Animali da pelliccia: chi sono le vittime? Cosa succede negli allevamenti? Cosa si nasconde dietro il business crudele della moda? Perché dire basta a questo lusso insanguinato?
L’essere umano, fin dalla preistoria, ha fatto usato gli animali per sopravvivere. E in un mondo ostile, in balia del gelo e dei predatori, ha trovato nella loro pelliccia un alleato potente. Era una questione di vita o di morte. Coprirsi significava resistere all’inverno, e ogni pelle strappata al corpo di un animale era il risultato di una lotta, di una caccia, di una sopravvivenza conquistata con fatica. La pelle degli animali era copertura, riparo, scudo contro il gelo. Ma anche strumento di scambio, valore economico.
Era parte di un ciclo, sbilanciato quanto vuoi, ma con un suo senso naturale. Il problema è nato quando la pelliccia ha smesso di essere ciò che serve ed è diventato ciò che si ostenta. Da quel momento in poi, non si può più parlare di bisogno, ma soli di vanità. Quando la funzione viene schiacciata dalla forma, l’animale diventa un bene di consumo. Un lusso da indossare, un business da far fruttare.
Ma a chi interessa?
Il simbolo di potere e l’industria della sofferenza
Da quando l’uomo non ha più bisogno di uccidere per coprirsi, la pelliccia ha perso la sua funzione pratica e si è trasformata in qualcosa di diverso: uno status symbol. Re, imperatori, aristocratici si sono circondati di manti costosi, di colli avvolti da ermellini e zibellini, di cappe preziose come trofei. Un messaggio chiaro di potere, gerarchia, controllo, intimidazione: chi può permettersi di indossare la pelle di un animale raro, è al di sopra degli altri. È il trionfo dell’esclusività, il linguaggio non verbale del privilegio. L’animale come decorazione, come simbolo.
Niente di più lontano dalla necessità.
E questo meccanismo simbolico, profondamente gerarchico, è sopravvissuto. Si è evoluto con la moda. È entrato nei magazine, è passato sulle passerelle, ha colonizzato i guardaroba delle classi alte, e poi, a cascata, anche quelli della borghesia aspirazionale.
Nel Novecento, con la nascita dell’industria della moda di massa, la pelliccia smette di essere solo un simbolo della nobiltà e diventa l’ambizione della borghesia. Le pubblicità la presentano come “il sogno di ogni donna”, il regalo perfetto, il lusso raggiungibile. Dietro questa narrazione patinata, però, si nasconde un orrore silenzioso. Ogni capo che scintilla nelle vetrine nasce da una catena di dolore che ieri era caccia e sterminio, oggi è allevamento industriale. Il risultato non cambia.
Negli allevamenti gli animali vivono chiusi in gabbie minuscole, spesso in condizioni igieniche disastrose, senza mai conoscere il suolo, il sole, la libertà. La loro esistenza è un’attesa lunga e crudele verso la morte.
Ma quali sono gli animali che subiscono queste angherie? Alcuni di questi, vi sorprenderanno.
Chi sono le vittime della moda?
Dietro ogni giacca bordata, ogni collo di cappotto, ogni accessorio “di pregio”, ci sono esseri viventi. Non materiali. Non risorse: esseri senzienti con un comportamento sociale, un’intelligenza, paure, bisogni e una vita che in natura sarebbe complessa, ricca, a tratti sorprendente. Ma il mercato della pelliccia non li riconosce come tali. Li trasforma in “capo”, “pezza”, “prodotto finito”. Le specie coinvolte sono tante, ma ce ne sono alcune su cui la crudeltà si accanisce più sistematicamente.
Volpi, visoni, cincillà, procioni, zibellini. Sono loro le “materie prime” preferite dell’industria della pelliccia.
I visoni
Il visone, in particolare, è l’animale più sfruttato al mondo per questo scopo. Ogni anno, milioni di visoni vengono allevati, uccisi e scuoiati per soddisfare un mercato che si ostina a chiamare “tradizione” ciò che è pura crudeltà. In molti casi gli animali vengono uccisi quando il manto raggiunge il suo massimo splendore, con metodi studiati per non rovinare il manto: asfissia, elettrocuzione, avvelenamento, ma ne parleremo tra poco. L’obiettivo è uno solo: non danneggiare il prodotto.
