisamente poco formale che conosciamo. Un uomo anche troppo diretto, che parla a braccio e molto spesso va oltre le righe, ma sempre senza retorica ed orpelli. Per lui è stata l’ennesima occasione di ribadire al mondo la volontà degli USA di riprendersi il ruolo di superpotenza mondiale, ma soprattutto una grande conferma sul piano politico internazionale, grazie al chiaro ed inequivocabile riconoscimento ottenuto da Putin, che ha detto che se alla presidenza USA ci fosse stato Trump, probabilmente la guerra non ci sarebbe stata.

Insomma, uno spot elettorale per il suo “Make America Great Again!” ed una investitura che tutti i suoi detrattori, anche a livello internazionale, non potranno ignorare: uno dei due grandi leader del mondo non democratico – o, se vogliamo essere più politically correct, dell’asset Euroasiatico – non solo lo rispetta ma lo apprezza. Ma Trump si è anche comportato da statista, tirandosi indietro sui temi che non gli competono, sui temi che dovrà trattare Zelenski. Una mossa politicamente dovuta ma anche sagacemente strategica: lui ha messo le basi per la pace, in maniera chiara, ora permettere la pace sarà compito di Zelenski e della volontà di resa che l’Europa saprà imporre all’Ucraina, dimostrando che quando serve sa anche tacere.
Questi fatti non potranno non cambiare, e di molto, gli equilibri diplomatici internazionali ed in particolare la posizione europea.

Un tempo si sarebbe chiamato disgelo

È stato un vertice di riavvicinamento tra le due superpotenze e di riappacificazione, almeno formale, tra l’occidente e l’oriente. Ed è per questo che Putin e Trump hanno voluto un incontro bilaterale.

La presenza di Zelensky o di leader europei – i leader di una Europa che non può agire da superpotenza perché divisa ed incerta – avrebbe infatti ridotto il valore simbolico e pratico del vertice. Inutile includere interlocutori, che più che essere ostili – aspetto che, certamente, non preoccupa Putin – sarebbero stati assolutamente marginali: avrebbero dato l’impressione che l’incontro fosse esclusivamente incentrato, o limitato, alla guerra in Ucraina.

Era chiaro che l’incontro avrebbe trattato della guerra in Ucraina – è stato organizzato per questo – ma che lo avrebbe fatto soltanto all’interno di un contesto più ampio: quello di un mondo diviso tra tre superpotenze – America, Russia e Cina – che vogliono affermarsi, e una quarta – l’Europa – che, malata di autolesionismo e masochismo, si scusa con l’universo per il solo fatto di esistere (e bruciare risorse) e per aver avuto un grande passato da leader assoluto del mondo. Sì, proprio quel continente che, nel bene e nel male, in tanti secoli di guerre, crociate e altre orribili azioni, ha però costruito il libero pensiero occidentale. Ma questo è il passato, che ovviamente va rinnegato.

Perché non ci doveva essere Zelensky e perché non c’era l’Europa

La condizione del presente – prendiamone atto una volta per tutte – è che tutto il mondo considera l’Europa politicamente ininfluente. E poco importa che la causa sia il disaccordo intrinseco di un sistema a maggioranza assoluta, un difetto genetico, una malattia autoimmune che volendo sarebbe curabile. La cruda verità è che non contiamo più nulla.

E non si tratta di un’opinione personale, è una realtà inequivocabile, dimostrata dal fatto che, pur avendo finanziato una significativa parte dei costi della guerra degli ucraini – perché attraverso l’acquisto del gas americano abbiamo finanziato anche parte delle risorse che arrivavano da oltreoceano – noi europei non siamo stati invitati a sedere al tavolo delle trattative, né come attori protagonisti, né da comprimari. Perché di trattative di pace trattasi, anche se per ovvi motivi non deve essere esplicitato.
Ci hanno dato il contentino in videoconferenza, ma non contiamo nulla.
Esclusi, ignorati totalmente, perché le assurde politiche del post-Merkel ci hanno portato a non avere più alcun peso a livello di politica internazionale.

La comunità europea: un progetto Made in Germany

Già… l’Europa forte – fortemente voluta e perseguita da Germania con la complicità interessata della Francia, e che aveva il solo scopo di recuperare terreno nei confronti dell’Italia e guadagnare la leadership di un complesso economico potenzialmente pari agli USA – ha funzionato, ma solo finché la Germania ne ha saputo conservarne la leadership industriale ed economica.

