Flavio Oreglio e l’intervista catartica

Sono convinto che se dico Flavio Oreglio, la risposta generale è ”Ah si!!! Il poeta catartico di Zelig!!!”, ma non tutti sanno che Flavio non è solo Zelig.

Decenni di onorata carriera come cantante, autore, comico, scrittore e anche insegnante: Flavio è un artista poliedrico a 360 gradi che non smette mai di evolversi, di stupirsi e di stupirci, con nuove idee e tanto, tanto buon umorismo. E’ una di quelle persone che ti lasciano una buona energia quando ti congedi da loro e che riescono a lasciarti un ricordo indelebile, del tempo passato insieme, direi quasi storico se non…catartico.

E’ così che è andata via, tra un a battuta e una domanda, mezz’ora di vita, passata con Flavio. Ed è con vero desiderio di condivisione, che vi propongo la nostra chiacchierata.

Flavio, partiamo dal fondo e dal tuo nuovo progetto discografico “Anima popolare”. Parafrasando altre tue opere, possiamo definirlo, “ridendo e sferzando”, un disco “catartico”?

(ride, ndr) Questo si, dai. Ogni cosa che faccio è un momenti catartico, e nota bene faccio solo cose che mi piacciono, in qualche modo cose liberatorie. Cose belle, almeno per me. Prima di tutto, devo fare qualcosa che piaccia a me e questa cosa che ho fatto, questo disco, mi piace tantissimo. Che poi, non è stata neanche una cosa voluta o pensata: è nata casualmente. Questo progetto, che riguarda la musica popolare, in un momento dove la musica va da un’altra parte, come lo hai “deciso”? Guarda, voglio essere molto schietto e sincero: la musica, hai ragione, va tutta da un’altra parte, ma è una direzione di merda! Guarda che non è la musica che va in una certa direzione, ma la discografia. I problemi della discografia non sono quelli della musica: son due mondi differenti. Se i discografici fanno certe scelte e non capiscono un cazzo, lasciali fare: cioè lanciano prodotti commerciali che non vendono, e questo è il paradosso. Loro vadano dove vogliono andare, io vado in un’altra direzione, facendo quello che mi piace e mi interessa. E guarda che non mi considero antiquato, attenzione: questa riscoperta della musica popolare, non va vista come operazione nostalgica. Io ho intenzione di fare una cosa modernissima, nell’arco di tre album. Una cosa moderna, ripeto, nell’arco di tre album, ma con sonorità popolari. Le nostre radici, musicali in questo caso, sono qualcosa che ci arricchiscono, sono una fonte incredibile di modalità espressive, che sta a noi saper cogliere. Questo è quello che cerco di fare: se poi ci riesco o non ci riesco, è un altro paio di maniche. Goethe diceva “…amo coloro che aspirano all’impossibile”…Lapo Elkann dice “…amo coloro che aspirano l’impossibile…” (rischia di cadermi il rec portatile, nda). Dai lasciando da parte le citazioni, quello che mi piace di questo lavoro, è il grandissimo entusiasmo che si respira all’interno del gruppo di lavoro. Vedrai che nel corso dei tre album, emergeranno suoni ed atmosfere modernissime, pur riferite a radici popolari.

Hai già anticipato un pezzo di risposta alla prossima domanda: il tuo rapporto con la Staffora Bluzer e con Luca Bonaffini.

Tutta gente che ragiona come me: contromano. Luca lo conosco fin dai miei esordi, dalla fine degli anni ’80. C’è sempre stata stima reciproca e unità d’intenti. La nostre strade si sono separate ed incrociate spesso, nel corso degli anni: abbiamo dato vita a tantissime cose, una più bella dell’altra, tra canzoni scritte insieme, progetti vari che hanno preso e prenderanno corpo. Luca ha sempre avuto il pallino della discografia, dell’indipendenza e mi ha proposto da sempre, di fare un progetto come “Anima popolare”. Trovo la LDP una cosa molto forte, molto attrezzata, agguerrita, termine che mi piace davvero. Sai ci sono tipi grandi e grossi, che poi sono buoni come il pane, contrariamente a chi è minuto, piccolino, come un cagnetto, ma che ringhia a tutti. La LDP mi pare così: agguerrita, nel senso buono naturalmente. E’ meglio finire in una piccola etichetta, che ti segue, piuttosto che in una major, che ti butta sul mercato e poi non ti caga neanche di striscio.

