Superintelligenza personale: il piano segreto (ma non troppo) di Mark Zuckerberg. Editoriale di Tina Rossi
Durante una calda e assolata giornata d’estate, mentre tre quarti di mondo era indaffarato a fare valigie e si pregustava l’idea di un bel mohjto seduto all’ombra di palme e ombrelloni, Mark Zuckerberg – patron del Metaverso – ha annunciato ufficialmente di voler costruire una superintelligenza personale accessibile a tutti. Non una trovata da marketing ma parliamo di intelligenze artificiali in grado – almeno nelle intenzioni – di superare le capacità umane in ogni ambito.
È questa l’idea che Zuckerberg ha lanciato nel suo report trimestrale estivo, nel quale celebra i numeri record della galassia Meta (oltre 3,4 miliardi di persone attive ogni giorno) ma, soprattutto, svela l’ambizione che guida i nuovi investimenti: democratizzare la superintelligenza, renderla uno strumento quotidiano e personale, alla portata di tutti. Con un post su Facebook, mascherato da aggiornamento finanziario sul bilancio d’azienda, ha annunciato un progetto che è una visione audace e che, se presa sul serio, cambierebbe radicalmente il modo in cui pensiamo alla tecnologia e al nostro futuro.
Ma la domanda vera è un’altra: che cosa significa, nella vita reale, avere una “superintelligenza personale”? E siamo davvero pronti per questo salto?
Una notizia che non ha fatto… notizia!
C’è un fatto che colpisce più di ogni altra cosa: un annuncio come quello di Zuckerberg, che promette di costruire una superintelligenza personale per miliardi di persone, è passato quasi inosservato. Non ha fatto saltare dalla sedia i media, non ha scatenato dibattiti pubblici, non ha preoccupato o stimolato gli utenti. E questo nonostante si tratti di un passo che, se realizzato, ridefinirebbe il rapporto dell’umanità con la conoscenza, con il lavoro, con la cultura stessa.
La domanda che sorge spontanea è: perché?
Parte della risposta è culturale. L’intelligenza artificiale è diventata uno sfondo costante delle nostre vite. Assistenti vocali, algoritmi di raccomandazione, strumenti di scrittura automatica: ogni giorno ci abituiamo a confrontarci con macchine che apprendono e producono contenuti. Questa esposizione continua ha normalizzato l’idea che la crescita dell’IA sia inevitabile, che i progressi successivi siano semplicemente una prosecuzione del percorso già tracciato. Così, mentre un tempo avremmo reagito con stupore a una notizia simile, oggi la percepiamo come un aggiornamento tecnico, un dettaglio all’interno di un bilancio trimestrale, e ci muoviamo oltre senza riflettere.
Ma c’è anche un fattore legato al modo in cui l’annuncio è stato fatto.
Zuckerberg non ha convocato una conferenza mondiale, ne ha scelto un palco spettacolare: ha annunciato la notizia in un post su Facebook, accompagnandola a dati di performance aziendale. La scelta non è neutra. Presentare un progetto di portata potenzialmente storica con un tono ordinario ne smorza immediatamente l’impatto. La straordinarietà si dissolve nel contesto dei numeri e delle percentuali; il futuro sembra ordinario, già previsto, calcolabile. È un gesto che controlla la percezione, e in questo senso l’informazione stessa diventa strumento: non per spiegare, ma per rassicurare, per rendere familiare ciò che eccezionale ed è pericoloso percepire come tale.
C’è poi una componente più sottile e culturale: siamo cresciuti con immagini, storie e film che ci hanno abituato a mondi dominati dalle macchine, da sistemi intelligenti che superano l’uomo. Quello scenario, che fino a ieri era pura finzione, oggi inizia a concretizzarsi. La differenza sta nel fatto che nei film il finale lo sceglie il regista e, di norma è un lieto fine, dove l’uomo, comunque vada, vince sempre. E la familiarità con queste narrazioni ha un effetto inatteso: ci anestetizza. Non reagiamo più con meraviglia o timore, ma con una forma di rassegnazione silenziosa. Sappiamo, o crediamo di sapere, che certe innovazioni arriveranno, e così non ci sentiamo più chiamati a interrogare, discutere o chiedere limiti.
