La celidonia trae il suo nome dal termine greco xelidòn, che significa “rondine”. Il motivo di questo inconsueto apparentamento tra una pianta e un uccello è duplice e, in entrambi i casi, suggestivo e poetico.
L’antica leggenda della rondine
Gli antichi greci erano persuasi che dalle uova di una rondine, che si era affaticata nel suo viaggio di migrazione, fossero nati piccoli ciechi. La povera bestiola, allora, disperata per la sorte dei suoi pulcini, aveva tentato in tutti i modi di curarli. Aveva persino provato a farlo con il lattice di una pianta che prosperava rigogliosa sotto il suo nido. E gli occhietti dei rondinini, bagnati con la linfa di questa misteriosa erba dai fiori gialli, erano guariti all’istante. Persino Plinio riteneva attendibile tale credenza.


L’altra versione di Dioscoride
Dioscoride, al contrario, nel I secolo a. C., considerava questa storia una bella leggenda, ma priva di verità. Secondo lui, la rondine e la celidonia hanno lo stesso nome per un altro motivo. L’erba spunta infatti dal terreno quando arrivano le rondini e secca, a fine stagione, quando questi uccelli partono per lidi più caldi. Come medico, la utilizzava per curare l’itterizia, mettendola a macerare nel vino bianco.
La celidonia, la beniamina degli autori antichi
A dire il vero, nel corso della storia sono stati molteplici gli uomini di scienza che hanno tenuto in particolare stima la celidonia. Godette di grande favore, oltre che presso i già citati greci, anche presso gli egizi e presso i romani. Nella Cina arcaica, la linfa si applicava per eliminare calli e verruche. L’italico Salernus, l’ebreo Helinus e l’arabo Azdala, ossia i presunti fondatori nel IX secolo della Scuola Salernitana, ne erano entusiasti.
Paracelso e i suoi allievi, nel XVI secolo, ne usavano il lattice per curare il fegato, perché aveva lo stesso colore della bile. Jacob Theodor von Bergzabern fu il primo a sostenerne l’utilità per contrastare il cancro, oltre che le febbri putride e le piaghe ulcerose. Olivier de Serre, nel XVII secolo, ne caldeggiava l’impiego per eliminare la rogna, anche qualora fosse stata contratta dai bambini. E, all’inizio del XIX secolo, Thore sosteneva che vincesse persino la stitichezza ostinata.


I nomi irlandesi della celidonia
In Irlanda, la celidonia è presente ma non è tra le specie più diffuse. Le hanno assegnato un nome evocativo, An Gharra Bhuí, che indica la macchia gialla dei suoi fiori in mezzo alla campagna. Il termine buí, infatti, traduce il colore giallo. Molto più prosaici i soprannomi che le hanno affibbiato in lingua inglese, a iniziare da wartflower che significa… fior di verruca! Affini sono killwart e wartweed e indicano il potere di far sparire le verruche che gli irlandesi hanno sempre attribuito a questa pianta. Ciò avviene grazie al suo lattice caustico, che in pratica le cauterizza. C’è anche una cura irlandese per gli indurimenti ghiandolari nelle pecore. Si applica in questo caso un cataplasma di farina di semi di lino, di celidonia e d’aceto di sidro.
Un piccolo ritratto botanico
Non si direbbe, a vederla con i suoi fiori così gialli e brillanti, ma la celidonia appartiene alla famiglia delle Papaveracee. È dunque parente del papavero e ciò si rivela, come vedremo in seguito, nei principi attivi che contiene. È stata catalogata con il nome latino di Chelidonium majus L. È frequente nei terreni gerbidi, lungo i muri, nelle siepi, sia in Europa sia in Asia. La sua altezza varia tra i 30 e i 90 centimetri ed è una pianta eretta e ramificata. I fusti contengono il lattice dal caratteristico colore giallo aranciato. Le foglie sono pennate e assumono una sfumatura azzurra sulla pagina inferiore. I fiori, che sbocciano tra aprile e settembre, sono riuniti in infiorescenze, hanno 4 petali e la corolla raggiunge un diametro massimo di 2 centimetri. I piccoli semi neri, muniti di un’appendice bianca, sono contenuti in silique verdi e sottili.


Principi attivi e impiego fitoterapico
La celidonia è una pianta con un importante contenuto di alcaloidi, cosa che ne consiglia l’uso interno sotto stretto controllo medico. A forti dosi, diventa addirittura un veleno, quindi occorre molta prudenza. Troviamo in essa protopina, sanguinarina, cheleritrina, berberina, sparteina, allocriptopina, resine, fosfati di calcio e magnesio, sostanze coloranti e, soprattutto, la chelidonina. Essa è costituita da alcuni alcaloidi che la rendono un veleno vescicante e che sono simili a quelli dell’oppio (papaverina). Per questo motivo la chelidonina ha azione analgesica, narcotica, antispastica (muscolatura liscia) e calmante del sistema nervoso centrale. L’infuso di celidonia – lo ripetiamo – è da usarsi solo su prescrizione medica, come antispasmodico, ipotensore, purgativo, vermicida, nei disturbi gastrici ed epatici. Studi clinici interessanti, alcuni dei quali condotti nell’allora Unione Sovietica, la ritengono un rimedio per ridurre l’estensione delle masse cancerose (neoplasie gastrointestinali). Secondo Jean Valnet, tuttavia, questa riduzione sarebbe purtroppo momentanea e passeggera.


Un più tranquillo e prudente uso esterno
L’uso esterno del lattice della celidonia è meno problematico e pericoloso. Spezzando il fusto, si applica direttamente su calli, verruche e dermatiti squamose: occorre solo badare che il liquido non sconfini, per non ledere la pelle circostante. Diluito in acqua di rose – il Valnet suggerisce 4 parti di lattice su 100 di acqua di rose – giova contro le oftalmie e le piaghe delle palpebre. Anche il decotto delle foglie essiccate è utile per i bagni oculari. Quasi ad avvalorare l’antica leggenda della rondine saggia, che con la celidonia guarì i suoi rondinini dalla cecità.