Il pesco, originario di terre lontane
Il pesco: nel pronunciarne il nome, ci viene subito in mente il titolo “Fiori rosa, fiori di pesco” della canzone di Battisti-Mogol. Perché, fra tutti gli alberi da frutto, lo riconosciamo proprio per la tinta rosa intenso dei suoi fiori. Appartiene alla famiglia botanica delle Rosacee, che stiamo trattando ormai da diverse settimane, ed è stato catalogato come Prunus persica Batsch. L’aggettivo persica lo identifica con quello che i latini chiamavano “pomo di Persia”. In realtà, il pesco è originario di terre ben più lontane, perché proviene dalla Cina settentrionale e centrale. Qui veniva coltivato già tre millenni prima della nascita di Cristo.
Giunse in Italia intorno al I secolo a.C.: lo deduciamo dal fatto che non fu mai citato da Catone né da Varrone. Plinio e Columella, al contrario, elencano alcune varietà di pesche: le asiatiche, le duracine e le galliche. Negli affreschi ritrovati nel sito archeologico di Pompei furono dipinte in modo chiaro e inconfondibile. I frutti erano essiccati, per mangiarli fuori stagione, oppure conservati nel miele, nel vino cotto e addirittura in salamoia! Nel IV secolo d.C., Palladio spiega in modo esaustivo come si coltiva il pesco e suggerisce anche cure efficaci per contrastarne le malattie.


Una coltivazione diffusa in tutto il mondo
Nel corso dei secoli, il pesco si è diffuso come specie coltivata in tutto il mondo. In America, si propagò al punto che, per non sprecare le troppe pesche che maturavano insieme, ne ricavarono persino acquavite! Nel XVIII secolo, si conoscevano soltanto una ventina di varietà di frutti. Oggi, invece, ne contiamo diverse centinaia.
Nelle campagne irlandesi, usava preparare un decotto con la corteccia del pesco. Pensando a come è strutturato il corpo umano, tale bevanda pare avesse un duplice utilizzo. Se la corteccia veniva raschiata in basso, presso la radice, si diceva fosse utile nei disturbi intestinali. Se invece veniva raschiata in alto, più vicina ai rami, era considerata un buon rimedio per indurre il vomito.


Una breve descrizione botanica del pesco
Il pesco è uno fra gli alberi maggiormente distinguibili, fra quelli coltivati. E non troviamo specie spontanee in natura, a meno che non si siano inselvatichite, con piante nate per la caduta di un qualche nocciolo nel terreno. Raggiunge un’altezza massima di 6 metri. Presenta le caratteristiche foglie lanceolate, alterne, lunghe sino a 20 centimetri, dal margine dentellato e dalla lamina incurvata e pendente.
I grandi fiori rosa, a 5 petali, sono subsessili e compaiono prima delle foglie, sbocciando tra marzo e aprile. I frutti sono grandi, tanto da raggiungere un diametro di 10 centimetri, e maturano tra luglio e ottobre. Sono succulenti, carnosi e vellutati: solo la varietà delle nettarine è a buccia liscia. Contengono un nocciolo assai rugoso, dai molti solchi profondi.


Ottimi frutti ma guai a curarsi con fiori, foglie o noccioli!
I principi attivi delle pesche sono costituiti da una quantità d’acqua pari all’80%, acido ascorbico, zuccheri e vitamine A, B e P. Secondo Henri Leclerc, sono tra i frutti meglio tollerati dallo stomaco, facilitano la digestione stimolando le secrezioni gastriche e riducono il lavoro delle pareti muscolari. Sono diuretiche, lassative, ed energetiche. Giovano alla pelle anche in uso esterno, stendendo maschere di polpa schiacciata sull’epidermide del viso.
Non si può dire che siano altrettanto salutari le altre parti della pianta. Foglie, fiori e noccioli, infatti, contengono alte percentuali (sino al 3%) di amigdalina, glicoside cianogenico che libera acido cianidrico, che è un potente veleno. Nei secoli passati, purtroppo si è fatto largo uso di fiori e foglie come droga medicinale, considerati quali purganti. Nel 1556, ad esempio, Andrea Mattioli scriveva che i fiori di pesco “fanno andare di corpo e provocano il vomito”. Noi sconsigliamo assolutamente qualsiasi impiego fai da te, senza essersi consultati con un medico. Si corrono minori rischi in uso esterno, con l’applicazione delle foglie fresche non trattate sull’addome, perché non vengono ingerite. Secondo Galeno, tale cataplasma servirebbe per calmare i dolori addominali e per sbarazzarsi dei vermi intestinali.


Foto di copertina di guidogalvani1967 da Pixabay
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