E, soprattutto, abbiamo l’illusoria convinzione che “andrà tutto bene”.
Infine, il silenzio attorno all’annuncio rivela una questione più profonda: il divario tra ciò che si sviluppa e ciò che la società percepisce. Ci troviamo in una posizione passiva, spettatori di decisioni che modellano il nostro futuro, spesso senza nemmeno rendercene conto. È un paradosso: l’innovazione corre più veloce della riflessione. E così, mentre l’IA avanza, il nostro spazio di partecipazione critica si riduce, lasciando emergere un rischio invisibile ma concreto: non la tecnologia in sé, ma la nostra capacità di gestirla, di comprenderla, di darle forma in base ai nostri valori.
È vero: qualche anno fa aveva preannunciato che avremmo vissuto presto in un mondo virtuale, aveva investito pesantemente nel progetto ed era così certo delle proprie scelte da cambiare nome all’azienda, con l’obiettivo chiaro di essere poi identificata con il Metaverso. Il tentativo di anticipare e invertire il processo delle antonomasie lessicali (Kleenex per indicare i fazzoletti, Jeep per fuoristrada, Scotch per il nastro adesivo, Post-it per… il post-it, e molte altre più recenti, come “GoPro” per le action cam) è – ad oggi – fallito. Il Metaverso non ha, per la seconda volta dopo “Second Life”, conquistato le masse.
Ma al di là dell’indifferenza – più o meno volontaria – dei mass media, la domanda che ci interessa porci è un’altra: che cosa significa, nella vita reale, avere una “superintelligenza personale”?
E siamo davvero pronti per questo salto?
La superintelligenza “macht frei”?
Nelle parole di Zuckerberg c’è entusiasmo, ottimismo, slancio creativo. Ma come potrebbe essere diversamente?
La superintelligenza, secondo lui, sarà uno strumento di emancipazione: ci renderà più creativi, più liberi, più capaci di creare cultura, comunità, connessioni, ed oggettivamente (Microsoft, per citare un esempio), ha già fatto questo per noi. Ma in questo caso non si tratta di puntare unicamente a un incremento della produttività economica, ma a qualcosa di più profondo. Non un software che lavora al posto nostro, ma un alleato capace di amplificare e sviluppare i nostri desideri, il nostro stile, le nostre passioni.
Il messaggio vuole essere rassicurante: l’IA non come minaccia, ma come compagna. Eppure, non possiamo non notare, come quando passeggiamo per i vicoli di un villaggio a Ferragosto, con il sole allo zenit, quanto scure siano le ombre. Se davvero un algoritmo potrà comprendere meglio di noi stessi cosa vogliamo, potrà consigliarci e suggerirci come comportarci o che cosa fare, creare per noi o semplicemente parlarci interattivamente, resteremo noi gli autori della nostra vita o diventeremo marionette, spettatori di un film distopico? Ci ritroveremo attori in un flusso narrativo perfetto – da oscar – ma esterno, diverso da noi perché generato da qualcos’altro, o forse qualcun altro?
La linea di demarcazione tra insegnare i passi, come fa il maestro di ballo, e condurre la danza, è davvero sottile, ma di fondamentale importanza quando poi si balla. “L’umanità aumentata” rischia quindi di trasformarsi in “umanità delegata” o, peggio, in “umanità surrogata”? Insomma, credo che, quando un’azienda privata decide di accelerare così tanto in questa direzione, oltretutto investendo enormi ricchezze, valga la pena fermarsi, più di un momento, a riflettere.
Prometheus e Hyperion, i nuovi dei del futuro
Per rendere tutto questo possibile, Meta sta costruendo infrastrutture ciclopiche. Il progetto Prometheus – un cluster da oltre 1 gigawatt – sarà attivo il prossimo anno. Hyperion, il successore, potrà raggiungere addirittura i 5 gigawatt. Per avere un’idea di che cosa possa significare solamente in termini energetici, è sufficiente pensare che avrà consumi superiori a quelli di intere città.
E fanculo la crisi energetica.
Infatti, che importa agli ecologisti della domenica? Per loro, l’energia che alimenta i dispositivi elettronici, i server e tutto quanto alimenta il mondo virtuale è anch’essa virtuale, è energia pulita ed è infinita ed inesauribile… ma questa è un’altra questione.
