Gli italiani in guerra? Come in amore, c’è chi combatte e chi fugge

Negli ultimi mesi, in Occidente, l’ombra della guerra si è fatta più lunga. Ma nonostante gli allarmismi interessati e a discapito della pressione degli interessi economici nazionali su parte del Parlamento Europeo, per il nostro continente non sembrerebbero esserci conflitti alle porte, né tantomeno minacce reali a lungo termine. Di fatto, però, le guerre in Ucraina ed in Medio Oriente hanno coinvolto direttamente l’Occidente – e, grazie ai mass media, più di quelle combattute dietro casa come per il Kossovo – e hanno cambiato la percezione di questa ormai dimenticata condizione sociale – la guerra – e ora, l’idea che qualcosa possa davvero accadere, si sta facendo strada nelle coscienze di tutti.

E così i sondaggi e gli studi sociologici benché non di tipo accademico, ci raccontano che, secondo molti italiani, l’ipotesi di essere coinvolti in un conflitto entro i prossimi cinque anni non è poi così remota. Eppure, il pensiero di imbracciare le armi per difendere la patria non scalda i nostri cuori come scaldava quelli dei nostri nonni. Al contrario, rivela paure, incertezze, palesando quel desiderio profondo di tirarsi fuori dai giochi, quel disinteresse per il bene comune che sta strangolando la società contemporanea.

A raccontare questo disinteresse è l’ultimo rapporto Censis dal curioso titolo “Gli italiani in guerra?”

In guerra, come in amore, vince chi fugge

Secondo il Censis, la maggioranza dei giovani – sì, proprio coloro che per età sarebbero in prima linea – si dichiara “non pronta” a combattere, e solamente una modesta minoranza afferma che risponderebbe alla chiamata alle armi, ma forse solo per sfogare un po’ di quella violenza che li schiaccia, quella violenza che ogni giorno tracima da ogni manifestazione della nostra quotidianità.

Già, i “graduati” della società dell’individualismo dichiarano apertamente che diserterebbero, o che preferirebbero affidare la difesa a militari professionisti o a mercenari stranieri, così come si affidano ai macelli per ignorare che il proprio cane o gatto sia un animale carnivoro, e potersi commuovere quando – in violazione di ogni legge della natura, o di Dio, se preferite – li filmano mentre giocano teneramente con uccellini e paperelle. Ma forse gli italiani si definiscono pacifisti perché, come sempre, scelgono la via più facile, quella comoda e confortevole.

Peace and love

Gli italiani scelgono semplicemente la via che li mette al riparo dal dover pensare e dal dover prendere posizione, ovvero scelgono la posizione banale e scontata secondo la quale l’unica risposta possibile alla guerra sia dire no, in ogni caso. E lo fanno con la presunzione e con quell’arroganza di chi vorrebbe suggerire che le generazioni precedenti avevano un differente “pensiero morale” sulla guerra, e che – ovviamente – loro sbagliavano. Ed ovviamente ne hanno ben donde, dato che ogni giorno la cronaca ci racconta che la nostra società è ogni giorno moralmente più evoluta, più saggia e più equilibrata, ed è quindi ovvio che nel suo “buon senso” e nei suoi “sani principi” la guerra non ci stia proprio!

E se per Erik Erikson lo sviluppo psicosociale della maggior parte di loro non ha superato i 12 anni, bisogna ammettere, però, che in parte questo atteggiamento delle nuove generazioni è tutto sommato comprensibile, dato che, a volersi riarmare e paventare il rischio concreto di nuove guerre, sono proprio i loro genitori. Sì, proprio loro, la generazione che, negli anni Settanta, – quando sarebbero potuti, ed in alcuni casi dovuti, andare in guerra – predicava di far l’amore e non la guerra e che oggi, per ovvie ragioni di età, non sono più buoni né per il re, né per la regina.

