Google sotto attacco: multa spettacolare per lo squalo del web

L’Unione Europea ha colpito, ancora una volta, un colosso del web e stavolta la scure è caduta su Google, multata per 2,95 miliardi di euro per abuso di posizione dominante nel settore della pubblicità online.

Bruxelles ha stabilito che l’azienda americana ha utilizzato la propria forza di mercato per favorire i suoi stessi strumenti di gestione e scambio pubblicitario, penalizzando editori, concorrenti e inserzionisti. Una decisione storica, perché riguarda il cuore del sistema economico che alimenta gran parte dei contenuti che leggiamo ogni giorno: la pubblicità.

Maledetta primavera

Quando la pandemia ha paralizzato il mondo nella primavera del 2020, il settore della comunicazione e della pubblicità è stato uno dei primi a pagare il prezzo più alto. Con le serrande abbassate e le città vuote, le aziende hanno tagliato tutti costi non strettamente necessario, e il marketing è stato il primo settore interessato dai tagli aziendali. Per mesi, i bilanci di piccole imprese, negozi di quartiere, artigiani e attività locali sono stati dissanguati dai costi fissi e dalla mancanza di incassi. In quel clima di incertezza, parlare di campagne promozionali era un lusso. Anche le grandi aziende, pur con risorse maggiori, hanno ridimensionato i budget di marketing puntando su strategie di comunicazione meno onerose.

I media, che da sempre vivono di sponsorizzazioni e raccolta pubblicitaria, si sono trovati improvvisamente senza ossigeno. Le entrate si sono ridotte a una frazione di quelle pre-Covid, e molte testate — soprattutto quelle locali — hanno dovuto ridurre il personale o chiudere.

Le agenzie di comunicazione hanno visto sparire clienti storici, i giornali hanno perso intere pagine di annunci e così pure le radio di provincia. Era un sistema fragile che si reggeva su un equilibrio delicato: ogni inserzionista contava e ogni euro investito in pubblicità poteva fare la differenza tra restare in piedi o sparire.

Lo squalo del web

Poi è arrivata la riapertura, e con essa la speranza di un nuovo inizio. Le imprese, uscite stremate da due anni di emergenza sanitaria, cercavano strumenti rapidi e misurabili per rilanciare le vendite. Ma i budget erano ancora risicati e la fiducia incerta.

È in quel preciso momento che Google ha trovato il varco perfetto per consolidare il suo dominio. Con promesse di visibilità garantita, analisi dettagliate e costi più bassi rispetto ai canali tradizionali, la piattaforma ha attirato migliaia di inserzionisti, grandi e piccoli, che hanno spostato i loro fondi verso la pubblicità digitale. Mentre i media locali cercavano di rialzarsi, Google era già pronta con strumenti aggressivi e capillari per intercettare quella fragile ripartenza economica, trasformandola in una nuova occasione di espansione globale.

La sua offerta era semplice, diretta e irresistibile: risultati misurabili, visibilità immediata, gestione automatizzata delle campagne. Per un piccolo imprenditore che cercava di rimettere in moto il negozio dopo mesi di chiusura, investire in pubblicità su Google sembrava la scelta più economica.

L’illusione della pubblicità digitale

Le piattaforme digitali come Google Ads hanno costruito un ecosistema chiuso, dove chi paga di più ottiene più visibilità e chi non riesce a tenere il passo resta invisibile. Gli algoritmi decidono la posizione nelle ricerche, cosa mostrare e a chi, e questo meccanismo ha rosicchiato progressivamente lo spazio dei media tradizionali. Le testate locali, che per decenni avevano rappresentato la voce del territorio e il punto di contatto tra imprese e comunità, sono state tagliate fuori. I loro spazi pubblicitari, un tempo vitali per ristoranti, officine, studi professionali e piccole aziende, hanno perso valore di fronte alle metriche online basate su impression, click e conversioni. Numeri freddi che non raccontano il legame umano e sociale che una pagina di giornale, una rubrica radio o un banner su un sito di informazione sapevano costruire.

