Tra babbucce mancanti e piviale porporato, perchè il nuovo Papa ha scelto il nome Leone XIV e cosa ha voluto dire con il suo primo discorso. Editoriale di Tina Rossi
L’annuncio del nuovo Papa, le famose parole Habemus Papam, da atto liturgico si è trasformato in uno spettacolo in mondovisione, con una regìa che sembrava uscita da un reality show. Pause televisive, in pieno stile annuncio premio oscar “the winner is” o da finale di reality. Anche l’affaccio: stesso effetto hipe, davanti a una folla che ancora non si era ripresa dalla sorpresa dell’elezione. In effetti, sono stati molti a rimanere di stucco davanti alla scelta del Conclave, poichè il totopapa girava attorno a tutt’altri candidati.
Ma la questione d’interesse non è solo la teatralità dell’evento, ma la reazione collettiva che ne è seguita: un’ossessione per i dettagli irrilevanti – ad esempio, l’aver parlato in italiano e non in inglese (sfregio a Trump?), oppure l’aver indossato le scarpe al posto delle babbucce (in sfregio a chissà quale atto di ribellione a chissà cosa), che hanno fatto esplodere un complottismo da social network.
Guardare il dito e non vedere la Luna
Invece di ascoltare le parole chiare e dirette, invece di osservare i simboli e i messaggi evidenti e di concentrarsi sul significato storico e teologico dell’elezione papale, ci si perde in particolari. Della serie: guardare il dito e non vedere la Luna.
Un approccio, iperanalitico e superficiale al tempo stesso, che rivela la crisi culturale di una società che non sa più leggere i fenomeni nella loro interezza.
Una perversione squisitamente contemporanea per il dettaglio, per il sotteso, per il “non detto” che nasconderebbe delle grandi verità occulte, è divenuta la nuova forma di interpretazione del mondo. Un complottismo da social network, una radiografia degli eventi da serie TV, come se fosse una puntata di CSI: Vaticano.
La verità è che questa attenzione al microscopico è il sintomo più evidente della decadenza intellettuale e intellettiva della nostra società che non riesce più a vedere il quadro generale perchè troppo impegnata a guardare il particolare.
Lo dice anche la fisica quantistica: la sfocatura è inevitabile. L’uomo non può percepire tutti i parametri di un sistema contemporaneamente. E allora tanto vale concentrarsi su quelli di vero interesse, quelli macroscopici. Tradotto: chi se ne importa delle scarpe.
Perché l’elezione di un nuovo papa è, per la Chiesa cattolica e per il mondo, un evento con implicazioni enormi, culturali, religiose, geopolitiche. E, soprattutto, è un momento in cui si rivelano le intenzioni profonde di una comunità che, da duemila anni, cerca di dare un senso al tempo e alla storia.
Ma davvero pensiamo di cogliere il senso di questa elezione dall’assenza delle babbucce?
Il dress code del potere
Ragioniamo allora su ciò che conta davvero, se di dress code, vogliamo parlare.
Siamo sinceri: se uno sconosciuto venisse incoronato leader spirituale di oltre un miliardo di persone e, nel suo primo minuto, venisse giudicato più per le scarpe che per le parole, forse avrebbe qualche motivo per farsi delle domande sull’umanità. Ma ormai siamo lì. Al punto in cui l’interesse pubblico verso l’elezione del Papa si misura da: “Aveva o non aveva le babbucce?”. “Il piviale era quello di Benedetto XVI, ma il pastorale? È tornato quello di Paolo VI o era una nuova edizione deluxe?”. Analisi da pubblico di Met Gala, versione Vatican Edition.
Eppure, anche qui, se si grattano le banalità da social, e se è vero che l’abito non fa il monaco, è altrettanto vero che anche per il Vaticano ogni dettaglio è comunicazione. Il linguaggio simbolico della Chiesa non è un optional estetico, ma una grammatica potente, capace di parlare, da secoli, anche a chi non conosce il latino né le encicliche.
La scelta dei paramenti papali non è certamente un vezzo da aristocrazia vaticana. È, piuttosto, un chiaro messaggio di una visione: una Chiesa che torna a mostrarsi nella sua solennità, nella sua regalità e nella sua estetica, a partire dai simboli e dai colori.
E qui entra in scena la porpora: non una scelta di stile, ma di sostanza.
Un simbolo forte, non solo per la Chiesa (anche Trump mette la cravatta rossa quando vuole ostentare potere).
