Sigaretta tradizionale, elettronica o semplicemente, smettere di fumare? Il fumo in Italia tra dipendenza, cultura e poca informazione.
In Italia, la maggior parte dei fumatori sa perfettamente che il fumo fa male. Non è più un segreto, non è una novità. Eppure, milioni di persone continuano a fumare ogni giorno. Il nuovo rapporto del Censis, intitolato “Gli italiani e il fumo”, lo mette nero su bianco: smettere non è solo una questione di volontà. C’è molto di più in gioco. Il paradosso è tutto qui: la maggior parte dei fumatori sa benissimo che il fumo danneggia la salute, ma smettere resta un’impresa quasi impossibile. È una contraddizione che ormai fa parte del nostro quotidiano: da una parte la consapevolezza dei danni, dall’altra la difficoltà concreta nel cambiare abitudine.
È proprio da questo punto che parte il nuovo rapporto del Censis, intitolato “Gli italiani e il fumo”, realizzato in collaborazione con Philips Morris, che fotografa una realtà molto più complessa di quello che si potrebbe pensare. Non si tratta solo di sigarette, ma di abitudini, emozioni, mancanza di supporto e, soprattutto, di tanta solitudine nel tentativo di dire addio al tabacco.
Indice
Perchè fumi?
Oggi in Italia ci sono ancora milioni di fumatori. Molti iniziano da giovani, spesso per emulazione o per curiosità. Una volta iniziato, però, smettere diventa difficile. E non è solo questione di forza di volontà. Il rapporto sottolinea che siamo di fronte a una vera e propria dipendenza, non solo fisica ma anche psicologica.
La nicotina crea assuefazione, ma c’è di più: il fumo si lega a momenti di pausa, di socialità, di gestione dello stress. Insomma, non è solo una brutta abitudine, è parte della quotidianità di chi fuma. Nonostante questo, c’è una cosa positiva: oggi c’è una consapevolezza molto più diffusa rispetto al passato.
Gli italiani sanno che il fumo fa male e molti vorrebbero davvero smettere. Ma qui arriva il problema. Il desiderio di smettere spesso non basta, soprattutto se non ci sono strumenti, informazioni corrette o un aiuto concreto da parte delle istituzioni. Infatti, il rapporto mostra che troppo spesso chi prova a smettere lo fa da solo, senza rivolgersi a medici, centri antifumo o figure esperte. Il risultato? Una buona parte ricomincia nel giro di pochi mesi, scoraggiata dai fallimenti.
Perché smettere di fumare è così difficile?
Conoscere i rischi legati al fumo non basta per smettere. È un dato di fatto. Anche chi ha visto da vicino i danni provocati dalle sigarette, magari in famiglia, con problemi respiratori o malattie più gravi, spesso continua a fumare. Perché succede? Perché uscire dalla dipendenza è un percorso lungo, fatto di alti e bassi, e purtroppo ancora troppo solitario.
Secondo il rapporto Censis, il 55% dei fumatori ha almeno pensato di smettere. Un numero che fa ben sperare, se non fosse che quasi la metà di chi ci ha provato poi ha ricominciato. E spesso non una volta sola: l’80% di chi ha fallito ha riprovato più volte, senza successo. Quasi sempre il tentativo viene fatto in autonomia, senza l’aiuto di specialisti o centri antifumo. Non perché non servano, ma perché pochi sanno davvero come funzionano, o non si fidano abbastanza. In più, molti non sanno a chi rivolgersi o pensano che “tanto non funziona”. E così si ricade nel solito schema: provo, fallisco, mi arrendo.
Perché succede questo? Perché, come sottolinea Ketty Vaccaro del Censis, non si può continuare a lasciare tutto sulle spalle dei singoli. Servono strumenti, supporto, una rete. Perché il fumo è una dipendenza, non un semplice vizio. E trattarlo come tale cambia tutto.
Serve più informazione e supporto
Da anni sentiamo parlare di lotta al fumo, ma i risultati sono altalenanti. Ci sono leggi, divieti, campagne informative, certo. Ma il problema resta. Perché? Perché il fumo viene ancora trattato come un’abitudine da correggere, non come una vera dipendenza. E così, chi vuole smettere si trova davanti un percorso frammentato, a volte confuso, spesso poco accessibile.
Se davvero si vuole aiutare le persone a smettere di fumare, non si può contare solo sul buon senso o sulle campagne di sensibilizzazione una tantum. E ancora meno su una politica punitiva fatta di aumenti del costo di sigarette e tabacchi. Serve molto di più: una strategia chiara, continua, strutturata. È questo uno dei messaggi principali che arriva dal rapporto Censis. Il cambiamento deve partire anche dall’alto, dalle istituzioni, che hanno il compito non solo di informare, ma di costruire un sistema che funzioni. E questo sistema, oggi, ancora non c’è.
Secondo il rapporto, serve un’azione di politica sanitaria pubblica che funzioni su più livelli. Formazione per i medici e gli operatori sanitari, informazione capillare e accessibile, un’offerta concreta per chi cerca aiuto. Le senatrici Ylenia Zambito ed Elena Murelli, che hanno partecipato alla presentazione del rapporto, sono state molto chiare: la politica deve fare di più. Non basta dire “il fumo fa male”, bisogna costruire percorsi di uscita, soprattutto per chi ha meno strumenti culturali ed economici. Perché, dati alla mano, sono proprio le persone più fragili quelle che fumano di più.