Non sono semplici server farm: sono le fondamenta fisiche della futura superintelligenza. A supportarle, un esercito di ingegneri, scienziati e specialisti tra i più brillanti al mondo. Tra loro, nomi come Alexandr Wang, Nat Friedman, Shengjia Zhao. Una squadra d’élite che sta già lavorando sui modelli Llama 4.1 e 4.2, con lo sguardo puntato oltre: perchè la prossima generazione è già in cantiere.
Meta ha i numeri per farlo. Ha i dati (miliardi di utenti), l’hardware, la potenza computazionale e la leadership strategica. Ma avere gli strumenti non basta. Serve anche una direzione, una visione etica, una consapevolezza culturale.
Chi controlla l’intelligenza che ci aiuterà a vivere?
Dietro alle promesse di un futuro migliore, resta aperta una questione fondamentale: chi controlla questa superintelligenza? Chi decide in che modo “aiutarci”?
Zuckerberg – ci rassicura – insistendo sul concetto di personalizzazione: ognuno potrà indirizzare l’IA verso ciò che ama, verso ciò che conta per sé. Ma un algoritmo, per definizione, lavora su modelli, tendenze, pattern. E anche se l’intento è nobile, la personalizzazione rischia di diventare semplicemente una forma più sofisticata di profilazione. Sceglieremo noi o, dopo averci fatto capire che cosa ci piace, ci diranno che cosa scegliere?
Meta è già oggi uno dei più dei più grandi catalizzatori di attenzione, gestore del tempo, e creatore di desideri. Se una simile struttura commerciale dovesse governare anche la nostra “intelligenza personale”, si aprirebbe un nuovo scenario in cui il confine tra assistenza e controllo si farebbe sottilissimo. Non si tratta di diffidenza o allarmismo, ma di realismo. L’innovazione più radicale è anche quella che richiede più lucidità.
Cosa perdiamo
L’idea di avere una superintelligenza personale suona irresistibile. È comodo, potente, persino confortante. Ma il rischio è che ogni volta che ci affidiamo a una macchina per fare qualcosa al posto nostro, smettiamo lentamente di farlo noi.
Qualche esempio? Vi sfido: qual è il numero di telefono del vostro migliore amico? Una volta ricordare i numeri di telefono era la norma. Bastava un’occhiata alla tastiera per comporre al volo le cifre dell’amico, del medico, della nonna. Oggi, senza rubrica digitale, siamo persi.
Altra sfida: sapreste andare a Cercemaggiore, in provincia di Campobasso, senza navigatore o Google maps?
La memoria ha ceduto il passo alla dipendenza. Anche le strade le sapevamo percorrere senza mappe, orientandoci con punti di riferimento, gesti, abitudini. Oggi Google Maps decide per noi, passo dopo passo. E se ci chiede di svoltare in un vicolo sbagliato, spesso non ci fermiamo neppure dopo il primo gradino di Trinità dei Monti.
La stessa regressione colpisce anche le relazioni. Prima dell’era digitale, il legame tra persone passava da incontri fisici: ci si vedeva in cortile, in piazza, al bar. Si discuteva, si litigava, si cresceva guardandosi negli occhi. Oggi, sempre più spesso, le interazioni sono mediate da uno schermo. Amici che abitano nello stesso palazzo preferiscono mandarsi un messaggio su WhatsApp piuttosto che salire un piano di scale. È pratico, certo, ma anche più sterile. Una generazione intera sta crescendo senza sperimentare davvero la ricchezza dell’imprevisto, della fatica sociale, della gestione diretta dei conflitti e delle emozioni.
Caro amico, ti scrivo
La scrittura è un altro esempio.
Gli assistenti automatici correggono, suggeriscono, completano. E così la grammatica si perde, il vocabolario si assottiglia, lo stile si appiattisce. In un mondo in cui l’IA scrive, pensa e decide per noi, qual è lo spazio che resta alla lentezza, all’errore, alla scoperta personale? L’intuizione, la riflessione profonda, la capacità di argomentare con precisione sono “muscoli mentali” che, se non usati, si atrofizzano. Non si tratta di temere il progresso o di respingere i cambiamenti troppo radicali perché l’orologio biologico è molto avanzato, insomma non siamo vecchi, e non si vuole neppure teorizzare che si tratti di una catastrofe annunciata, ma la nostra volontà è di rilevare una tendenza – quella della pigrizia mentale – che è reale e che non ha alcun riscontro positivo. Una trasformazione che andrebbe quindi vissuta con consapevolezza.