Il silenzio degli innocenti

La guerra è un fallimento: è il fallimento della ragione, della comunicazione, della diplomazia. E null’altro. Ed è lapalissiano che nessuno voglia la guerra. Pur tuttavia, è altrettanto evidente che l’egoismo e l’istinto umano spesso generano conflitti che, allorquando l’uso della “parola” fallisce, divengono guerre. Ma quando ciò accade, si deve necessariamente prendere – nostro malgrado – una posizione, elaborare un pensiero e difenderlo. Ma loro sono individui, loro sono diritti e non doveri.

E allora, perché impegnarsi, quando basta adeguarsi al pensiero della massa? Quello inclusivo, sempre rispettoso ed incontrovertibile, quello dei diritti del singolo a scapito dei diritti del gruppo. E così eccoli qui, orgogliosi, anzi tronfi, nel definirsi pacifisti, e lo fanno con la stessa superficialità con cui si definiscono ecologisti, ma poi prendono decine di voli aerei all’anno, consumano compulsivamente fast fashion, sprecano cibo oltre ogni ritegno, bevono acqua solo se confezionata, vivono tra i 21 e i 24 gradi… (altrimenti si gela dal freddo o si schiatta dal caldo), non percorrono un metro a piedi però usano l’elettrico, non salgono un gradino neppure per errore, ma poi vanno in palestra per tenersi in forma… Insomma, nessuna evoluzione morale dietro le scelte etiche.  

Lupi, agnelli e leoni da tastiera

Certo, tutti pacifisti, ma solo se vengono tenuti lontani da una qualsiasi tastiera…

Perché, se invece imbracciano l’arma con numeri e lettere, allora sì che divengono formidabili cecchini che non mancano un solo bersaglio, né una sola occasione per combattere: dei veri e propri mercenari di qualsiasi battaglia virtuale.

E se gli outsiders di Howard Becker erano vittime passive del processo sociale, i graduati della società dell’individualismo sono veri masochisti che si emarginano da soli vestendo volontariamente delle etichette, perché essere realmente diversi, nella società “dell’inclusione”, è sempre più difficile e, soprattutto, perché sforzarsi di esserlo veramente? Sarebbe fisicamente ed intellettivamente impegnativo, e la fatica non appartiene alla nostra epoca.

E così, come è più facile mettere un filtro alla foto piuttosto che faticare in palestra, o è più facile affidarsi all’intelligenza artificiale piuttosto che pensare, così è molto più semplice restare a guardare per poi salire sul carro dei vincitori. E se ciò è in parte accaduto anche in passato, perché mai dovrebbe cambiare oggi? Del resto, il cervello non è un muscolo e quindi non va esercitato, non serve… meglio lasciar fare alla tecnologia. Insomma, pacifisti di comodo, perché l’importante è non essere tirati in ballo, non doversi alzare dal divano, non essere disturbati. “Fate pure la guerra, a me non importa…, ma per favore… not in my yard!

Gli altri siamo noi

Sebbene la prospettiva di combattere non piaccia, la consapevolezza dei rischi è molto chiara. Del resto, i mass media ci stanno lavorando già da un po’. Ed è così che – in caso di guerra – la maggior parte degli italiani correrebbe a cercare un rifugio, farebbe scorte di cibo, si attrezzerebbe con un kit di sopravvivenza o, se possibile, lascerebbe le città più esposte.
Alcuni, non pochi, ammettono che si procurerebbero anche un’arma per difendersi: ovviamente per difendere sé stessi, non la società, non il sistema di vita, non i valori della democrazia, faticosamente – e purtroppo anche sanguinosamente – trasformati in quella realtà che oggi ci permette di essere, più o meno, liberi.

Tutto questo non rivela solo una società profondamente egoista, ma anche un Paese che si sente vulnerabile, poco protetto, forse poco fiducioso nella capacità delle proprie istituzioni di garantire sicurezza. Già, le istituzioni. Quella “cosa” che per molti di noi “non siamo veramente noi…” Quello Stato, che in Italia è un’entità astratta proprio come un dio che pretendiamo che “veda e provveda” per noi, ma come debba farlo, non è dato saperlo.

