Google SEO, indexing, keywords: come scrivere un articolo e la dura legge del web
C’era un tempo in cui bastava avere una buona grammatica, un titolo accattivante e un contenuto interessante per fare un buon articolo. Oggi? Dimenticalo. Oltre a scrivere, un giornalista deve diventare un piccolo stratega del web. Non basta più creare un testo scorrevole e corretto: bisogna pensare a indicizzazione, SEO, trend, leggibilità e – ovviamente – titoli che catturino l’attenzione. In pratica, scrivere è solo una parte del lavoro. Il resto? Una lotta costante con algoritmi, regole ferree e lettori che, nella maggior parte dei casi, si limiteranno a commentare senza aver letto una riga.
Bei tempi quelli in cui bastava scrivere bene, quindi, se siete aspiranti giornalisti o blogger, ecco cosa vi aspetta.
Google SEO: Il grande dittatore
Se vuoi che il tuo articolo venga letto, devi farti amico il SEO (search engine optimization). O meglio, devi imparare a sopravvivere alle sue regole infernali. WordPress, la piattaforma più usata per i contenuti web, detta leggi precise che trasformano la scrittura in una sorta di sudoku giornalistico. Ci sono ben sedici parametri di base ( ma possono essere anche di più se vuoi complicarti la vita) che il Google SEO pretende che siano rispettati e basta sgarrare su uno solo per vedersi abbassare il punteggio di leggibilità e quindi, addio visibilità.
Il titolo deve essere corto, incisivo e contenere la parola chiave, che a sua volta va ripetuta in un numero adeguato di volte all’interno del testo. Ma attenzione, perché non basta buttarla lì a caso. Google SEO pretende che debba essere all’inizio del titolo, presente nello slug e nella meta description, inserita nelle immagini e – per aggiungere un po’ di pepe alla sfida – bisogna anche fare in modo di non averla già usata troppo in articoli precedenti, altrimenti l’algoritmo decide che sei noioso e ti punisce relegandoti negli angoli bui di internet.
Poi c’è lo slug, ovvero l’URL dell’articolo, che deve essere chiaro, contenere la parola chiave e possibilmente evitare parole inutili. La meta description, che in teoria è un piccolo riassunto del contenuto, in pratica deve essere una frase perfetta, dritta al punto e ottimizzata per i motori di ricerca. E se pensavi che fosse finita qui, no, c’è ancora il discorso dei sinonimi e delle parole affini: guai a ripetere troppo la stessa espressione, ma guai anche a usarne troppo poche. Il bilanciamento è fondamentale, un po’ come il sale nella pasta. Troppo e rovini tutto, troppo poco e non sa di nulla.
E non è ancora finita: leggibilità e stile di scrittura sotto scacco
Dopo la guerra con il SEO, arriva il secondo round: la leggibilità. WordPress stabilisce sei regole, perché non basta scrivere bene, bisogna scrivere in un modo che piaccia all’algoritmo. I paragrafi devono avere una lunghezza precisa, né troppo corti né troppo lunghi, altrimenti si rischia di perdere punteggio. I sottotitoli devono essere inseriti strategicamente per dividere il testo e rendere la lettura più scorrevole. Le frasi passive sono il nemico numero uno e devono essere ridotte al minimo, mentre le parole di transizione devono essere presenti in quantità adeguata, perché rendono il testo più fluido e comprensibile.
Infine, la lunghezza delle frasi non può superare le venticinque parole, il che significa che ogni tanto ci si ritrova a scrivere come in terza elementare, con pensierini che sembrano usciti direttamente dal quaderno di un bambino. Il problema è che tutto questo vincola lo stile di scrittura. Un giornalista dovrebbe avere la libertà di esprimersi nel modo più efficace possibile, invece si ritrova a fare i conti con regole rigide che lo costringono a un linguaggio preconfezionato, sacrificando l’originalità e l’identità stilistica.
E poi aspetta il giudizio del terribile media monitoring, che è persin peggio del voto di verifica che aspettavi al liceo dal prof più bastardo.
