Nel braccio di ferro tra Airbnb e Federalberghi sull’overtourism, la polemica diventa un caso europeo. Ma dietro lo scontro si celano altre motivazioni diverse e una crisi più profonda: quella del caro-affitti prima casa. Editoriale di Tina Rossi
La bella stagione è esplosa, i turisti sono sempre di più, le città si riempiono, le tariffe salgono. Tutto normale, direbbe qualcuno, dopo anni di pandemia e restrizioni. Ma quando i flussi diventano fiume in piena, e ogni vicolo si trasforma in un serpente di trolley, non si parla più di turismo ma di overtourism.
Le città europee più visitate — da Barcellona ad Amsterdam, passando per Praga, Lisbona, Venezia e Roma, tanto per citarne alcune — ma anche i piccoli borghi e villaggi – restando in Italia, da Capri a Ischia, passando per le Cinque Terre – stanno soffocando sotto il peso dei visitatori.
E mentre la politica si perde nei tavoli tecnici, le aziende del turismo globale iniziano a scambiarsi accuse con una prontezza di supercazzole da dibattito televisivo. È in questo clima, affatto rilassato, che Airbnb pubblica un report destinato a far discutere: secondo la piattaforma, il principale responsabile del sovraffollamento turistico in Europa è… l’hotel.
L’exploit di Airbnb
Già, proprio così. Airbnb punta il dito contro le strutture ricettive “ufficiali”, sostenendo che nel 2023-2024 gli hotel hanno assorbito l’80% dei pernottamenti turistici nell’Unione Europea e sono responsabili del 75% della crescita nel post-pandemia. Il rapporto, supportato da dati Eurostat e dell’Organizzazione Mondiale del Turismo, presenta una tesi netta: si costruiscono troppi hotel, quando invece — secondo Airbnb — servirebbero più abitazioni generiche per i viaggiatori, distribuite nei quartieri e non solo nel centro.
Sarebbero gli hotel, insomma, i principali responsabili del turismo di massa, dei centri storici intasati, dei marciapiedi invivibili. Una tesi curiosa soprattutto perché arriva da un’azienda che ha costruito il proprio impero sulle cosiddette “esperienze autentiche”, quelle che portano il viaggiatore a dormire ovunque fuorché in un albergo, e che, oggi, dopo aver contribuito per anni ad evadere ogni genere di tassa, dagli affitti in nero alle tasse di soggiorno, di rifiuti e compagnia bella, fa la morale fingendo di preoccuparsi sinceramente dell’equilibrio urbano.
Il report è articolato: cita crociere, voli low cost, aumento degli escursionisti giornalieri. In pratica, per Airbnb, si costruiscono troppi hotel, mentre le case a uso turistico scarseggiano. E intanto le navi da crociera vomitano milioni di escursionisti, le compagnie aeree aprono nuove rotte ogni settimana, e i centri cittadini si ingolfano di turisti.
E calca la mano su un punto: troppi hotel, troppo centrali, troppi letti. Sembra una crociata contro l’hôtellerie tradizionale. E la soluzione?
Più case per i turisti
I numeri snocciolati da Airbnb vogliono impressionare: solo nel 2024, 260.000 ospiti avrebbero soggiornato su Airbnb in quartieri senza hotel. Nei soliti centri storici, invece, il problema sarebbe la concentrazione di strutture alberghiere, che contribuiscono al sovraffollamento e, a quanto pare, non redistribuiscono i benefici al tessuto urbano. Eppure, nelle stesse città dove sono state introdotte restrizioni agli affitti brevi – come Barcellona e Amsterdam – i pernottamenti sono aumentati comunque. Il che, secondo Airbnb, dimostrerebbe che “limitare” la piattaforma peggiora le cose.
Ma è davvero così semplice? Oppure è solo una lettura superficiale, e ragionevolmente di parte, che cerca un comodo capro espiatorio per sviare l’attenzione? Soprattutto quando si legge che solo in Spagna sono in costruzione 75.000 nuove camere d’hotel, senza menzionare i milioni di nuovi annunci su piattaforme di affitto breve.
Airbnb prova anche a tirarsi fuori dalla mischia, proponendosi come “l’alternativa sostenibile”: diffonde i viaggiatori in quartieri dove gli hotel non arrivano, stimola l’economia locale, sostiene le famiglie che, affittando una stanza o un appartamento, riescono a pagare mutui e bollette. Le cifre ci sono: 44,6 miliardi di dollari generati nel 2024 solo in Francia, Germania, Italia e Spagna, con oltre 627.000 posti di lavoro sostenuti. Senza contare che “la metà degli ospiti afferma che non avrebbe visitato il quartiere in cui ha soggiornato se non ci fosse stato un annuncio su Airbnb”.
Ma siamo sicuri che la causa dell’overtourism stia nelle strutture ricettive, di qualsiasi genere? Ne parleremo tra poco. Intanto, per par condicio, siamo andati a vedere cosa ne pensano gli albergatori.