Eppure, questa diffusa sensazione di vulnerabilità e incertezza non agisce da spinta verso un consenso netto per il riarmo. Infatti, solo un quarto della popolazione crede che l’Italia dovrebbe investire di più nella difesa, anche a costo di tagliare spese sociali. Ed una percentuale, ancora più ridotta, pensa che il nostro Paese dovrebbe dotarsi dell’arma nucleare. Per molti, l’idea stessa fa paura. Ma probabilmente si tratta dello stesso ingiustificato timore del nucleare a causa del quale, oggi, spendiamo quasi il doppio rispetto al resto d’Europa per l’energia elettrica.

Essere o non essere?

Dopo 80 anni sotto le ali dell’aquila di mare, Trump ha invitato l’Europa ad emanciparsi. E, dato che non brilla certo per stile e delicatezza, lo ha fatto in maniera brusca, diretta e sicuramente non equivocabile: insomma, ci ha preso a schiaffi. Già, oggi come oggi, il rapporto dell’Europa con gli alleati storici non è più così saldo. E il 46% degli italiani ha capito che non è più scontato che gli Stati Uniti sarebbero al nostro fianco in caso di guerra.

E allora ci si guarda attorno, cercando alternative. Ed è così che una buona fetta della popolazione è divenuta favorevole a un sistema di difesa europeo, con un esercito unico, armamenti comuni e una catena di comando condivisa. Non è solo una questione tecnica, ma anche simbolica: consolidare ulteriormente un legame europeo che non è più possibile sciogliere… (o forse sì, dato che le funeste previsioni dei Nostradamus e degli scienziati dell’economia sul crollo del sistema economico UK post-Brexit, si sono rivelate del tutto infondate).

Insomma, scegliere di fidarsi dei vicini più prossimi e più simili – anche se il grande limite del progetto europeo sono proprio le distanze culturali e storico-sociali tra le varie nazioni – magari per sentirsi davvero parte di qualcosa di grande.

La terra dei cachi

Ovviamente nel variopinto mondo di Alice, non possono mancare quelli che non vorrebbero essere legati né alla NATO né all’Europa. Quelli che preferirebbero una neutralità completa, o che auspicano alleanze meno rigide, costruite di volta in volta, così come tira il vento. Ed una parte di questi – non abbastanza ridotta per non essere comunque significativa – immagina addirittura un’Italia sola, indipendente, capace di difendersi con le proprie forze.
Ma fortunatamente la Terra non è piatta…

Nel magnifico mondo del rispetto delle opinioni di tutti, l’unico che ci piace davvero, ovvero, quello che difenderemmo anche con la guerra, credo sia evidente a chiunque che un esercito comune europeo, così come una uniformazione fiscale e legale, sarebbero dovute essere le basi del progetto europeo.
Ma così facendo, ci si sarebbe orientati verso una confederazione europea – sì, quella immaginata da Wilson prima, e da Churchill poi – e non la Comunità Europea, con la quale la Germania si è pagata l’unificazione e conquistata la leadership economica, a scapito proprio della nostra amata Italia.

Ma questa è storia già scritta, e non storia da scrivere: che è quanto siamo chiamati a fare ora.

La sindrome di Ponzio Pilato

Lo studio del Censis ha rivelato — senza destare particolare meraviglia — che quando si chiede agli italiani da che parte stare nei grandi conflitti internazionali, la risposta più frequente è: da nessuna.
Di fronte alla guerra in Ucraina, alla tragedia in Medio Oriente o a scenari futuri come l’occupazione di un territorio strategico, la gran parte dell’opinione pubblica si orienta sempre nella stessa direzione, scegliendo il disimpegno.

Non si tratta di una forma di autodifesa, né della volontà di non farsi trascinare in scelte che, spesso, sfuggono — per conoscenza e cultura specifica — alla comprensione della maggior parte dei cittadini.
Si tratta piuttosto di puro disinteresse, fondato sull’erronea idea che, alla fine, nulla mai cambierà.