I visoni, tra i più allevati al mondo, sono animali semi-acquatici, solitari, intelligenti. In natura vivrebbero in tane lungo corsi d’acqua, cacciando e marcando il territorio. Negli allevamenti, invece, vengono rinchiusi in gabbie di metallo larghe meno di un metro, dove non possono nuotare, cacciare, né sottrarsi allo stress che li porta all’automutilazione e al cannibalismo. Ogni anno, prima del Covid, si contavano oltre 35 milioni di visoni abbattuti, soprattutto in Cina, Polonia, Finlandia e Danimarca.
Le volpi
Sia rosse che artiche, le volpi condividono un destino simile a quello dei visoni. In natura vivrebbero in coppie stabili, scavando tane, crescendo i cuccioli, esplorando territori anche molto vasti. Ma nelle “farm” vengono allevate in gabbie alte appena 40 cm, senza stimoli, senza protezione dal freddo o dal sole, fino a sviluppare comportamenti psicotici. Alcune vengono selezionate geneticamente per crescere obese. Animali deformi, incapaci di camminare, creati solo per produrre più pelle. Le immagini provenienti dagli allevamenti finlandesi sono una delle prove più eclatanti dell’aberrazione industriale legata alla pelliccia.
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I cincillà
Piccoli e delicati roditori andini, sono apprezzati per il pelo incredibilmente soffice e denso. Una singola pelliccia da donna può richiedere fino a 150 esemplari. Animali timidi, notturni, con una socialità complessa e una sensibilità estrema al calore, vengono allevati in ambienti insalubri, mal ventilati, dove soffrono in silenzio fino alla morte. Il metodo di soppressione più usato è la rottura del collo o l’elettrocuzione. Non esistono mezzi “etici” per uccidere questi animali. Esistono solo metodi silenziosi, perché la pelliccia non deve essere danneggiata.
E poi ci sono gli altri, i dimenticati.
I procioni, spesso scuoiati vivi nei mercati della pelliccia cinesi, dove il dolore non ha peso economico. I conigli rex, allevati in Europa per il loro manto corto e vellutato, uccisi a pochi mesi con violenza sistematica. Gli scoiattoli, le martore, le linci, i coyote, i cani e gatti randagi impiegati in produzioni illegali — in particolare in Asia — e poi smerciati come “pelliccia sintetica” o sotto nomi di fantasia. La truffa è doppia: uccisione e inganno.
Tra questi dimenticati ci sono anche due specie emblematiche: l’opossum e l’ermellino. Il primo, soprattutto in Nuova Zelanda, è vittima di una caccia sistematica mascherata da controllo ambientale. Gli opossum vengono uccisi brutalmente con trappole e bastoni, scuoiati, e la loro pelliccia venduta come “sostenibile”, in un perfetto esempio di greenwashing. L’ermellino, invece, è la pelliccia simbolo delle corti, delle incoronazioni, delle toghe accademiche. Il suo manto invernale, completamente bianco con la punta nera della coda, è da secoli associato alla purezza e al potere. Ma dietro ogni mantello regale ci sono decine di piccoli predatori uccisi durante la muta, quando il pelo vale di più.
Tutti questi animali hanno una cosa in comune: non possono parlare per sé stessi. E proprio per questo vengono ignorati, ridotti a design, a lusso, a merce. Dare loro un nome, una descrizione, un’etologia non è un esercizio sentimentale. È un atto politico. Non si tratta di scegliere tra moda e sobrietà. Si tratta di scegliere tra complicità e rispetto.
Allora la domanda sorge spontanea: cosa succede negli allevamenti?
Dentro gli allevamenti: fabbriche di dolore
Dietro ogni pelliccia lucente c’è una catena di sofferenza progettata con efficienza industriale. Gli allevamenti di animali da pelliccia sono ambienti chiusi, isolati, che funzionano come vere e proprie fabbriche della crudeltà. Chi non li ha mai visti tende a immaginare qualcosa di simile agli allevamenti di bestiame: stalle, recinti, magari prati. La realtà è infinitamente più brutale.
