“La Casa di Carta”, emblema del femminismo?

Serie TV nell’epoca dei luoghi comuni: se “La casa di carta” cavalca l’onda del #MeToo

Non ho bisogno di essere difesa da te”. È la frase secca e determinata che Nairobi pronuncia contro Palermo, nuovo capo della banda più famosa di Netflix, nella quinta puntata della terza stagione de “La Casa di Carta”. Così gli ultimi episodi diventano il manifesto dei luoghi comuni contemporanei: donne che devono dar prova della propria forza, uomini costretti a mostrare le proprie debolezze; donne vulnerabili e colpevoli, uomini maschilisti; donne che rivendicano la propria astuzia, uomini che devono dimostrare di essere superiori.

Un atteggiamento narrativo che sembra essere figlio del #MeToo, contemporaneo alle prime due stagioni della serie spagnola ma antecedente rispetto alla terza. Se non ci fosse stato il movimento più popolare e controverso degli ultimi anni, “La casa di carta” si sarebbe davvero trasformata nell’emblema del femminismo che le ultime puntate hanno raccontato?

Le donne nella “Casa di Carta”

Il ruolo delle donne all’interno della banda è già chiaro nella prima stagione. La bella Tokyo è la Elena di Troia della situazione: colpevole per amore, impulsiva e sanguigna, viene additata dai compagni come la causa dei continui imprevisti durante l’attacco alla Zecca. Il suo negare la relazione sentimentale con Rio porta la coppia alla vulnerabilità: mentre i due litigano, l’ostaggio Alison Parker, figlia dell’ambasciatore britannico, accende il telefono e, di conseguenza, la polizia intercetta la conversazione e acquisisce le foto degli amanti. La sentenza del Professore – per ovvie ragioni pronunciata a Tokyo e non a Rio – è immediata: il loro amore è causa di guai.

Altro rimprovero viene da Mosca che incolpa Tokyo di un’eccessiva instabilità emotiva: quando viene consegnata alla polizia per essere portata davanti a un giudice, scappa verso la Zecca dello Stato per rientrarvi e causa così la sparatoria che colpisce proprio Mosca. E, ancora, nella terza stagione è sempre colpa di Tokyo che scappa dall’isola e viene rintracciata da Rio, se i due vengono individuati dalla polizia e il ragazzo viene catturato e torturato.

La maternità

Se la forza di Tokyo viene tradita dal topos dell’amore, quella della regina Nairobi è smentita dall’altrettanto luogo comune della maternità (perché una donna non è donna se non è anche madre). Così, la protagonista leader che, presa dall’esasperazione e contraria al comportamento di Berlino dà avvio al matriarcado, ha anche lei un tallone d’Achille: il figlio di sette anni Axel che vive con una famiglia affidataria per sfuggire alla vita allo sbando della madre spacciatrice. Lo stesso figlio è “l’arma” per colpire l’intera banda nella terza stagione dall’ispettora – chiaro esempio di eccesso di femminismo che si piega alla scorrettezza grammaticale – Alicia Sierra.

La  maternità fa parte anche dell’indomabile poliziotto (o poliziotta?) che, incinta, si trova a negoziare con il Professore al posto della precedente Raquel Murillo (ora alleata della banda perché, ahimè, al potere ha preferito anche lei l’amore). All’insinuazione sul suo abbigliamento premaman da parte del cervello dell’attacco, Alicia è pronta a rispondere “com’è all’antica Professore”, perché classificare una donna in base ai vestiti indossati e al suo stato interessante (è interessante proprio perché la pone in una posizione di inferiorità?) è maschilista.

Gli uomini

Tanto maschilista come i discorsi di Palermo, a inizio della terza stagione, che si lascia andare a sproloqui sul bisogno sessuale maschile e femminile: il primo è esclusivamente fisico, il secondo sentimentale, motivo per cui le donne saranno sempre sottomesse al dominio dell’uomo che se ne serve per il proprio piacere. Un’arroganza che rispetta il topos del maschio alfa, ben presto tradito da quella stessa Nairobi che mostra le fragilità di un Palermo segretamente innamorato di Berlino ed eternamente in balia del proprio dolore.

Perché anche gli uomini soffrono ma non devono darlo a vedere, come Denver che cerca in tutti i modi di evitare che Monica (in “arte” Stoccolma) combatta insieme alla banda, perché ha un figlio e, soprattutto, perché le armi non hanno niente a che fare con le donne. D’altronde lo scriveva anche Ariosto: Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, in un chiasmo letterario che ben chiarisce i settori di appartenenza dei due generi.

Le donne devono amare un uomo o un figlio, gli uomini devono combattere per difenderle. E se poi sono proprio le donne a non voler essere difese, scatta la rivoluzione che porta a rivendicazioni al limite della logica, scomodando addirittura i dizionari e la grammatica.

La domanda, quindi, è una sola: “La Casa di carta 3” avrebbe seguito gli stessi luoghi comuni se non fosse stata preceduta dal #MeToo?

Giulia Di Leo
Giulia Di Leo
Laureata in Lettere moderne, ha frequentato la scuola di giornalismo all’Università Cattolica di Milano e oggi scrive per La Stampa e Zetatielle. Dice di sé: “ Sono una ragazza di provincia nata col sogno di scrivere, amo la mia città, Casale Monferrato, che mi ha insegnato a vivere di semplicità e bellezza, portandomi, poi, ad apprezzare la metropoli milanese che nella maturità mi ha conquistata. Non riesco a vivere senza musica: nata nel ’95, ho vissuto di riflesso gli anni delle musicassette degli 883. Mi nutro di cantautorato, pop, indie e trap per aprirmi al vecchio e al nuovo. Senza mai averne capito il perché, il giornalismo è sempre stato il sogno della vita, amo scrivere e la mia attitudine è raccontare e raccontarmi, con stile razionale e schietto. Il mio più grande desiderio è fare della mia passione un lavoro, avvicinandomi a tutti i mondi che fanno parte di me”.