Questo disinteresse, una volta ben vestito dall’etichetta della neutralità, viene purtroppo percepito come una posizione di responsabilità, e non di debolezza.
La massima espressione del pensiero del politically correct.
Perché, se da un lato è un chiaro tentativo di restare fedeli a un’idea di pace che — forse — è più che altro un’abitudine di vita, insomma una vera e propria appartenenza che sentiamo tutti, e che quindi non va intesa solamente come “assenza di guerra”, dall’altro è il chiaro rifiuto di approfondire e prendere posizione.

Non sorprende, allora, che la maggioranza degli italiani (il 62%) chieda al proprio governo di non prendere posizione netta nei conflitti, ma di cercare — piuttosto — il ruolo del mediatore, del garante, della voce che prova a fermare le armi.
Un compito difficile e improbabile nella sua realizzazione, un invito che vuole ignorare rapporti e impegni pregressi, e che, oltretutto, non assomiglia per nulla al nostro sentire sociale degli ultimi seicento anni.

Il cucchiaio non esiste

È pensiero comune e diffuso l’idea che l’Italia viva in pace da ottant’anni. Un matrix nel quale il Bel Paese illusoriamente si culla, fondando tale convinzione su un sacro e inviolabile principio costituzionale di ripudio verso la guerra. Ma, così come per tutto l’Occidente, anche per l’Italia questa è una mezza verità. Dopo il 1945 non ci sono stati conflitti sul nostro territorio, ma questo non significa che siamo stati lontani dalla guerra.

Le nostre forze armate hanno partecipato a missioni in Iraq, Afghanistan, Somalia, Kosovo e in tanti altri luoghi dove la guerra non era evidente, ma si combatteva ogni giorno. Decine di migliaia di militari italiani sono stati coinvolti e molti sono morti. A volte si è combattuto per ragioni chiare e comprensibili, altre volte per missioni il cui senso non è mai stato del tutto spiegato e/o non poteva essere compreso senza la piena conoscenza del contesto internazionale.
Ma, come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Quella che abbiamo vissuto negli ultimi ottant’anni è stata una pace armata, basata – come sempre – su equilibri fragili.
Non abbiamo mai smesso davvero di essere parte di un sistema per il quale la guerra resta un’opzione concreta, anche quando viene chiamata “missione di pace” o definita con altre fuorvianti espressioni e perifrasi. E se qualcuno – ingenuo, o più probabilmente solamente molto distratto – ha pensato che l’Europa fosse ormai immune dal virus della guerra, si è ora accorto che si trattava di un matrix. Che poi si tratti di un’illusione nel senso di errata percezione, di errata interpretazione, oppure di false speranze o aspettative non realistiche, è difficile da dirsi.

Mi armo o non mi armo?

Negli ultimi dieci anni, l’Italia ha aumentato la spesa per la difesa del 46%.
Nonostante ciò, siamo ancora molto lontani dagli standard di spesa degli Stati Uniti o di altri Paesi più aggressivi sotto il profilo militare. E lontani dal rispettare gli accordi sottoscritti con la NATO. Ma forse la vera domanda non è quanti miliardi si spendano o si spenderanno nel prossimo futuro, ma perché si spendono e si spenderanno. Che cosa vogliamo ottenere con le armi?

C’è chi spinge per armarsi, convinto che serva un esercito forte per garantire la pace, e chi invece frena, perché crede che la vera sicurezza non sia generata dalle armi, ma dalla diplomazia, dalla coesione sociale, dalla capacità di prevenire i conflitti. Al di là del fatto che a dar ragione ai primi sia la storia dell’umanità, e a dar ragione ai secondi sia la razionalità e tutto il nostro recente costrutto sociale, il vero nodo è che l’Italia – e ovviamente l’Europa – si è trovata di fronte a un bivio.

Da un lato, la pressione internazionale a “fare la propria parte”; dall’altro, un’identità profonda – forse anche di comodo, fintanto che c’era mamma aquila a proteggerci – che non si riconosce nella logica muscolare della deterrenza. Ed è proprio in questa contraddizione che si gioca il nostro rapporto con la guerra, e quindi, ora che non possiamo più far finta che non esista, o vivere nella comoda condizione di averla dimenticata, dobbiamo necessariamente scegliere come affrontarla.