Si tratta di file interminabili di gabbie metalliche sospese da terra, spesso disposte in capannoni lunghi decine di metri. Nessun contatto con la natura, nessun ciclo giorno-notte. Soltanto luce artificiale, odore di ammoniaca, deiezioni accumulate sotto le gabbie e animali costretti a vivere, dal primo all’ultimo giorno, in un perimetro grande quanto una cassetta della frutta.
Le dimensioni delle gabbie sono regolamentate solo in alcuni paesi, ma anche nei casi “virtuosi” gli spazi sono tragicamente insufficienti. Un visone, che in natura può percorrere chilometri nuotando nei fiumi e cacciando da solo, qui vive rinchiuso in 0,2 metri quadrati. Una volpe — animale solitario, curioso, abituato a scavare e a marcare il territorio — viene confinata in 1 metro quadrato. Niente stimoli, niente interazioni naturali, nessuna possibilità di fuga. Le gabbie sono fatte di rete metallica, che ferisce le zampe, deforma le unghie e provoca infezioni croniche. Non c’è isolamento acustico. Il rumore è costante: versi, lamenti, colpi. Ogni giorno è uguale all’altro, e ogni giorno peggiora il disagio psicofisico degli animali.
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L’atrocità e le sofferenze
I comportamenti anomali sono la norma. Si osservano spesso animali che girano in tondo senza sosta, che si mordono la coda o le zampe fino a mutilarsi, che aggrediscono i cuccioli appena nati o i compagni di gabbia. È ciò che gli etologi chiamano zoochosi: una forma di malattia mentale provocata dalla reclusione e dallo stress. Questi comportamenti sono il segno tangibile di una mente che si spezza. Ma l’industria non si ferma: l’animale deve arrivare alla stagione della “raccolta” con il pelo intatto, a prescindere dalle sue condizioni. Se si ammala, si isola o si sopprime. Non c’è cura, non c’è pietà. L’importante è che la pelliccia resti commerciabile.
Il ciclo di vita degli animali è breve e predefinito. I visoni vengono uccisi attorno ai 6 mesi, le volpi tra gli 8 e i 12. Prima del ciclo finale, le femmine vengono selezionate per la riproduzione. In primavera, vengono fatte accoppiare e costrette a partorire nelle stesse gabbie, senza nidi, senza protezione. I piccoli crescono sotto gli occhi degli altri animali, talvolta assistendo alla morte dei fratelli o della madre. Nessuno nasce libero. Nessuno muore libero. E noi cosa stiamo facendo?
Le “normali attività economiche” e il costo ambientale
Le ispezioni nei paesi europei — inclusi quelli che vantano standard più elevati — hanno mostrato violazioni sistemiche. Secondo un’indagine della Eurogroup for Animals, condotta in oltre 20 allevamenti europei, il 95% mostrava segni di maltrattamenti gravi: animali con ferite aperte, infezioni oculari, ossa fratturate mai curate, decomposizioni lasciate a contatto con i vivi. In molti casi, gli animali morti restano nelle gabbie per giorni, mentre i sopravvissuti continuano a vivere accanto ai loro cadaveri. Le immagini pubblicate da organizzazioni come LAV, Essere Animali, PETA, Animal Equality, sono documenti scioccanti: occhi vitrei, morsi, ululati, sangue e pelo impastato nel ferro delle grate. Eppure, per molti governi e aziende, questi allevamenti sono ancora considerati “normali attività economiche”. La buona notizia è che grazie a queste organizzazioni, in Italia non esistono più allevamenti di animali da pelliccia, ma non si può dire lo stesso di molti altri Paesi del mondo.
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Il costo ambientale, poi, è tutt’altro che trascurabile. I rifiuti organici generati dagli allevamenti — deiezioni, carcasse, prodotti chimici per la concia delle pelli — inquinano terreni e falde acquifere. In Danimarca, dopo l’abbattimento di milioni di visoni per rischio zoonotico (Covid-19), tonnellate di carcasse contaminarono il suolo, creando un disastro ambientale. Eppure, lo stesso paese ha riaperto agli allevamenti nel 2023.