Perché nel loro progetto, purtroppo sorretto dal tradimento di Prodi e del clan dei bancari – Ciampi, Dini, Padoa-Schioppa e Draghi – che non solo hanno svenduto le ricchezze del proprio Paese, ma si sono assicurati di annientare l’Italia accettando un cambio lira-euro senza senso, non c’era spazio per altri leader. Del resto, in qualsiasi ballo, a condurre la danza è sempre uno solo.

Un sistema che ha funzionato ed è servito a pagare l’unificazione tedesca e per fare della Germania il leader indiscusso dell’Europa, ma che – privo di un costrutto reale e di obiettivi comuni di lungo termine – è franato su sé stesso. Perché questa scalcinata Unione Europea non è altro che un’associazione di idee e ideali (e che ideali!), e niente di più. E lo si è visto quando le paranoie green dell’“europirla” (sì, avete capito bene, sto citando Silver Nervuti) hanno distrutto il secondo comparto produttivo di qualsiasi sistema economico capitalistico: l’automotive.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio

Sì: quando la Germania ha visto decrescere il PIL, crescere l’inflazione e la disoccupazione, è scattato il panico. Ma ecco, dopo qualche mese di panico, arriva l’idea – brillante quanto folle – di costringere il resto dell’Europa a riarmarsi, per convertire l’industria tedesca, salvarne l’economia e mantenere la leadership europea. A questo punto qualcuno potrebbe dire che “il lupo perde il pelo ma non il vizio”, ma noi non crediamo che, oggi come oggi, alcun popolo abbia la facoltà di nutrire e perseguire simili ambizioni nazionali: perché per farlo dovrebbe agire unitamente, a prescindere da desideri e interessi personali.

L’imperativo categorico di oggi è: apatia.
E l’apatia – pur essendo un imperativo che vale per tutti – non comanda alcuna azione.

Non fraintendetemi: non sto sostenendo né auspicando l’uscita dall’Unione Europea, sto solo affermando che, così com’è ora, la comunità europea non è più utile neppure a Germania e Francia. Uscirne sarebbe, forse, un disastro – anche se l’economia del Regno Unito post-Brexit non se la passa peggio del resto del continente con buona pace delle catastrofiche previsioni degli “scienziati dell’economia” – ma restarci a queste condizioni potrebbe essere ancora più negativo.

Urge un cambiamento radicale. Una rivoluzione.

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire

La verità è che finora in pochi hanno avuto il coraggio di raccontare, a platee di sordi, come stanno davvero le cose, e ancora meno hanno osato pronunciare questa frase: “L’Ucraina e l’Europa sono state sconfitte.”

E poco importa se sul piano pratico e sul piano tattico dei combattimenti quotidiani, la guerra è oggettivamente già vinta dalla Russia – nonostante le gravi perdite di uomini e mezzi. Ciò che importa all’Europa è il racconto che se ne fa, al quale però non sembra credere più nessuno. E che l’Ucraina, nonostante la sua alleata Europa, sia stata sconfitta è evidente dal fatto che gran parte della popolazione, dopo tre anni di guerra, è sfinita e psicologicamente distrutta.

Del resto, la guerra non è roba da “comfort-dipendenti” del terzo millennio: certi sacrifici oggi pesano persino per un solo giorno. La guerra per la libertà non è cosa da uomini abituati alla “cattività”: uomini soggiogati – e felici e compiaciuti di esserlo – da un mondo fatto di regole, regoline, sfumature di senso, espressioni vietate e opinioni censurate. Un mondo dove siamo liberi di esprimere ciò che vorremmo essere, ma non di vivere liberamente ciò che siamo.

Che il popolo ucraino non abbia più la volontà di combattere, né l’ideale di difendere la propria patria, è dimostrato dal fatto che i reclutamenti sono ormai forzosi. Esattamente come accadde nella seconda fase delle due guerre mondiali, per tutti gli attori coinvolti. La coscrizione obbligatoria è un segnale chiaro: il gioco non vale più la candela. Perché qualsiasi popolo può sopportare l’invasione, persino l’oppressione, ma non tollera fame, paura e disperazione.

