Sempre più sovente assistiamo al dilagare in maniera allargata e incontrollata di due fenomeni: hate speech e revenge porn. Due termini inglesi per indicare reati d’odio a fondo discriminatorio. Hate speech nello specifico sono i crimini legati dal filo rosso dell’odio contro chi è diverso per razza, religione, genere, orientamento sessuale in buona parte legati alle comunicazioni sui social.
Il revenge porn, invece, consiste nella pubblicazione o diffusione senza il consenso della persona cui si riferiscono, da parte di chi li ha realizzati o sottratti, di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati. Questa pratica costituisce a tutti gli effetti una forma di violenza, abuso psicologico, o abuso sessuale. Alcuni episodi di “revenge porn” hanno avuto conseguenze drammatiche, giungendo alla morte per suicidio delle vittime.
Hate speech online
Il Web e i social network hanno reso la comunicazione sempre più immediata e terreno fertile di diffusione del discorso d’odio. I danni che può provocare sono molteplici e devastanti. In primo luogo tende a restare on line per molto tempo. Più a lungo rimane accessibile, più elevato è il rischio che produca effetti dannosi.
Il Web non dimentica. Un contenuto rimosso, infatti, può apparire sotto un altro nome e/o titolo sulla stessa piattaforma o altrove.
Il proliferare di espressioni di odio è favorita dall’idea di anonimato e di impunità associata all’utilizzo di internet e dalle modalità di interazione sui social network. Gli autori di hate speech spesso non riflettono sulle possibili conseguenze dei propri atti e non percepiscono il potenziale impatto dei loro messaggi d’odio sulla vita reale delle persone. Diversi studi hanno dimostrato che i cosiddetti “leoni da tastiera” non manifestano in quei termini il loro odio quando sono offline. I crimini d’odio si caratterizzano anche per la particolare vulnerabilità delle vittime.
Le vittime quasi sempre provano vergogna e solitudine
Spesso i crimini d’odio non vengono riconosciuti come tali dal contesto sociale. Rimangono nel sommerso, vengono banalizzati e la stessa vittima talvolta non si riconosce come tale, benché umiliata nella sua dignità. Queste vittime, come spiegano dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, più di altre, provano vergogna, senso di colpa, solitudine. Emozioni che possono farle apparire reticenti, meno collaborative e l’operatore di polizia deve saper andare oltre a quello che viene detto o non detto, oltre alla rabbia e alla paura.
Revenge porn cosa fare
In Italia tale fenomeno è considerato reato (art. 612 ter c.p.). E’ necessario presentare una denuncia per chiedere la punizione del colpevole o colpevoli. Il termine di presentazione della denuncia è pari a sei mesi dal momento in cui hai avuto conoscenza del fatto. Scaduto questo termine non sarà più possibile chiedere la punizione del colpevole.
In alcuni casi si procede d’ufficio. Questo vuol dire che a seguito della segnalazione di una amica o amico o a seguito della presentazione di una denuncia il procedimento penale a carico di chi ha diffuso le immagini inizierebbe comunque.
La pena prevista per il reato di revenge porn è la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 5.000 a euro 15.000. Oltre alla denuncia, un rimedio concreto importante per l’eliminazione del materiale dalla rete può essere la segnalazione al Garante della privacy.
I passi importanti da seguire
Raccogliere prove: conservare tutto, inclusi screenshot o link, che dimostrino la diffusione non autorizzata dei contenuti
Segnalazione al Garante Privacy: utilizzare il link https://servizi.gpdp.it/diritti/s/revenge-porn-scelta-auth
Denuncia alla Polizia Postale competente per il territorio e fornire loro tutte le prove raccolte.
Supporto psicologico per affrontare il trauma emotivo causato dall’esperienza. Non c’è niente di cui vergognarsi a essere la vittima di un reato.
Supporto legale: consultare un avvocato specializzato in diritto informatico o privacy
Target crimes: reati con uno specifico bersaglio
I crimini d’odio vengono anche definiti target crimes o message crimes per evidenziare che si tratta di reati con uno specifico bersaglio, attraverso i quali l’autore intende lanciare un messaggio di non accettazione di quella persona e della relativa comunità di appartenenza. Esiste anche la “discriminazione per associazione” quando la vittima, sebbene non appartenga a una specifica “comunità di minoranza” viene colpita, perché in qualche modo ad essa legata. Ad esempio una persona può essere aggredita in quanto coniugata con una persona di colore.
Hate speech cosa fare
Se si è vittima invece di attacchi d’odio su web, è opportuno per prima cosa non reagire agli attacchi. Questa è una possibile strategia contro l’hate speech, definita «disempowerment». Permettere di non concedere agli hater l’attenzione che speravano di ottenere e mandare il loro odio a vuoto.
Ma ovviamente il non reagire non vuol dire restare inermi, occorre segnalare i post offensivi e bloccare gli utenti corrispondenti.
Counterspeech (replica, obiezione). Se si è testimoni di hate speech occorre aiutare le persone colpite non lasciando che questi contenuti passino inosservati, dichiarando con un commento personale che si tratta di hate speech. Quante più persone si uniscono in questo modo, minore diventa il peso dell’hate speech.
Rivolgersi immediatamente a una persona di fiducia. Amici, genitori e insegnanti possono aiutare ad affrontare insulti e minacce.
Plurioffensività, under- reporting, under- recording e escalation
I crimini d’odio si caratterizzano per la plurioffensività, cioè l’aggressione non limita i propri effetti dannosi alla vittima, ma indirettamente anche al “gruppo di minoranza” di cui essa fa parte. L’under-reporting, è il fenomeno per il quale le vittime e i testimoni di crimini d’odio tendono, per complesse motivazioni spesso psicologiche, a non denunciarli. L’under-recording è il fenomeno per il quale le forze di polizia non riconoscono la matrice discriminatoria del reato denunciato e non lo registrano né lo investigano come tale. Infine, il rischio di escalation deriva dall’accettazione sociale della discriminazione contro taluni gruppi di minoranza. Parliamo quindi di un fenomeno della cosiddetta normalizzazione dell’odio che favorisce l’aumento dei crimini d’odio.
Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori – OSCAD
Opera presso la direzione centrale della Polizia criminale. Fornisce un valido supporto alle persone che sono vittime di reati a sfondo discriminatorio (hate crime o crimini d’odio). Chiunque subisce un evento penalmente rilevante in relazione alla razza/etnia, credo religioso, orientamento sessuale/identità di genere e disabilità, può contattare l’Osservatorio all’indirizzo oscad@dcpc.interno.it. Le segnalazioni possono essere inviate anche in forma anonima da privati cittadini, istituzioni o associazioni.
Ricevuta la segnalazione, OSCAD attiva interventi mirati sul territorio da parte della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri e segue l’evoluzione delle vicende discriminatorie segnalate. La segnalazione di un atto discriminatorio all’OSCAD non sostituisce la denuncia di reato alle forze di polizia.
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