Il business prevale su tutto. Anche sulla salute pubblica.
In definitiva, parlare di “allevamento” per descrivere questi luoghi è una scelta lessicale comoda, ma profondamente fuorviante. Non si tratta di un ciclo agricolo, né di un’attività rurale. Sono lager in miniatura, pensati per produrre morte a basso costo. Nessuno, uscendo da uno di questi luoghi, potrebbe più indossare una pelliccia con leggerezza, perchè sapere come vengono soppressi questi animali, non può lasciare nessuno indifferente.
Le tecniche di uccisione: la morte silenziosa
La fine, negli allevamenti da pelliccia, non arriva mai in modo naturale. Non c’è vecchiaia, non c’è destino biologico. C’è una data segnata in agenda. Quando il pelo è alla sua massima qualità — solitamente in pieno inverno — scatta il processo di “raccolta”. Si uccide in massa, in pochi giorni, migliaia di esemplari. Il problema, per l’industria, è uno solo: salvaguardare l’integrità della pelliccia. Per questo le tecniche di uccisione non hanno nulla a che vedere con la compassione o con l’eutanasia. Sono metodi pensati per essere rapidi, silenziosi, invisibili. E soprattutto efficaci nel preservare il prodotto.
Uno dei metodi più utilizzati è l’elettrocuzione anale o genitale. Una sonda viene inserita nell’ano o nella bocca dell’animale, mentre una seconda viene posizionata a contatto con la pelle. Una scarica elettrica attraversa il corpo, causando la paralisi del cuore. L’animale è cosciente nei primi istanti. Si dimena. Non urla: il silenzio fa parte del protocollo. In alternativa, si usa il monossido di carbonio: gli animali vengono ammassati in camere stagne, dove respirano gas letale finché non collassano. Questo metodo è particolarmente diffuso nei grandi allevamenti. Altri metodi, meno “industriali”, includono la rottura del collo, l’iniezione letale o, in contesti illegali o non regolamentati, il colpo alla testa.
In Cina — dove i controlli sono minimi e le immagini trapelate sono tra le più raccapriccianti — si sono documentati casi di animali scuoiati ancora vivi, sotto shock ma coscienti, incapaci di opporsi. Il tempo è denaro, e in certi mercati l’umanità è solo un costo. Le proteste internazionali non bastano a fermare questa macchina, alimentata da un mercato globale che premia la disponibilità e ignora la provenienza.
Ora la domanda giusta è: esiste un’alternativa?
L’alternativa esiste. E fa meno male
Oggi non c’è alcun motivo razionale per continuare a produrre e comprare pellicce. Le alternative esistono, sono più economiche, più sostenibili, spesso indistinguibili a livello estetico. Eppure, una parte del mercato continua a resistere, protetta da tradizioni, da nostalgie, da interessi economici. Ma la verità è una sola: nessun capo di abbigliamento giustifica la sofferenza di un essere vivente. Nessun bisogno, nessuna moda, nessun vezzo può valere la vita — e la morte — di un animale condannato a vivere in gabbia solo per diventare un cappotto.
Ma la verità è che l’alternativa esiste, ed è alla portata.
Esistono ormai materiali sintetici altamente performanti, esteticamente identici alla pelliccia naturale, ma senza violenza, senza sangue. Alcuni brand di moda li chiamano “eco-fur” o “faux fur”, e sono prodotti con fibre riciclate, polimeri vegetali o materiali innovativi come il bio-based faux fur: pellicce sintetiche realizzate con risorse rinnovabili e biodegradabili. Non si tratta solo di moda “cruelty-free”, ma di un’intera industria in trasformazione. Maison storiche come Gucci, Prada, Versace, Armani, Burberry hanno dichiarato pubblicamente l’abbandono della pelliccia vera, aderendo al Fur Free Retailer Program. Anche rivenditori globali come Yoox, Net-a-Porter, Zalando, ASOS, Selfridges hanno bandito la pelliccia da anni.