Ecco perché il sogno di una superintelligenza personale non può essere solo tecnologico. Deve essere anche culturale. Dobbiamo chiederci: vogliamo veramente strumenti che ci liberano o che ci sollevano da ogni sforzo? Perché, se la prima opzione ci rende più forti, la seconda rischia di renderci irrimediabilmente più fragili.
Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi Siamo scienza, non fantascienza
La velocità con cui si sta evolvendo l’intelligenza artificiale non lascia più spazio ai vecchi schemi di vigilanza. Governi e istituzioni continuano a muoversi con il passo lento della reazione: si regolamenta – con letargico ritardo – quello che esiste già, e si cerca di contenere i danni di ciò che è stato già sviluppato, testato, diffuso.
Ma intanto, nei centri di ricerca e nei laboratori aziendali, si stanno progettando tecnologie ancora più potenti, ancora più pervasive. E nessuno, oggi, sembra davvero essere in grado di monitorare ciò che sta per arrivare. Siamo sempre un passo indietro. La gran parte di noi è sempre un passo indietro. E a questo ritmo, rischiamo di perdere non solo il controllo, ma anche la comprensione profonda di ciò che stiamo “mettendo al mondo”.
Servirebbe una vigilanza anticipatoria, non postuma. Dovremmo avere occhi, regole e responsabilità già dentro i processi di sviluppo, non solo dopo il lancio pubblico. E invece, con una certa leggerezza, si finanzia, si incoraggia, si applaude la ricerca più estrema — perché promette profitti, vantaggi competitivi, crescita. Perché “il progresso non si può fermare” e “la tecnologia è solamente uno strumento”.
Ma è corretto e prudente lasciare che sia solamente la scienza o il mercato a decidere che cosa sia opportuno per il futuro dell’umanità?
Con la clonazione il mondo è corso tempestivamente, e preventivamente, ai ripari, ed oggi, alla luce del giorno, la questione sembra sotto il controllo delle leggi.
Ma allora non è giusto lasciare che sia il libero mercato a decidere su di un cambiamento di questa portata?
Ma se non è giusto, chi dovrebbe stabilirne i confini? E chi potrebbe avere sufficiente coraggio da imbrigliare un’idea solo perché troppo potente o troppo ambigua?
Il risultato pratico sarà dunque una realtà, così come è spesso accaduto in passato, che ripropone quanto leggevamo sui libri o guardavamo al cinema qualche anno fa? “Assistenti senzienti, intelligenze superiori, mondi interamente mediati dall’IA … ma vogliamo veramente questa realtà? O, più precisamente, come vogliamo che evolva la realtà che già stiamo sperimentando? E dove ci porterà questa evoluzione?
Perché viviamo già, almeno in parte, dentro scenari che solo vent’anni fa sarebbero stati da fantascienza, ma senza più la distanza rassicurante della finzione. E in questo nuovo mondo, la domanda non è più se possiamo fare certe cose, ma se dobbiamo davvero farle.
Cui prodest?
E poi, la domanda forse più semplice e più trascurata di tutte: ci serve davvero? Ne abbiamo realmente bisogno? Una superintelligenza personale, sempre presente, pronta a decidere, suggerire, creare, intervenire nella nostra vita — è un progresso o una nuova dipendenza? È un’evoluzione del quotidiano o un’illusione costruita con straordinaria precisione? Perché a ben vedere, non sono le persone comuni a chiedere tutto questo. Non ci sono folle in piazza a reclamare l’arrivo di un’intelligenza superiore. Eppure, si investono miliardi, si costruiscono data center titanici, si assemblano team d’élite per accelerare questa corsa.
A chi giova davvero questa tecnologia? Più ai fruitori o alle tasche dei creatori? Le aziende che guidano questa rivoluzione hanno in mano i due asset più potenti del nostro tempo: i dati e l’attenzione. E ora vogliono anche la nostra fiducia, il nostro spazio mentale, il nostro tempo emotivo. L’IA personale sarà anche uno strumento utile, ma sarà soprattutto una “macchina” che produce valore economico. Non per tutti, così come ci raccontano i loro creatori. Ma per pochi, ed oltretutto i soliti pochi.