Google, nel frattempo, controllava ogni fase del processo: la raccolta degli annunci, la distribuzione, la misurazione dei risultati. Il suo sistema integrato — dalla piattaforma di aste pubblicitarie (AdX) ai servizi di inserzione (Google Ads) — permetteva all’azienda di gestire sia l’offerta che la domanda, determinando prezzi e visibilità. In pratica, un arbitro che gioca nella squadra che dovrebbe solo vigilare. Così, mentre le piccole realtà si spegnevano una dopo l’altra, la pubblicità sul web diventava sinonimo di Google. Il mercato si è polarizzato: da una parte un gigante che gestiva miliardi di inserzioni ogni giorno, dall’altra una miriade di soggetti locali incapaci di competere. Quel che doveva essere un nuovo spazio di opportunità è diventato un deserto per chi non poteva permettersi le regole imposte da un monopolio tecnologico.

La risposta dell’Europa: una multa storica

La Commissione Europea ha – finalmente – deciso di intervenire. Secondo Bruxelles, Google ha abusato della propria posizione dominante, favorendo i propri strumenti di gestione e scambio pubblicitario e asfaltando in pieno la concorrenza. L’azienda ha controllato ogni passaggio del processo: dall’offerta alla domanda, dalle aste alla distribuzione, fino alla misurazione dei risultati. Questo ha ridotto drasticamente le possibilità di sopravvivenza di chi basava la propria attività su annunci e sponsorizzazioni tradizionali, soprattutto sul territorio.

L’azienda di Mountain View ha annunciato che presenterà ricorso e ha sessanta giorni di tempo per proporre rimedi concreti. Ma la questione va oltre la sanzione economica. È il simbolo di uno scontro molto più profondo, che tocca il futuro dell’informazione e la sopravvivenza di interi settori che vivono di pubblicità. Perché dietro questa multa non c’è solo la violazione di una norma antitrust: c’è un sistema che, negli ultimi anni, ha spinto ai margini chi la pubblicità la faceva davvero sul campo, sui territori, nelle redazioni, tra imprese e negozi che cercavano solo visibilità per ripartire dopo anni difficili.

La multa, quindi, non colpisce solo un colosso tecnologico: punta il dito contro un modello di mercato che mette a rischio la pluralità dell’informazione e la sopravvivenza dei media.

Se la piattaforma non modificherà le proprie pratiche, rischia ulteriori provvedimenti, che potrebbero includere restrizioni più severe o addirittura la revisione del modello di business. Per il mondo dell’informazione, questa decisione rappresenta la speranza che la pubblicità possa tornare a essere uno strumento di sostegno reale, capace di nutrire giornali, agenzie e testate cartacee e online.

Cosa cambia per media, inserzionisti e territori

La multa è certamente un’azione che richiama l’attenzione sulla crisi del settore pubblicitario tradizionale, ma risolverà il problema?

Se la piattaforma dovrà modificare le proprie pratiche, gli editori e le agenzie locali potranno finalmente ritrovare spazi concreti per competere? Le piccole imprese, quelle che prima investivano pochi euro in campagne su giornali di quartiere o portali locali, si rivolgeranno nuovamente ai canali tradizionali?

Difficile a dirsi e, per i media, la sfida rimane complessa. Dopo anni di margini ridotti e investimenti tagliati, le redazioni locali non possono permettersi di dipendere solo dalle nuove regole di Google. Ma soprattutto, è un sistema che oramai ha consolidato una visione della pubblicità completamente diversa da quella tradizionale ed è talmente entrato nelle abitudini di marketing delle piccole e medie imprese che sarà davvero difficile creare un sistema pubblicitario diversificato, competitivo e che riporti utili concreti ai media.

La multa impone a Google di aprire le proprie piattaforme ai concorrenti, ma per ottenere un reale effetto di pluralità serviranno anche norme nazionali, incentivi per gli investimenti e una rinnovata attenzione al valore del giornalismo locale.

Quel che è certo è che, una volta fatto il passo, non si torna più indietro e per gli inserzionisti, la decisione europea potrebbe cambiare il modo con cui si pianificano le campagne.

La trasparenza e la concorrenza promessa dall’UE permetteranno di valutare alternative reali, evitando di concentrare tutti i budget su un’unica piattaforma?

Foto di copertina da Pixabay

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