Media Monitoring: L’Orecchio Digitale di Google
Se Google fosse una persona, sarebbe quel vicino di casa che sente tutto, osserva tutto e sa sempre cosa succede prima di chiunque altro. Il media monitoring è proprio questo: un sistema che analizza continuamente il web alla ricerca di menzioni, citazioni e contenuti rilevanti. Strumenti come Google Alerts, Brandwatch o Mention permettono di tenere traccia di quando e dove un marchio, un argomento o un autore vengono citati.
Ma cosa c’entra con l’indicizzazione?
Semplice: se un contenuto viene ripreso da più fonti autorevoli, Google potrebbe valutarlo come più rilevante e quindi indicizzarlo più velocemente e in modo più efficace. Insomma, non basta scrivere un articolo brillante: bisogna anche farlo parlare di sé!


Google Trends: La Sfera di Cristallo del Web
Se Google fosse un mago, Google Trends sarebbe la sua sfera di cristallo: basta digitare una parola chiave e puff! scopriamo se il mondo ne sta parlando o se è un argomento destinato a prendere polvere nel dimenticatoio digitale. Questo strumento è una miniera d’oro per chi crea contenuti, perché permette di capire cosa interessa davvero alle persone in un dato momento.
Ma attenzione: seguire i trend senza criterio è come inseguire l’ultima moda senza guardarci allo specchio. L’ideale è trovare il giusto equilibrio tra argomenti di tendenza e contenuti evergreen, così da ottenere il massimo dell’indicizzazione senza diventare schiavi dell’effimero. In pratica, Google Trends è il termometro del web: meglio controllarlo prima di lanciarsi nella scrittura!
La frustrazione finale: gli utenti
Dopo tutto questo sforzo per rendere l’articolo perfetto, arriva il colpo di grazia: gli utenti leggono solo il titolo. Se non è abbastanza esplosivo, passano oltre. Se è intrigante, magari commentano… senza nemmeno aver letto il testo. E se l’argomento non è un trend, un gossip o un caso di cronaca nera? Zero clic. Nessuna interazione. Il tuo lavoro, che hai sudato per ore, passa inosservato. È come cucinare un pranzo gourmet per qualcuno che alla fine sceglie di mangiare un pacchetto di patatine.
In effetti, c’è da domandarsi a quale livello di cultura si è arrivati, grazie ai social e al bombardamento costante di contenuti usa e getta. L’attenzione media è ormai inferiore a quella di un pesce rosso, e gli articoli ben scritti competono con video di gatti, balletti virali e meme improbabili. Il lettore moderno scorre, sfiora, butta un occhio e dimentica. Ti aspetteresti almeno un commento intelligente, un dibattito costruttivo… e invece arrivano solo bot che promuovono occhiali da sole e follower a pagamento.
A questo punto, la vera domanda è: scriviamo per essere letti o per essere trovati da Google? E se un articolo non genera interazioni, esiste davvero? Un dilemma degno di un filosofo digitale, mentre nel frattempo il tuo pezzo perfetto giace abbandonato, mentre qualcuno con un tweet di tre parole ha appena fatto il giro del mondo.
Giornalisti o acrobati del web?
Oggi scrivere un articolo non è più solo un esercizio di stile e contenuto. È diventato un mix tra strategia digitale, Google SEO, marketing e psicologia dell’utente. Il giornalista moderno non è solo uno scrittore, ma un acrobata del web, costretto a destreggiarsi tra algoritmi imprevedibili, regole oscure e tendenze che evaporano in un battito di ciglia. Deve inseguire il traffico senza perdere la qualità, catturare l’attenzione senza cadere nel sensazionalismo, trovare il giusto compromesso tra ciò che vuole scrivere e ciò che il pubblico è disposto a leggere.
E alla fine, dopo tutto questo, l’unica cosa che conta davvero è… il titolo giusto! Perché senza un titolo perfetto, nessuno scoprirà mai il contenuto. E se invece il titolo è irresistibile? Allora il pezzo potrebbe fare il giro del web… anche se nessuno lo leggerà davvero. Ecco il paradosso dell’informazione digitale: scriviamo per comunicare, ma siamo schiavi dell’attenzione fugace. Forse, più che acrobati, siamo equilibristi in una giungla digitale, dove il vero miracolo non è scrivere bene, ma riuscire a farsi leggere davvero.
Foto copertina di Pexels da Pixabay
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