Bugula: il nome buffo dell’Ajuga reptans
La bugula è una delle Labiate più graziose, con i vistosi fiori blu, tanto da essere coltivata persino quale pianta ornamentale. È stata classificata da Linneo come Ajuga reptans L., nome che ci porta a fare alcune considerazioni. Il genere ajuga deriva dal termine latino jugum, ossia giogo, preceduto dalla cosiddetta alfa privativa greca che presso i romani fu sostituita dalla lettera A. Significa, in altre parole, “senza giogo”. Dato che il giogo veniva posto sul collo di una coppia di buoi, è come se la nostra erbetta non avesse copertura. E qual è il senso? Che il suo splendido fiore blu non ha il labbro superiore.


Ricordate? Le Labiate sono caratterizzate da una corolla a due labbra e la bugula non fa eccezione, ma il labbro superiore è in pratica atrofico. Quanto all’aggettivo reptans, che connota la specie, indica la sua peculiarità di pianta strisciante e rampicante. Il nome popolare bugula è di più difficile definizione. Potrebbe derivare da una corruzione di quello latino, prima in abuga e poi in buga, bugula. Oppure potrebbe richiamare il bubulus, un tubicino di vetro che nell’antichità si impiegava per ricamare. La forma del fiore, infatti, ricorda in qualche modo proprio il bubulus.


L’erba del tuono in Irlanda
A differenza di altre Labiate che abbiamo trattato in precedenza, la bugula è un’erba autoctona irlandese. Ha un nome gaelico, Glasair choille, che potremmo tradurre come “verzura del bosco”, più una serie di soprannomi curiosi in inglese. È detta Gypsy weed, ovvero “erba zingara” perché serpeggia un po’ ovunque, come se fosse nomade. Durante l’inverno, i fusti seccano ma lasciano in vari punti del terreno piccole radici, che ne emetteranno di nuovi a primavera, propagandosi in un fitto tappeto. Ed è pure conosciuta come Thunder and Lightning, ossia “tuono e fulmine”, a causa di una leggenda. Essa narra che ovunque una folgore colpisca il terreno, là nascerà una piantina di bugula.


Descrizione botanica essenziale
La bugula è una pianta perenne, comune nei boschi e nelle radure dell’Europa e dell’Asia, che presenta fusti radicanti, lunghi una trentina di centimetri. Per la sua capacità di formare tappeti erbosi, fitti di foglie e di fiori, viene coltivata nei giardini e nei parchi per copertura del terreno. Le foglie sono lucide, ovate e opposte: formano una rosetta basale ma altre, più piccole, si trovano lungo i fusti stessi. I fiori, che sbocciano tra maggio e agosto, sono disposti in numero di sei in verticilli apparenti che formano uno spicastro.


Come anticipato, la corolla di colore blu intenso, talvolta tendente al viola, ha il labbro superiore quasi assente, rendendo visibili e scoperti gli stami azzurri.. Quello inferiore, invece, presenta un lobo centrale a sua volta bilobato e due piccoli lobi laterali. Il calice campanulato, formato dalla fusione dei cinque sepali, ha cinque lunghi denti. Il frutto contiene quattro acheni rugosi e reticolati. Come spesso ripetiamo, per riconoscere la bugula in natura non basta una semplice fotografia ma occorre utilizzare lo strumento indispensabile delle chiavi botaniche.


Piccola storia della bugula in fitoterapia
Si tratta di una specie medicinale dal glorioso passato. Nel Medioevo e nel Rinascimento, era una sorta di panacea per tutti i malanni. L’infuso era consigliato per le emorragie interne e quale narcotico. Con le sue foglie fresche e grasso di maiale, si preparava un unguento per ferite e contusioni e, mescolata al miele, curava le ferite della bocca.


Nel 1653, il medico inglese Nicholas Culpeper scrisse nel suo Complete Herbal che la bugula fa innamorare di sé chi è saggio. E aggiungeva di tenere sempre a portata di mano il suo sciroppo da bere e l’unguento da applicare esternamente. La moderna fitoterapia deve tenere conto del fatto che la droga, costituita dalle parti aeree, va usata con parsimonia. Troppe tisane di bugula potrebbero dar fastidio al fegato: meglio, dunque, consultare sempre il medico di fiducia prima di introdurle nell’alimentazione. Detto questo, i suoi principi attivi sono delfinidine, cianidine e tannini. Jean Valnet la considerava un buon astringente e vulnerario, in caso di emorragie interne e ulcere gastrointestinali. Da bere come il tè, ma con prudenza.


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