Hotel vs Aibnb
Dall’altra parte del ring, la risposta di Federalberghi non si è fatta attendere. E non è stata esattamente un invito al dialogo. Il direttore generale Alessandro Nucara ha definito ” le affermazioni di Airbnb “senza ritegno, sfacciate e surreali”. Secondo l’associazione degli albergatori, almeno in Italia, il numero di hotel è in calo: “In Italia oggi ci sono circa 32.000 alberghi censiti da ISTAT e oltre 600mila annunci su Airbnb. Gli alberghi erano 34mila nel 2008, quando su Airbnb c’erano una cinquantina di annunci italiani. Significa che, da quando è nato il portale, il numero degli alberghi è diminuito del 5,5%, mentre gli alloggi in locazione sono aumentati in maniera iperbolica” afferma Nucara. Altro che inflazione di hotel, i numeri non mentono: più che costruire alberghi, è il mercato degli affitti brevi ad essersi moltiplicato senza freni.
Iperbole? No, “un +1.153.746%“, precisa Nucara, è “una percentuale quasi impossibile da pronunciare”.
E poi c’è la stoccata finale, quella che punta dritto al cuore dell’argomento: “ancor più sfacciata è la favoletta secondo cui la maggior parte dei pernottamenti prenotati su Airbnb avverrebbe fuori dalle città”. Qui Federalberghi tira fuori l’asso: il report commissionato dalla stessa Airbnb a Nomisma nel 2024, afferma esattamente il contrario. I soggiorni, si legge nel report, si concentrano “nei centri storici e nelle aree a più alta vocazione turistica”. Insomma, non proprio la periferia dimenticata.
Il punto è proprio questo: mentre Airbnb accusa gli hotel di saturare i centri città e monopolizzare i flussi, dimenticando il corposo contributo che gli hotel stessi danno all’economia locale impiegando manodopera e risorse locali, Federalberghi risponde che è stato l’exploit degli affitti brevi a cambiare le regole del gioco. Un cambiamento, dicono, che ha portato alla deregulation selvaggia, a interi quartieri decentrificati, all’espulsione dei residenti storici, e che, per inciso, Airbnb ha avuto un ovvio interesse a spingere.
Chi dice la verità? Forse entrambi, forse nessuno. Ma intanto i numeri si scontrano come se fossero idee, e la narrazione si divide tra due poli: da una parte l’albergo “istituzionale”, con regole, tasse, addetti in busta paga. Dall’altra, la casa diventata mini-hotel, con un clic e una foto in controluce.
Tra i due litiganti, il terzo non gode
A margine, un piccolo dettaglio che non compare nei comunicati ma che i turisti notano eccome: chiunque oggi voglia passare una settimana in città come Venezia o Firenze deve essere pronto a pagare, e tanto. I prezzi sono lievitati ovunque. Gli hotel? Carissimi. Gli affitti brevi? Uguale. Colpa delle tasse comunali? Dei ticket d’ingresso? O magari della guerra tra categorie, che si rimpallano la colpa mentre i viaggiatori spalancano il portafogli? O forse è solo una questione meramente Keyneisana di risposta del mercato a un aumento della domanda?
In tutto questo ping pong di responsabilità e polemiche, il risultato è che le vacanze costano sempre di più. Le tariffe alberghiere sono aumentate fino al 50% in alcune città, ma anche chi prenota un Airbnb non se la cava con poco. Tra spese di pulizia, commissioni, tasse locali e depositi cauzionali, la “casa come a casa” finisce per costare come una suite in centro.
Intanto, mentre gli hotel fanno i conti con le nuove tasse di soggiorno e gli host aggiornano i listini per coprire costi, imposizioni fiscali sempre più attente e puntuali, e imposte sempre più rigide, il viaggiatore medio si trova a scegliere tra una stanza condivisa con vista sul cortile o un mini loft con vista sulle imposte. A prezzo maggiorato, ovviamente.
Ma parlare di overtourism senza parlare di impatto sul tessuto residenziale è come parlare di siccità e dimenticare il rubinetto aperto. Eppure, anche su questo fronte, qualcosa si muove: sempre più città europee stanno regolamentando gli affitti brevi, cercando di proteggere chi nelle città ci vive davvero.
Emergenza abitativa: la crisi invisibile degli affitti per chi vive in città
Se da un lato Airbnb insiste a parlare di “più case per i turisti” e di “diffusione del turismo in quartieri fuori dai centri”, dall’altro lato rimane del tutto evidente una questione cruciale che la piattaforma evita accuratamente: la carenza di alloggi disponibili per chi vive, studia e lavora nelle città.
La crescita esponenziale degli affitti a breve termine – incentivata anche dall’attività stessa di Airbnb – ha progressivamente ridotto il numero di immobili destinati alla locazione a lungo termine, cioè quelle case che permettono alle famiglie residenti di avere un’abitazione stabile e a prezzi ragionevoli.