La nuova corsa agli armamenti
Negli anni Settanta e Ottanta si parlava di corsa agli armamenti. Due superpotenze si sfidavano sul piano militare, accumulando missili e deterrenza nucleare. Oggi la corsa è cambiata ma la logica che guida questa nuova corsa è sorprendentemente simile a quella della Guerra Fredda. All’epoca, le superpotenze accumulavano testate nucleari per dimostrare forza e superiorità. Oggi, aziende e governi competono nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Anche oggi ci si sfida con armi e missili, ma sempre più spesso sono gestiti da software, droni, algoritmi di puntamento e sistemi di comando automatici. La tecnologia non ha sostituito la forza militare: l’ha potenziata. E proprio come accadeva durante la Guerra Fredda, dietro la corsa all’innovazione c’è ancora una competizione globale per il dominio. Solo che ora, accanto agli armamenti tradizionali, si gioca un’altra partita: quella sull’intelligenza artificiale.
Le potenze – politicamente rilevanti – competono per sviluppare i modelli più potenti, i sistemi più veloci, le piattaforme più pervasive. I “territori” da conquistare non sono più solo fisici, né digitali ma mentali. Perché la superiorità non si misura solo con la forza bruta, ma con il controllo delle infrastrutture cognitive e informative. In apparenza si parla di progresso, innovazione, efficienza. In realtà, si continua a correre per arrivare primi. Perchè, chi arriva primo, detta le regole.
Si costruiscono modelli al posto di arsenali, si contano parametri invece che ordigni, e l’obiettivo non è più conquistare territori, ma dominare mercati digitali, dati, infrastrutture cognitive.
E se il prossimo step fosse il soldato perfetto?
Non è più solo un’ipotesi da film. In laboratori militari e centri di ricerca, l’idea del soldato perfetto – un robot che non dorme, non esita, non disobbedisce – è già in fase di sviluppo. Intelligenze artificiali capaci di analizzare dati in tempo reale, scegliere obiettivi, colpire in autonomia. Alcuni prototipi esistono, e i droni autonomi usati nei conflitti recenti sono solo l’inizio.
Ma se la guerra divenisse un video gioco come fare a farla temere al popolo?
La tecnologia che ci promette assistenti personali, occhiali intelligenti e contenuti su misura sta anche preparando un’altra faccia dell’IA: quella militare. E mentre l’attenzione pubblica resta sul lato “utile” o “creativo” dell’innovazione, dall’altro, si progetta in silenzio una nuova generazione di armi autonome.
Chi controlla queste macchine? Chi sarà responsabile di un errore? E soprattutto, chi decide oggi fin dove ci si potrà spingere domani? Non è una questione di possibilità tecniche, ma di scelte. E qualcuno, da qualche parte, sta già decidendo al posto nostro, e non si tratta neppure di chi abbiamo delegato a farlo.
La tecnologia si presenta come neutra, ed il progresso possiede in sé qualcosa di ineluttabile, ma dietro al progresso c’è sempre la volontà di potere. Nessuno vuole restare indietro. E così si accelera senza sosta, spesso senza riflettere sulle conseguenze.
È una gara a chi arriva primo, non a chi arriva meglio. E chi guida questa corsa non lo fa sempre nell’interesse collettivo: lo fa per vantaggio strategico, per influenza globale, per un posto in cima alla nuova gerarchia del mondo digitale.
Non so con che armi si combatterà una terza guerra mondiale, ma so per certo che la quarta si combatterà a colpi di clava – Albert Einstein
C’è qualcosa di paradossale in tutto questo. Ci viene detto che sarà uno strumento per l’emancipazione individuale. Ma emancipazione da cosa? Dalla fatica di scegliere? Di imparare? Di pensare? E se invece fosse solo un modo nuovo, più elegante, più invisibile, per tenerci dentro un sistema che ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi stessi — e che su questa conoscenza costruisce imperi?
La verità è che non abbiamo ancora avuto il tempo di chiederci cosa vogliamo davvero da queste tecnologie. Ma qualcun altro ha già deciso cosa dobbiamo desiderare.