Da Euro-indifferenti a ottusi paladini della democrazia, il passo è stato breve

Dopo un decennio di indifferenza nei confronti di una guerra civile che si combatteva alle porte dell’Europa e nel cuore del mondo occidentale, l’Europa si è improvvisamente scoperta paladina della democrazia, e quindi apertamente interventista. Difendere l’integrità territoriale di una nazione, già profondamente divisa, che da un decennio combatteva una guerra civile – anche se ci si è forzatamente aggrappati agli accordi N.A.T.O. – è una decisione che avrebbe dovuto essere valutata più attentamente.

Sia perché la diplomazia avrebbe potuto fare molto di diverso nell’intervenire all’indomani dell’invasione, soprattutto per una nazione che non fa parte della NATO, e forse anche prima, se ci fosse stata la volontà, sia perché, di fatto, l’Europa è intervenuta a difendere un sistema corrotto e decisamente poco trasparente, dall’attacco di un altro regime. La corruzione profonda del sistema politico statale dell’Ucraina non è un segreto o una novità, ma un progressivo ed inesorabile decadimento morale e sociale dai tempi dell’indipendenza, il tempo degli oligarchi russi e delle grandi lobby. La difesa dell’integrità nazionale è, in questo caso – come sempre accade – il diversivo del prestigiatore per distrarre l’attenzione dal “trucco”.

Dopo la caduta dell’URSS, la NATO e la Federazione Russa firmarono l’Atto Fondatore NATO–Russia (1997)

Tornando al vertice di Anchorage – e senza ricordare ai più che la politica si può interpretare solamente attraverso una profonda conoscenza della storia e un’attenta analisi dei fatti, e che altri generi di analisi parziali e/o emotive, o peggio ancora idealistiche, sono dannose – è importante evidenziare che la storia del mondo l’hanno sempre scritta i vincitori, e che si è sempre fatta con atti di forza perché – probabilmente anche in questo ambito – non c’è modo per l’uomo di eludere le leggi di natura: a vincere sono sempre i più forti o i più adatti.

Se l’impegno comune per la pace e la cooperazione in Europa attraverso la creazione del Consiglio permanente NATO–Russia non è servito a conservare la pace, e se l’accettazione da parte della Russia dell’espansione della NATO a est in cambio della promessa che non sarebbero state installate basi militari permanenti vicino ai suoi confini è tema che evidentemente si prestava a sottili interpretazioni e spannometriche misurazioni, è oggettivo che Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, Albania, Croazia e Macedonia del Nord possano essere considerate – anche se non si è un dittatore – una eccessiva espansione verso est. E tutti questi nuovi “Patres conscripti” possono certamente essere considerati la certificazione del fatto che gli accordi verbali e le rassicurazioni fatte a Gorbaciov – cambiati gli uomini e gli equilibri di potere – non contano più nulla.

Ma il mondo evolve e le cose cambiano e quindi il rispetto degli accordi non è sempre una questione lineare

Sta di fatto che la Germania e tutto il blocco occidentale, con il riarmo europeo, stanno in un certo modo tradendo gli accordi del ’90 (Two Plus Four Agreement), che imponeva alla Germania il “non riarmo nucleare”. Poichè la Francia è il secondo stato in ordine di importanza nella comunità ed è una potenza nucleare possiamo sostenere che, e senza fallacia dell’attribuzione composizionale, che l’Europa, e quindi anche la Germania, sono una potenza nucleare, e senza attendere il riarmo. La verità è che si sta forzando una situazione tutt’altro che tranquilla, per non dire critica.

Ed è in questo contesto che il rifiuto intransigente di Zelensky di riconoscere le conquiste territoriali russe – unito alla sua pretesa, da paese sconfitto, di entrare nella NATO e nell’Unione Europea (interessata soprattutto alla futura ricostruzione economica dell’Ucraina) – si scontra direttamente con l’obiettivo strategico di Putin. E l’invito del leader russo a Zelenski ed ai leader europei, affinché non “rovinino tutto” con le follie tipiche della Comunità Europea, è stato molto chiaro.

“Una pace giusta e duratura”: le parole al vento dell’Europa

La mancanza di attenzione al significato delle parole e di certi aggettivi quando accostati a determinati sostantivi, o forse più probabilmente la progressiva analfabetizzazione dell’intera popolazione – che non è solo regresso culturale ma vero e proprio analfabetismo funzionale – si manifesta nel linguaggio in maniera più evidente che altrove, ed in particolare nella incapacità, sempre più diffusa, di utilizzare correttamente una lingua, sia scritta che parlata, per comunicare. Fatto che porta sempre più spesso a leggere o ascoltare frasi composte esclusivamente per soddisfare il politically correct, ma completamente prive di senso.

