L’ultimo viaggio di 166 defunti è diventato una vera e propria odissea nello spazio, con tanto di… spaceballs (balle spaziali, per gli amici italiani): capsule con ceneri di defunti perse in mare. Tra business spaziale e speranze di resurrezione cosmica, un funerale davvero…fuori dalle orbite!
C’è chi sogna di farsi spargere le ceneri sul Vesuvio, chi nel bosco dietro casa e chi, più ambiziosamente, nello spazio. È il caso dei 166 umani (e animali) le cui capsule funerarie sono state affidate alla società Celestis per un volo commemorativo in orbita. Una sepoltura cosmica, ultima moda nel campo delle esequie deluxe. Ma qualcosa è andato storto. Il veicolo che trasportava le urne con le ceneri dei defunti, si è inabissato nel Pacifico. Niente orbita eterna, niente viale del tramonto tra le stelle: solo un colossale tuffo nel Pacifico da migliaia di chilometri di altezza, e l’ammaraggio di 166 cadaveri inceneriti. Ma, vi prego, non fermatevi qui e continuate a leggere, perchè non finisce qui.
2001 – Odissea nello spazio (1968)
Il nome della navetta sembrava promettente: Mission Possible. Ottimismo, grinta, citazione cinematografica. Tutto perfetto, finché non si è rivelato che “possible” non significa “garantito”.
La navetta, lanciata da The Exploration Company su razzo SpaceX (flotta Elon Musk) lo scorso 23 giugno, ha funzionato bene, perlomeno all’inizio. Lancio riuscito, assetto stabile, comunicazioni ristabilite dopo un blackout, persino un certo entusiasmo tecnico nel resoconto. Poi però il blackout è tornato, e stavolta non era passeggero. Pochi minuti prima dell’ammaraggio, addio segnale. E addio navetta.
I sospetti ricadono su un guasto al sistema di paracadute. Quando ti affidi alla gravità per riportare a terra qualcosa (e quel qualcosa sono urne cinerarie) i dettagli tecnici contano. Il problema, spiegano, è avvenuto in fase di rientro, la più delicata. Risultato: impatto in mare e addio al prezioso carico commemorativo.
Interstellar (2014)
La società Celestis, pioniera dei funerali galattici, prometteva un saluto cosmico ai propri cari: mandare le ceneri dei defunti (o il loro DNA) a spasso nell’universo. Un gesto simbolico e poetico, perfetto per chi in vita aveva lo sguardo rivolto verso il cielo o era semplicemente stanco del classico loculo in periferia.
L’idea è affascinante: micro-capsule sigillate con cura, agganciate a missioni di volo spaziali, pronte a orbitare per anni. Alcune restano in orbita, altre viaggiano tra le stelle. E alcune, affondano.
Dopo l’incidente, Celestis ha dichiarato che le capsule non sono recuperabili. L’oceano è vasto, profondo, e i veicoli spaziali non galleggiano come le papere da bagno.
Spaceballs – Balle spaziali (1987)
Quello che è disarmante è l’eterno entusiasmo degli americani: la loro positività è davvero affascinante.
Infatti, The Exploration Company in una nota su Linkedin è riuscita a definire “un successo parziale” un flop clamoroso, un fallimento stellare (passatemi il termine), una figura che in Italia definiremmo con un copyright registrato a nome di Emilio Fede. Invece, per gli americani, tutto si trasforma in balle spaziali, nel vero senso (non solo cinematografico) della parola.
“La nostra navetta spaziale Mission Possible ha ottenuto un successo parziale“, hanno postato in una nota su Linkedin. “La capsula è stata lanciata con successo, ha alimentato i payload nominalmente in orbita, si è stabilizzata dopo la separazione dal lanciatore, è rientrata e ha ristabilito la comunicazione dopo un blackout. Tuttavia, in base alle nostre attuali conoscenze, ha riscontrato un problema in seguito e abbiamo perso la comunicazione pochi minuti prima dell’ammaraggio”.
La genialità della comunicazione, squisitamente americana. E i commenti sono davvero… memorabili!




A completare questa tradizione identitaria a stelle e strisce, arriva anche l’offerta di supporto psicologico alle famiglie: “Nei prossimi giorni, il nostro team contatterà ogni famiglia per offrire supporto e discutere i possibili passi successivi”.
E, visto che i resti umani (e animaleschi) dei loro cari non sono recuperabili, sfruttano, come punto di forza e di consolazione, l’armageddon nazionale: l’orgoglio. “Sebbene al momento riteniamo di non poter restituire le capsule di volo, speriamo che le famiglie trovino un po’ di serenità sapendo che i loro cari hanno partecipato a un viaggio storico, sono stati lanciati nello spazio, hanno orbitato attorno alla Terra e ora riposano nella vastità del Pacifico“ (fonte Meteoweb).
God bless America.