Non è un compromesso di qualità, è un avanzamento culturale. Le alternative sintetiche di ultima generazione sono resistenti, calde, lavabili e spesso più durature della pelliccia vera, che richiede conservazione professionale per non rovinarsi. E se il problema è l’impatto ambientale dei materiali artificiali, esistono filiere certificate che garantiscono l’uso di materiali riciclati, non tossici e prodotti a basso impatto. Nessuna alternativa sarà mai perfetta — ma nessuna giustifica la tortura di un essere vivente.
E poi c’è la scelta più semplice, radicale e giusta: fare a meno della pelliccia. Non indossarla, non acquistarla, non considerarla un’opzione. Nessuno ha bisogno di pelliccia per vivere, oggi meno che mai.
Il cambiamento inizia da ciò che scegli di non ignorare
Oggi l’ignoranza non è più una scusa. Oggi non sapere è una scelta. E chi sceglie di non sapere, sceglie di ignorare il dolore. Sceglie di essere complice.
L’informazione è ovunque. Chi sceglie ancora di indossare pelliccia vera compie una scelta precisa, consapevole, che nulla ha a che vedere con la necessità o con il gusto personale. Una complicità che continua negli occhi di chi ha assistito, nei documenti che nessuno legge, nella voce di chi denuncia e viene ignorato. Le inchieste parlano chiaro, le foto sono inequivocabili, le testimonianze agghiaccianti. Eppure, l’orrore resta invisibile, coperto dal glamour, dall’idea distorta che si tratti solo di moda. È una trappola culturale: l’estetica che maschera l’etica.
La pelliccia, nel 2025, esattamente come nel Medioevo, è un oggetto simbolico: porta con sé un’idea di superiorità, di dominio, di status. Smettere di indossarla significa scegliere da che parte stare.
Ma la verità è che la pelliccia continua a circolare nei mercati delle nostre città, sulle spalle di quelle persone che trasformano la sofferenza in vanità, come se il lusso potesse davvero giustificare tutto.
E il nostro silenzio è parte del problema.
Guardare in faccia la realtà significa capire che il dell’animale resta cucito nella pelliccia, come una ferita che nessuno vuole vedere.
Il cambiamento non inizia solo dai governi, dalle leggi o dalle aziende. Inizia da chi guarda, da chi sceglie, da chi dice no. Chi compra pelliccia oggi non può più fingere di non sapere. Le informazioni sono disponibili, le alternative sono reali, la responsabilità è collettiva. Guardare in faccia la realtà è scomodo, ma necessario. Significa non voltarsi dall’altra parte, non ridurre tutto a una questione di gusti personali. Significa avere il coraggio di riconoscere il sistema, e di decidere se farne parte.
Fonti e dati dell’articolo
Foto copertina: screenshot da video LAV
Humane Society International
Organizzazione globale che lavora per porre fine al commercio di pellicce, evidenziando la crudeltà degli allevamenti intensivi e i rischi per la salute pubblica.
hsi.org
PETA (People for the Ethical Treatment of Animals)
Indagini approfondite sulle condizioni degli animali negli allevamenti di pellicce, rivelando pratiche crudeli come l’elettrocuzione e la decapitazione senza anestesia.
peta.org
LAV (Lega Anti Vivisezione)
Campagne e rapporti sull’abolizione degli allevamenti di pellicce in Italia e in Europa, con focus sulle condizioni degli animali e i rischi sanitari associati.
lav.it
Essere animali
Inchieste e rapporti sugli allevamenti in Polonia e la campagna Four free Europe
FOUR PAWS International
Organizzazione che documenta il declino dell’industria della pelliccia e promuove alternative etiche, evidenziando le problematiche ambientali e sanitarie degli allevamenti.
four-paws.org
Fur Free Alliance
Coalizione internazionale di oltre 40 organizzazioni che lavorano insieme per porre fine alla crudeltà sugli animali nell’industria della pelliccia.
furfreealliance.comfurfreealliance.com
The Guardian
Inchieste giornalistiche che rivelano le condizioni degli animali negli allevamenti di pellicce e le implicazioni etiche del commercio internazionale.
theguardian.com
BBC News
Reportage che mostrano le realtà degli allevamenti di pellicce, evidenziando le condizioni di vita degli animali e le pratiche dell’industria.
youtube.com
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