Come si può invocare una pace “giusta”?
Una cosa che subentra faticosamente a una tragedia come la guerra, come fa ad essere giusta?
È poi giusta per chi?
Perché, differentemente dalle partite dei nostri bambini, nelle guerre ci sono sempre vincitori e sconfitti ed un Trattato, con buona pace di Zelensky e dell’Europa benpensante, è sempre in buona parte la resa di uno dei contendenti, al di là di come poi la si voglia raccontare.
Un trattato di pace non può essere giusto.

Si può sperare che sia duraturo, e quindi si può lavorare affinché sia il più duraturo possibile; si può essere attenti – sulla scorta di gravi errori politici del passato – a far sì che non sia troppo penalizzante per gli sconfitti, ma in nessun modo gli può essere applicato l’aggettivo “giusto”, perché anche nell’accezione di “corretto, adeguato, appropriato” suona davvero male.

Che cosa leggeremo sui libri di storia del Vertice di Anchorage?

Obiettivo pace a parte, che questo non sia stato un incontro come altri in precedenza, lo avevano anticipato le affermazioni di Putin e poi confermato la composizione della delegazione che lo ha accompagnato. Non avrebbe potuto essere un vertice senza risultati perché Putin viaggiava con i suoi consiglieri più importanti, Ushakov e Dmitriev, oltre ai ministri dell’Economia, della Difesa e degli Esteri. Tutt’altra compagine rispetto al gruppo di riserve inviato a Istanbul a trattare con gli ucraini.

Non avrebbe potuto essere un vertice senza risultati, perché non sarebbe convenuto ad alcuno degli interlocutori essere troppo intransigente. E non avrebbe potuto essere un vertice senza risultati, perché probabilmente si è effettivamente trattato il “cessate il fuoco” – magari solo nei cieli – che sarà reso noto presto. Così come a breve verrà stabilita un’agenda di appuntamenti per arrivare alla fine del conflitto prima dell’inverno, diversamente il mondo dovrebbe fare i conti con altri otto mesi di tensioni geopolitiche che non farebbero il bene di nessuno.

Non avrebbe potuto essere un vertice senza risultati perché da un lato Trump voleva essere ricordato come il pacificatore del mondo, e, dall’altro, Putin doveva sfruttare la chance, probabilmente l’ultima, di recuperare una posizione da leader internazionale “riconosciuto”. Un tavolo di pace significherebbe molto per tutti, soprattutto per le questioni che muovono realmente il mondo, quelle economiche: perché la guerra brucia risorse, mentre la ricostruzione dopo la guerra crea opportunità, e la pace trasforma le opportunità in crescita economica mondiale.

Il silenzio degli innocenti?

Contrariamente a quanto ci si attendeva, stamattina nessuna ansa è partita dalle cancellerie europee ne un misero tweet da questi social-leader che usano il wall nazionalpopolare per diffondere in anteprima urbi et orbi dichiarazioni esplosive bruciando ogni possibilità di scoop della stampa e dei media.

Ma allora, il silenzio di questa mattina e significa che hanno finalmente compreso che la storia va raccontata a bocce ferme e non prima che gli accadano gli avvenimenti che la riguardano? E che la politica e la diplomazia non può essere demandata a dei tweet e chat da leoni della tastiera?

Oppure pensano che, essendo stati tagliati fuori, l’unica opportunità sia tifare per il fallimento del tavolo – cosa che, a leggere i quotidiani europei questa mattina – sembrerebbe essere l’esito del vertice, e così intervenire a posteriori come fanno tutti i saggi, che però in guerra si chiamano codardi?

 “Spero che l’accordo che abbiamo raggiunto insieme ci aiuti ad avvicinarci a questo obiettivo e ad aprire la strada alla pace in Ucraina. Ci auguriamo che Kiev e le capitali europee lo affrontino in modo costruttivo e non cerchino di ostacolare il processo. Non cercheranno di usare accordi segreti per mettere in atto provocazioni e sabotare i progressi nascenti”

Wladimir Putin – fonte AdnKronos

Questo file proviene dal sito web del Presidente della Federazione Russa ed è rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Attribuzione: kremlin.ru

Potrebbe interessarti anche:

Trump-Putin, la stretta di mano in Alaska

Trump e Putin, vertice senza accordo: “Incontro molto utile, ci siamo quasi”

Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
Logo Radio