Punto di non ritorno (1997)
Non è la prima volta che qualcuno cerca di fare della morte un’ultima grande avventura. Il funerale spaziale è solo l’ultima tappa di una lunga corsa all’esotico di una società ormai alla deriva (mentale): foreste memoriali, diamanti sintetizzati dalle ceneri, tatuaggi con inchiostro mescolato a DNA. E ora, lanci verso l’infinito.
Il problema è che lo spazio, oltre che romantico, è complicato. Ogni lancio è un salto nel vuoto anche dal punto di vista tecnico. Bastano pochi secondi di errore e il sogno interstellare si trasforma in una sepoltura marina. E anche se l’oceano può avere un suo fascino poetico, non è esattamente quello che le famiglie si aspettavano dopo aver pagato cifre a tre zeri per un viaggio cosmico post-mortem.
Al di là della cronaca, questa notizia racconta molto di noi. Di come cerchiamo, anche nella morte, di distinguerci. Di come trasformiamo il lutto in performance, il ricordo in show. L’idea di spedire il proprio DNA o del proprio gatto a orbitare attorno alla Terra non è solo un vezzo stravagante ma, molto probabilmente, anche un modo per sentirsi più vicino a Dio, o simili a Lui.
Solo che, stavolta, è finito in fondo al mare.
Ironia della sorte, queste capsule avrebbero dovuto celebrare la permanenza nello spazio. E invece sono state inghiottite da quell’altro grande mistero: l’oceano, luogo di abissi e silenzi, da sempre associato alle sparizioni enigmatiche. Altro che orbita: finale alla Titanic.
Alien (1979)
Diciamolo senza troppi giri di parole: l’idea di lanciare i morti nello spazio è una trovata commerciale travestita da gesto spirituale. Una forma di lucro mascherata da lirismo cosmico. Certo, fa presa sull’immaginario collettivo: l’uomo da sempre guarda il cielo per pregare, sperare, cercare qualcosa di più grande. Ma qui non si parla di fede, si parla di business. Di pacchetti commemorativi venduti come se fossero crociere astrali, con brochure che promettono l’infinito e oltre.
E spiritualmente? Un conto è alzare gli occhi al cielo in cerca di conforto, un altro è spararci le ceneri di zio Carlo come fossero coriandoli. È davvero elevazione dello spirito o semplice spettacolarizzazione della morte?
E poi, qual è il fine ultimo di spedire il DNA dei defunti nello spazio? Forse le persone che optano per questa soluzione, sperano di creare una sorta di banca genetica cosmica, una scommessa sulla resurrezione futura o, in chiave più fantasiosa, un deposito di vita per qualche alieno curioso? La nuova panspermia, versione 2.0: non più microbi casuali, ma zii e nonni in orbita, in attesa di chissà quale rinascita galattica della dinastia?
In tutto questo, nessuno si chiede se sia sensato aggiungere al caos dell’orbita terrestre (dove già fluttuano migliaia di detriti, rottami di satelliti e rifiuti spaziali) anche capsule piene di DNA, e ceneri di cadaveri, con il rischio di vedercele piovere in testa con la prima tempesta solare? Abbiamo trasformato il cielo in una discarica galattica, e ora ci stiamo infilando anche i morti. A forza di mandare in orbita qualunque cosa, finiremo per non distinguere più una stella da un’urna funeraria.
Wall-E (2008)
Ci siamo già giocati mari, monti, aria e suolo. Il cielo era rimasto l’unico posto apparentemente incontaminato. Ma anche lì ci stiamo organizzando: oltre 170 milioni di detriti spaziali viaggiano sopra le nostre teste, tra rottami di satelliti, bulloni vaganti e sonde morte da decenni. Insomma, l’orbita bassa è ormai un suk post-apocalittico dove tutto gira ma nulla si raccoglie.
Tutto questo mentre l’umanità discute, e giustamente, di sostenibilità, decarbonizzazione, tutela ambientale. Ma lo spazio? Nella fase di decollo e di atterraggio le emissioni di gas sono inevitabili, come è inevitabile, durante il volo, il rilascio di diverse sostanze, come anidride carbonica e fuliggine. Poichè si viaggia al di sopra dell’atmosfera terrestre, queste sostanze vengono liberate nella mesosfera e stratosfera, dove resteranno per un periodo di almeno 5 anni.
Un bel contributo al riscaldamento globale.
E ora ci aggiungiamo pure i morti. Perché no? In fondo cosa vuoi che sia qualche urna in più che fluttua tra una stazione spaziale dismessa e il cadavere di un Rover. Magari un giorno ci toccherà fare la raccolta differenziata anche lassù.
E malgrado il “diritto internazionale dello spazio“ (una sorta di codice civile che regolamenta le attività spaziali e ne tutela l’ambiente), l’inquinamento spaziale resta ancora fuori dal dibattito internazionale, come se fosse una specie di buco nero morale. Altro che poesia: stiamo rischiando una collisione cosmica tra la stazione metereologica e la zia Pina. E se poi il decoder Sky non funziona più, non è detto che sia colpa del temporale, magari è solo nonna che ha centrato il satellite in pieno.
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