Grande Flavio!

E’ una etichetta molto vicina, tra l’altro, al mio modo di fare le cose. io sono sempre stato molto artigianale, mai industriale, se mi passi il paragone: io mi preparo le cose, le studio, le elaboro, poi le porto sul palco. Tutto un lavoro fatto in casa e la LDP mantiene questa dimensione. Questo per quel che riguarda Luca Bonaffini. Per quanto riguarda gli Staffora Bluzer, nome che gli ho dato io, tutto è nato con un duo, Stefano Faravelli e Matteo Burrone. Loro sono un duo che si rifà alla musica delle “quattro province”: tradizione coltivata nell’oltrePò pavese, quelle terre contigue tra Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e Liguria, che comprende quattro province, cioè Pavia, Alessandria, Genova e Piacenza, e condividono lo stesso mio mood. Loro costruiscono artigianalmente i pifferi che usano per suonare, fanno raduni con musica e balli particolari, pifferi, fisarmonica e cornamusa. Una ricchezza musicale incredibile, che si può contaminare con altri generi. Ci siamo incontrati e abbiamo provato a mettere insieme qualche pezzo della scuola milanese: mondi che si sono intersecati, quasi una sperimentazione, cosa che io ho sempre amato. Sai io musicalmente sono cresciuto negli anni ’70 quando c’era il progr…

…non dirlo a me, il primo disco che ho comprato è stato “Selling England by the pound” dei Genesis…

…appunto…è una cosa che ci è rimasta addosso…

…confermo…

…un approccio alla musica straordinario. Forse l’unico momento storico, dove la discografia è stata costretta a seguire la musica: è così che sono nati i long-playing, i 33 giri. L’album è nato perché certi pezzi di quell’epoca, erano troppo lunghi per un 45 giri.

Sacrosanto. Tornando a “Anima popolare”, la scelta di fare il primo live al Teatro Zelig di Milano, implica un “tributo” alla scuola cantautorale milanese?

Sai, lo Zelig resterà sempre nel mio cuore, un’esperienza molto importante per me e per la mia carriera. Ci sono stati momenti belli e momenti di scazzo, ma sempre con una grande stima reciproca. un rapporto che comunque dura nel tempo. Mi è sembrato giusto cominciare, anzi ripartire da lì, anche perché a Milano rimane una location molto importante. E’ un posto dove sto bene.

Sei soddisfatto della prima performance live?

Guarda, lo spettacolo che abbiamo allestito è bellissimo, detto senza falsa modestia. Uno spettacolo comunque in evoluzione, quella dimensione sperimentale di cui ti ho parlato relativamente alla musica, che vale anche per lo show. Io non sono il tipo che scrive una cosa e la propone sempre nello stesso modo: ogni volta che salgo sul palco, mi piace reinterpretare me stesso: c’è una base di partenza, certo, ma con un contorno che varia.

Mi stai facendo venire su, una gran voglia di vederlo, e penso che ci sarà presto l’occasione.

Grazie. Ti dico che ci stiamo attrezzando, perché questo progetto sta correndo più forte di noi. C’è molto interesse su questa cosa, e ci stiamo attrezzando per renderla sempre migliore.

Vorrei cambiare un attimo il discorso, se sei d’accordo. Una mia curiosità personale: le nuove generazioni di comici, non usano più il teatro o il locale, per proporre i propri spettacoli, ma si servono dei social. Volevo sentire un tuo autorevole parere in merito.

Secondo me i social sono uno strumento molto interessante, ma tendono ad appiattire le cose e a far sembrare tutto uguale: magari vedi un video bellissimo, un personaggio che ti sembra riuscito, poi magari lo vedi dal vivo e si rivela una cagata pazzesca. Dal punto di vista della comunicazione, sicuramente è una figata, ma finisce lì. Nel senso che ci deve essere una sostanza, che sui social magari c’è, ma non la trovi dal vivo, a contatto con il pubblico. Poi, ce ne sono troppi di comici. Anche se io sul “comico” le mie idee: non mi piace l’idea di confondere il cabaret con la comicità. I comici con il cabaret non c’entrano niente.