Il pensiero non può non volgersi ad Orwell ed al suo 1984 ed allo slogan del partito: La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza.
Lo scopo del regime, prefigurato da Orwell, non era il benessere collettivo, ma il controllo eterno attraverso la violenza, la paura e la sottomissione: oggi sembra tutto invariato con uno strumento, di precisione, in più.
La corsa alla superintelligenza non riguarda più solo la scienza o l’ingegneria. È una questione culturale. Coinvolge tutti noi, perché il modo in cui concepiamo la libertà, la creatività, l’autonomia. Se davvero le intelligenze artificiali diventeranno compagne costanti nella nostra vita quotidiana – nei microchip sottopelle o nel cervello, nella nostra app di Assistente Virtuale, nelle nostre decisioni – allora è essenziale interrogarsi su che tipo di mondo vogliamo costruire assieme a loro. Perché a noi piace pensare il mondo come una opposizione tra Winston che crede esista una realtà oggettiva, e O’Brien che durante il lavaggio del cervello gli dice “La realtà esiste nella mente umana, e da nessun’altra parte.”
Prospettive instabili: dalla percezione ambigua alla sfida etica dell’intelligenza artificiale
Ma forse sono tutte preoccupazioni inutili, frutto dell’insicurezza umana di fronte a ciò che ancora non conosce.
Dopotutto, se è vero – come sostiene Kant – che la realtà non è un riflesso oggettivo del mondo esterno, ma il risultato di un’elaborazione mentale, filtrata dalle strutture cognitive e sensibili proprie dell’essere umano, ed ulteriormente condizionata da fattori culturali, storici e soggettivi, allora ciò che chiamiamo “reale” è già, in partenza, una nostra costruzione.
E quindi, cosa potrebbe realmente cambiare con uno strumento più raffinato?
In che modo potrebbe condizionarci ulteriormente l’intelligenza artificiale?
Forse solo in questo: potrebbe permetterci di vedere quando stiamo sbagliando prospettiva, oppure mostrarci che esistono altre angolazioni da cui osservare ciò che ci interessa. O magari ricordarci che, spesso, vediamo solo ciò che stiamo cercando — come accade con le immagini ambigue, quelle figure in cui si celano due o più forme distinte, ma che non sempre riusciamo a riconoscere da soli. Perché a volte, per vedere l’altra immagine, serve che qualcuno ce la indichi. E così, all’improvviso, la mente si apre a una seconda possibilità che era già lì — ma invisibile.
Forse l’unica vera preoccupazione dovrebbe riguardare l’ennesimo “super comfort” della vita moderna, sempre più capace di impigrire i pigri e rendere ancora più scaltri gli scaltri. Del resto, io il navigatore lo uso esclusivamente se necessario perché mi infastidisce che mi si dica svolta a destra o a sinistra se conosco la strada. E l’intelligenza artificiale, nelle ricerche delle fonti, è un aiuto davvero efficiente per un giornalista.
Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato.
Il vero problema della nostra contemporaneità è l’accumulo di potere — economico, mediatico e politico — nelle mani di pochi, che ogni giorno diventano sempre più pochi. Questo è il futuro nero dell’umanità. Non la tecnologia in sé, non il nuovo “dio”: ma il nuovo diavolo, che nasce dal rapporto sbilanciato tra chi crea, chi possiede e chi controlla.
Meta ha fatto la sua mossa, con chiarezza e tutta la potenza di fuoco di cui è capace. Ma gli altri?
E poi Meta ha davvero deciso di rivelare le proprie intenzioni, o piuttosto intende distrarci da altro con questa rivelazione?
Portare una superintelligenza nelle mani di miliardi di persone può davvero avere come scopo il bene dell’umanità?
Scusate lo scetticismo, ma è difficile crederlo.
Questa non è semplicemente una tecnologia potente: è l’onnipotenza, quella a cui l’uomo aspira dai tempi dei tempi. E allora, forse, non basta che funzioni, né che sia disponibile a tutti: è necessario che abbia un senso, un’etica, una direzione comune.
Una direzione che — ci auguriamo — spetti ancora a noi. Almeno per ora.
Foto copertina di Ralph/Altrip/Germany da Pixabay
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