Chi vende la guerra non indossa l’elmetto

Dietro ogni esercito in marcia, ogni missile lanciato o ogni carro armato in movimento, c’è un’industria. La guerra, così come la malattia, non è solo una tragedia umana, è anche un mercato. Ed uno tra i più redditizi al mondo. Ed anche se oggi si parla di Ministeri della Difesa e non di Ministeri della Guerra, e di Industria della Salute e non di Industria della Malattia, quando si parla di aumentare certe spese sociali, raramente si dice apertamente dove effettivamente va a finire quel denaro. Perché non piace raccontare che una parte consistente delle risorse pubbliche investite nella sicurezza nazionale finisce nelle mani delle grandi aziende private che producono appunto armi, tecnologie militari, munizioni, sistemi di sorveglianza ed altre diavolerie del genere.

Si tratta di colossi multinazionali, spesso poco visibili nel dibattito pubblico ma potentissimi nei meccanismi che contano: lobbying, appalti e relazioni con i governi.

Il punto ovviamente non è demonizzare chi lavora in questo settore, ma capire che le dinamiche economiche non sono mai neutrali. Ogni volta che si spinge per aumentare la spesa militare, c’è qualcuno che incassa. E più la tensione internazionale cresce, più salgono le azioni in borsa dei produttori di armamenti. In un certo senso, la guerra fa girare l’economia: crea posti di lavoro, genera profitti, muove intere filiere industriali.
Ma a quale prezzo?

Pizza, mandolino e mine antiuomo

Ci sono Paesi che esportano armi con la stessa sistematicità con cui esportano vino o automobili.
E anche l’Italia, pur avendo una legislazione piuttosto rigida sull’export bellico, ha venduto negli ultimi anni armamenti a Paesi coinvolti in conflitti, o accusati di violazioni dei diritti umani ed il confine tra difesa legittima e business della guerra si assottiglia sempre di più. Secondo lo studio del 2024 “Profitti di guerra“ di Greenpeace, gli utili netti delle prime dieci aziende italiane esportatrici di armi sono cresciuti del 45%, pari a un incremento di 326 milioni di euro.

Parallelamente, il flusso di cassa disponibile è salito del 175%, per un totale di 428 milioni di euro. Questo significativo incremento è stato alimentato dall’aumento dell’export di armi e delle commesse nazionali. Nel caso del gruppo Leonardo – una delle principali aziende del settore e il cui principale azionista è il Ministero dell’Economia italiano, con il 30% delle azioni – il comparto militare ha rappresentato il 75% del fatturato nel 2023 e l’83% nel 2022, a dimostrazione dell’importanza cruciale che il settore della difesa riveste per l’azienda e, allargando il bilancio, per l’intero comparto del made in Italy.

Ovviamente a fronte di contratti pubblici nazionali e internazionali. È quotata in borsa, e questo significa che la guerra – o anche solo la prospettiva di un riarmo – può diventare un’occasione per generare dividendi e attirare investimenti.

Tante vicende, tante domande

Nel frattempo, spinta dalla pressione dei Mass Media, l’Europa rafforza nella maggioranza dei suoi cittadini l’idea che il riarmo sia inevitabile. E con essa fa crescere un intero ecosistema economico che, per sopravvivere, ha bisogno di tensione, instabilità, paura: un modello già sperimentato pochi anni or sono in altro ambito, ma con un successo davvero insperato.

La realtà è che siamo tutti incerti sul tema, tutti dubbiosi e divisi tra la razionale comprensione delle dinamiche politiche, sociali ed economiche del pianeta e la certezza della stupidità della guerra. Forse perché la vera domanda, quella che si porrebbe il “lettore operaio” sarebbe davvero brutale: ma se qualcuno guadagna così tanto dalla guerra, siamo davvero liberi di scegliere la pace?

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Immagine di copertina generata con IA Bing

Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
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