Non è un dettaglio secondario, ma una vera emergenza sociale. I canoni di locazione si alzano, le famiglie si trovano costrette a spostarsi, i quartieri perdono popolazione stabile, e si amplifica la “turistificazione” degli spazi urbani.
Tutto questo alimenta tensioni sociali e indebolisce la coesione delle comunità.
Airbnb, per sua natura, non ha interesse a risolvere questa problematica. La sua attività è capitalistica e, quindi, squisitamente speculativa ed esclusivamente rivolta ai turisti. Il modello di business si basa proprio sull’aumento degli affitti brevi, spesso a discapito degli affitti lunghi tradizionali.
E questo ha conseguenze evidenti: pressioni sul mercato immobiliare, aumento dei canoni, sparizione degli alloggi disponibili come prima casa per i residenti. Anche perché, a conti fatti, oggi affittare di weekend in weekend a un turista rende molto di più che affittare annualmente a una famiglia. E chi ha un appartamento, fa due conti. Ovviamente non è l’unica causa, considerato, ad esempio, anche il rischio di affittare a persone inadempienti, ma di questo ne parleremo un’altra volta.
E il problema non si limita alle grandi città.
Laddove il turismo è stagionale, lungo le coste italiane, per esempio, la situazione è ancora più drammatica. Case vuote, lasciate libere dai proprietari che le usano solo poche settimane l’anno, e che nel resto del tempo le trasformano in mini-alberghi stagionali su Airbnb o altre piattaforme. È un mercato folle che lascia vuote intere comunità e spinge le persone a cercare una casa altrove, sempre se trovano una casa. Quelle stesse persone che lavorano come camerieri nei bar, nei ristoranti e negli hotel. Quelle stesse persone che fanno le pulizie nelle case vacanze, quelle stesse persone che pagano le tasse nel Comune dove i proprietari di case, spesso (troppo spesso) residenti in altre regioni (e quindi non contribuenti in loco) non affittano ai residenti.
Molti sono costretti a rifugiarsi nei piccoli paesi dell’entroterra, lontani dal lavoro e, spesso, in case lontano da servizi adeguati, soprattutto se parliamo di trasporti pubblici.
È un paradosso che racconta di un sistema fuori equilibrio, dove il mercato immobiliare è asservito a logiche turistiche più che ai bisogni delle comunità locali. E dietro questa crisi, c’è un’assenza di politiche adeguate a proteggere chi vive e lavora nelle città. Perché non è solo questione di numeri: dietro ogni casa in affitto che manca, c’è una famiglia che fatica a costruire il proprio futuro e questo da una motivazione anche alla carenza di personale impiegato nelle stesse strutture.
Tra cause ed effetti, quali soluzioni?
Non si tratta solo di contrastare l’overtourism, né di scegliere tra hotel e Airbnb. Le cause di questo fenomeno sono ben più numerose, così come i suoi effetti.
Se l’equazione tra overtourism e disponibilità abitativa è chiara, va da sè che tutti gli altri fattori del problema trovano una risoluzione conseguente.
Serve una visione che ponga al centro le persone, le loro esigenze di casa e di comunità. È urgente ripensare le politiche abitative e turistiche in modo integrato, per evitare che le città diventino musei a cielo aperto, senza anima né vita quotidiana.
Allo stesso tempo, serve preservare il valore attrattivo delle località perché, chi visita Milano o Parigi, non si accontenta di vedere il Cenacolo o il Louvre: si aspetta di incontrare la città che vive, e senza la comunità, la città si spegne. Chi va a Capri o a Portofino non va solo per i faraglioni o le case colorate, ma si aspetta di immergersi per qualche istante nel lusso dello stesso vip che spera di vedere scendere da uno yacht. Chi cerca la pace di un borgo antico, su qualche meravigliosa collina italiana, non può trovarsi in coda come nella metro, confuso nella mischia umana che sbocconcella un panino seduta su gradini cinquecenteschi: vuole respirare l’incanto del tempo.
La domanda è: come fare?
I ticket di ingresso e le altre restrizioni applicate da tante città sono delle soluzioni di emergenza, ma come tutte le limitazioni, sono illiberali e mai risolutive a livello economico e sociale.
Serve intervenire a livello di costumi e cultura, perché l’overtourism E’ un problema di costumi e cultura che genera problemi di numeri, presenze, inquinamento e gestione logistica.
Se è vero che da un punto di vista economico prima o poi si risolverà per ovvie dinamiche delle leggi di mercato, è altrettanto vero che gli effetti drammatici sociali e ambientali sono già un’emergenza che non può aspettare la risoluzione fisiologica del crollo della domanda.
Il turismo è una risorsa straordinaria, soprattutto per l’Italia, se gestito con equilibrio e responsabilità. La sfida è alta, ma è quella che può fare la differenza tra città invivibili e città che accolgono, vivono e si trasformano insieme a chi le abita.
Immagine di copertina generata con IA Bing
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