Perchè i centri antifumo funzionano poco?
Un altro nodo importante è il ruolo dei centri antifumo. Al momento, funzionano poco. Non perché non siano utili, ma perché spesso mancano risorse, personale, e soprattutto una rete di supporto efficace. La proposta, avanzata anche in Parlamento, è quella di rafforzarli, renderli più accessibili, coinvolgere anche psicologi, perché la dipendenza non è solo fisica ma anche emotiva. “I centri antifumo statisticamente non funzionano. Dovrebbero essere utilizzati al meglio e rivisti, con un team multidisciplinare con accanto anche uno psicologo che convinca queste persone sull’importanza di aderire a queste campagne di prevenzione per poter smettere di fumare”, dichiara la senatrice Elena Morelli.
Parlare di fumo con toni allarmisti o paternalistici, ormai, non funziona più. Anche la campagna fotografica utilizzata sui pacchetti di sigarette, alla fine è risultata poco efficace come deterrente. Bisogna cambiare linguaggio, entrare nel vissuto delle persone, capire perché fumano e cosa gli serve per uscirne. Il rapporto Censis evidenzia chiaramente che non è solo un problema individuale, ma è un tema sociale e culturale, che va affrontato in modo strutturato, perché, se si vuole davvero ridurre il numero di fumatori in Italia, si deve smettere di pensare che basti dire “smetti di fumare”. Serve molto di più: un patto tra cittadini, medici, istituzioni e anche media. Perché ogni sigaretta spenta è una vittoria, ma non si può combattere da soli.
Sigarette elettroniche e prodotti senza combustione: le alternative
Oggi chi fuma non ha davanti solo due opzioni nette, continuare o smettere del tutto, ma si trova anche davanti un panorama di alternative. Sigarette elettroniche, dispositivi a tabacco riscaldato, cerotti alla nicotina, gomme: il mondo degli strumenti per ridurre i danni si è allargato molto. Ma attenzione: non sono “scorciatoie” per sentirsi a posto con la coscienza. Sono strumenti che, se usati nel modo giusto e con consapevolezza, possono aiutare davvero nel percorso di uscita dal fumo.
Il 79% degli intervistati è consapevole che anche questi strumenti creano dipendenza. Quindi no, non si tratta di una soluzione perfetta. Ma possono rappresentare un aiuto concreto, soprattutto per chi non riesce (o non vuole) smettere subito.
I dispositivi elettronici, meno dannosi delle sigarette tradizionali
Il rapporto mette in luce un altro punto interessante: più della metà dei fumatori considera i prodotti senza combustione meno dannosi rispetto alle sigarette tradizionali. E non è solo una sensazione: anche la scienza conferma che, in alcuni casi, il passaggio a questi strumenti può portare miglioramenti misurabili, come una riduzione della tosse e una maggiore capacità respiratoria. Roberto Pescatori, Medico di Medicina Generale, Specialista in Cardioangiochirurgia, Responsabile SIC Sport Liguria ha argomentato: “Studi scientifici hanno dimostrato che, dopo 3-5 anni di utilizzo di sigarette elettroniche o dispositivi senza combustione, si osservano miglioramenti delle prestazioni respiratorie, misurati attraverso strumenti come la spirometria e il walking test, usati comunemente dai pneumologi. Quando un paziente riferisce di ‘sentirsi meglio’ nel respiro, ciò è confermato da dati oggettivi”. In ogni caso, va detto, non sono prodotti “innocui”.
Ma il rapporto evidenzia un altro dato rilevante: anche chi decide di passare ai prodotti senza combustione (come sigarette elettroniche o dispositivi a tabacco riscaldato) lo fa spesso su consiglio di amici, non di medici. Il 56% degli utenti si informa tramite il passaparola, mentre solo lo 0,6% riceve indicazioni dal medico curante. Un dato impressionante, se si considera che un terzo degli intervistati riconosce proprio nel medico una fonte autorevole.
Cosa significa? Che c’è un problema serio di comunicazione. I medici potrebbero essere una risorsa fondamentale, ma per qualche motivo non lo sono ancora.
Note redazionali
Questi sono i principali risultati del «2° Rapporto sul fumo di sigaretta e prodotti senza combustione in Italia. Gli italiani e il fumo» realizzato dal Censis con il contributo di Philip Morris Italia, che è stato presentato oggi da Ketty Vaccaro, Responsabile Ricerca Biomedica e Salute Censis, e discussi da Roberto Pescatori, Medico di Medicina Generale, Specialista in Cardioangiochirurgia, Responsabile Sic Sport Liguria, dalle Senatrici Elena Murelli e Ylenia Zambito, membri della 10ª Commissione Affari sociali, Sanità, Lavoro pubblico e privato, Previdenza sociale del Senato della Repubblica e da Fabio Insenga, Vicedirettore AdnKronos. Il rapporto si basa su un sondaggio realizzato su un campione di circa 1.200 fumatori di cui 600 utilizzatori di prodotti senza combustione (smoke free) dai 18 anni in su, allo scopo di analizzare le opinioni degli utilizzatori sulle diverse tipologie di prodotto.
Le citazioni dei vari esperti sono tratte dall’articolo Fumo: politica sanitaria, formazione e informazione, le priorità nel rapporto Censis
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