Proprio lì volevo arrivare!

I comici fanno un certo mestiere, il cabaret è un altro mondo. Sai, sul cabaret, ho fatto degli approfondimenti notevoli, sono anni che ci lavoro e ho dato vita da un anno, all’archivio storico del cabaret italiano. Ho scoperto delle cose molto interessanti: il cabaret è stato inventato da pittori, poeti, cantautori, disegnatori satirici. I comici lavoravano da un’altra parte. Se tu vai su Wikipedia e cerchi la voce “cabaret”, come immagine illustrativa, trovi il “Moulin Rouge”. non c’entra un cazzo. il locale parigino è un music-hall, evoluzione del cafè-chantant: un diverso filone di spettacolo, interessantissimo, ma un’altra cosa. E’ il varietà. Hai notato che in Italia, la parola varietà non si usa più? Purtroppo! Si dice “cabaret” per indicare il “varietà”, tipo di spettacolo che ci ha dato artisti straordinari come Totò, Macario, Walter Chiari, Gino Bramieri, Renato Rascel, Paolo Panelli. questa è tutta gente che arrivava dal varietà, non dla cabaret. Dal cabaret sono arrivato Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Dario Fo. Non è la stessa cosa. Grandissimi nel loro contesto, che però è differente. Ora, questa roba tutti continuano a chiamare “cabaret” e che non lo è. Io sto facendo una grande battaglia, affinché questo termine troppo abusato, sia tolto di mezzo e si torni alla definizione di “varietà”, battaglia che non so come andrà a finire, ma io ci provo. Lo ritengo un danno culturale. Addirittura, se hai notato, “cabaret” sta diventando un termine dispregiativo: brutta cosa, anche perché il cabaret è un spettacolo di altissimo livello intellettuale. Se vuoi vedere qualcosa del mio lavoro vai su www.archiviocabaret.it, è un sito appena nato, ma ti fa capire cosa sto facendo.

Lo farò senz’altro ed invito tutti i lettori a farlo. ultima domanda: cosa bolle in pentola? Progetti da oggi in poi? In parte hai già risposto, due album che arriveranno, ma per il resto?

Non sono il tipo che sta fermo, ma non ho in programma delle tournee con date già stabilite. Ci sono periodi più densi di impegni, rispetto ad altri che lo sono meno, ma comunque c’è sempre una soluzione di continuità nei miei impegni. Ho diverse tipologie di spettacolo che porto in giro, a cui si è “aggregato” lo spettacolo relativo a “Anima popolare”. Mi piace pensare ai miei spettacoli come un unicum che si diversifica a seconda dei casi, ma che corre nella stessa direzione.

Flavio, non posso chiudere questa intervista, interessante, divertente, ricca di spunti, senza chiederti un regalo per i lettori di ZetaTiElle: una piccola, piccolissima poesia catartica!

Beh, ti cito una poesia tra le mie preferite: (atmosfera…)…”torno a casa e ti dico…sei la donna della mia vita…e tu, tu mi dici…ti sei ubriacato di nuovo…e io ti dico, ma amore io ti amo, perché mi dici questo… e tu…perché sono tuo padre…”

#stayalwaystuned

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Lele Boccardo
Lele Boccardo
(a.k.a. Giovanni Delbosco) Direttore Responsabile. Critico musicale, opinionista sportivo, pioniere delle radio “libere” torinesi. Autore del romanzo “Un futuro da scrivere insieme” e del thriller “Il rullante insanguinato”. Dice di sè: “Il mio cuore batte a tempo di musica, ma non è un battito normale, è un battito animale. Stare seduto dietro una Ludwig, o in sella alla mia Harley Davidson, non fa differenza, l’importante è che ci sia del ritmo: una cassa, dei piatti, un rullante o un bicilindrico, per me sono la stessa cosa. Un martello pneumatico in quattro: i tempi di un motore che diventano un beat costante. Naturalmente a tinte granata”.