Il capelvenere, caro a Venere e a Plutone
Il nome del capelvenere ci riporta alla mitologia antica. Le sue fronde dalle foglie setose e dalla lucida rachide sono così eleganti da far pensare alle chiome di Venere, dea della bellezza. Ma questa piccola felce piaceva anche a Plutone, signore del regno dei morti. Secondo tradizione, infatti, la corona con cui si cingeva il capo era appunto composta da steli di capelvenere.
Secondo Dioscoride e Castore Durante
Uno fra i primi a studiare questa piccola felce fu Dioscoride, nel I secolo. Nel suo De Materia Medica attribuisce al capelvenere la proprietà di contrastare la caduta dei capelli. Ciò viene avvalorato, nel XVI secolo, da Castore Durante, che va addirittura oltre. Nell’Herbario Novo, sostiene che frizioni del suo decotto facciano ricrescere i capelli sulla testa dei calvi. Eppure la cosa più curiosa che riporta è l’abitudine della sua epoca di mischiare il capelvenere tritato al pastone che si propinava ai galli. Pare li rendesse invincibili nei combattimenti che, purtroppo, usavano come barbaro spettacolo.


Credenze e usanze dell’Isola di Smeraldo
In lingua irlandese, il capelvenere si traduce come dúchosach, termine in cui è evidente la presenza del sostantivo dúch, ossia inchiostro. Il lucido nero dei suoi steli richiama appunto il colore dell’inchiostro. Rappresenta presso gli antichi celti la pianta delle visioni e del mistero, nel passaggio tra vita e morte. Per questo motivo, anche in epoca cristiana, divenne protagonista dei riti della vigilia di Ognissanti.
Si metteva una fronda di capelvenere sotto il guanciale, per sognare in quella stessa notte il destino di un proprio caro morto durante l’anno. Il defunto, evocato dalla presenza della pianta, avrebbe così rivelato se era finito in paradiso o all’inferno. Qualcosa di simile, specialmente nelle contee occidentali, veniva compiuto pure dalle ragazze in età da marito, nell’imminenza del Calendimaggio. In questo caso, la foglia di capelvenere sotto il cuscino avrebbe fatto sognare a ciascuna di loro il volto del giovane che l’amava in segreto.


La fortunata ricetta del Café Procope
Ci fu una bevanda molto in voga durante il secolo dell’Illuminismo e la cui moda fu lanciata dal Café Procope di Parigi. Esso, che sorgeva in rue de l’Ancienne Comédie, era frequentato da Diderot, da Voltaire, da Rousseau, i quali bevevano spesso una tazza di bavarese. In realtà, non era un’invenzione del Café Procope, perché ne aveva carpito la ricetta al principe di Bavaria. E non aveva nulla a che fare con l’omonimo dolce al cucchiaio, che tutti noi conosciamo. Di che cosa si trattava? Il segreto della bavarese consisteva nel preparare un semplice tè, mettendo però le foglie in infusione nel latte bollente. Non solo: era dolcificato con lo sciroppo concentrato di capelvenere, che altro non era se non uno sciroppo per la tosse!


Il significato nel linguaggio dei fiori
Il capelvenere è una felce spontanea che predilige un habitat umido, presso fonti, pozzi e rocce muscose, dove non batte il sole. Eppure, per la sua bellezza, è anche coltivato nei vivai come pianta ornamentale. Si trova comunemente dai fioristi, da aggiungere come tocco di verde in un bouquet fiorito. Anzi, la presenza del capelvenere in un mazzo che viene regalato simboleggia un segreto. È come se chi lo offre dicesse al destinatario: «Noi due condividiamo un segreto».
Piccolo ritratto botanico del capelvenere
Il capelvenere appartiene alla famiglia delle Polypodiacee ed è una Pterifodita perenne ossia, come abbiamo già anticipato, è una felce. Fu catalogato da Linneo come Adianthum capillus-Veneris L. Il nome latino deriva dal greco antico adianton, che significa “non bagnato”: le fronde infatti restano asciutte anche se irrorate dalla rugiada o dall’acqua sorgiva. Esse sono pennate, con lo stelo (o rachide) lucido e nero. Neri sono anche i piccioli delle foglioline verdi a ventaglio, dette pinnule, lievi e sottili come la seta. Nella pagina inferiore delle pinnule ci sono i sori, proprio sotto l’orlo ripiegato della fogliolina, che custodiscono le spore.


Principi attivi e impiego fitoterapico
Il capelvenere contiene mucillagini, gomma, zuccheri, olio volatile e tannino e la droga è costituita dalla pianta intera, essendo una crittogama, senza fiori. È quindi un emolliente ed espettorante, che giova nei malanni di stagioni delle vie aeree (tracheiti, tosse e catarro in genere). Il tannino lo rende leggero astringente (enteriti, diarrea). Allevia pure i dolori mestruali, sebbene non sia ancora del tutto chiaro il meccanismo d’azione. Infine è un diuretico che reca sollievo nelle infiammazioni urinarie.
Il decotto si prepara ponendo due cucchiai rasi di droga in mezzo litro d’acqua. Come sempre, si fa bollire per alcuni minuti e si spegne, lasciando in infusione per un quarto d’ora. Si filtra e si dolcifica a piacere. È una tisana dal sapore molto gradevole – tra le migliori in assoluto, come gusto – che può sostituire il tè lungo la giornata. È tuttavia preferibile non berla dopo i pasti, per la presenza di mucillagini, che non la rendono digestiva. Il decotto, naturalmente non zuccherato, è utile come lozione per frizionare il cuoio capelluto, per rinforzare i capelli e per contrastare la forfora.


Lo sciroppo delle nostre nonne
Un tempo, in campagna, era buona abitudine preparare lo sciroppo di capelvenere, prima che giungesse l’inverno con i suoi malanni. Si prendevano una trentina di grammi di fronde fresche, si sminuzzavano sul tagliere e si mettevamo a macerare per tre ore in mezzo litro d’acqua. Si faceva poi bollire per una decina di minuti e, una volta raffreddato, si filtrava. Si aggiungeva il doppio del peso di miele o di zucchero di canna e si faceva cuocere a bagnomaria sino a ottenere un composto omogeneo. Si somministrava a cucchiai a grandi e piccini, per lenire le affezioni della gola. Possiamo preparare questo sciroppo anche oggi e, chissà, usarlo per assaggiare noi pure la fantastica bavarese del Café Procope…
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