Breve cenno storico: la porpora ha una storia lunga e affascinante. Era il colore riservato agli imperatori romani, estratto con fatica estrema da un mollusco raro (la murex brandaris), tanto prezioso che vestirla era un privilegio quasi divino. Non a caso, nel tempo, è diventata il colore del potere, della regalità, della sacralità. La Chiesa l’ha adottata per i cardinali (anche detti “i porporati”) e per i simboli più solenni, per dire che lì si esercita un’autorità non solo terrena, ma anche spirituale.
Papa Leone XIV ha scelto di recuperare questa simbologia? Sicuramente, non per autocelebrarsi, ma, forse, per ribadire esplicitamente l’autorità e l’autorevolezza papale? In un mondo che cerca il sacro nello yoga all’alba e nei cristalli purificanti, la Chiesa risponde con i suoi simboli, con la sua ritualità millenaria, per ricordare che la spiritualità non è solo intimità, ma anche presenza? Non solo cuore, ma anche istituzione e, che, piaccia o meno, simboli e liturgia fanno parte del DNA ecclesiale.
In questo senso, l’abbigliamento del nuovo papa è un messaggio politico, anzi geopolitico. Una Chiesa che si rimette l’abito “di rappresentanza” è una Chiesa che vuole sedersi di nuovo, con autorità, ai tavoli delle grandi trattative internazionali, non solo come voce morale, ma come soggetto attivo.
Così, mentre il mondo guarda la mancanza delle babbucce con l’occhio da meme, il Vaticano vorrebbe comunicarci che il pontificato che inizia vuole essere tutt’altro che dimesso. Non un’ombra gentile, ma una voce autorevole. Non è solo un’estetica: è una semantica.
L’abito fa il monaco, eccome.
Nomen omen: la visione di un pontificato in una parola
Quando si tratta di papi, nulla è lasciato al caso. Nemmeno, anzi soprattutto, il nome che scelgono. Come ha ricordato Dennis Doyle, teologo e docente emerito di studi religiosi all’Università di Dayton, il nome che un papa assume “rivela lo spirito, la direzione e la visione del suo mandato”.
È un biglietto da visita, ma anche un vero manifesto. Un modo per dire al mondo intero da dove parte e dove vuole arrivare.
Storicamente, alcuni nomi hanno tracciato rotte epocali. Leone XIII, pontefice dal 1878 al 1903, scelse quel nome richiamandosi al Leone I detto “Magno”, colui che aveva fermato Attila alle porte di Roma e consolidato l’autorità del papato nel V secolo, senza alzare una spada. Ma Leone XIII non fu solo un nostalgico del passato imperiale della Chiesa, anzi: con la sua Rerum Novarum affrontò, da Capo della Cristianità, per la prima volta, la questione sociale in un mondo che affrontava la modernità: tecnica, industrializzazione e lotte sociali.
Riconobbe l’importanza degli Stati Uniti, richiamandoli alla consapevolezza delle proprie responsabilità di super potenza nascente, comprese che la Chiesa doveva entrare nel dibattito sul lavoro, sulla giustizia, sui diritti. Fu il primo a capire che il futuro della cristianità doveva passare per l’apertura alla modernità, per la questione operaia, per le trasformazioni della società industriale e che la Chiesa avrebbe dovuto inevitabilmente interpretare il cambiamento.
La sua Rerum Novarum fu tanto importante da essere studiata nelle scuole e non fu solo un documento: fu l’inizio di un dialogo tra la Chiesa e il mondo che cambiava. In altre parole: il nome rappresenta una bandiera conservatrice, ma, al contempo, un simbolo di aggiornamento e consapevolezza geopolitica. Come dire: conosci il passato, per capire il presente e agire nel futuro.
E allora, oggi, il nuovo papa che sceglie il nome Leone cosa ci sta dicendo?
(L’articolo continua dopo la foto)


Incontrando i cardinali nell’Aula del Sinodo, Robert Francis Prevost ha dichiarato: “Diverse sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII con la storica Enciclica Rerum Novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale; e oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro“.
Vuole evocare un’epoca in cui la Chiesa era forte, assertiva, riconosciuta come autorità morale e politica? E, allo stesso tempo ci sta dicendo che riconosce l’urgenza per la Chiesa Cristiana di intervenire con più energia in ciò che accade davvero nel mondo: diseguaglianze, conflitti, sfide culturali e morali? Certo è che ha scelto un nome antico per rilanciare un messaggio più che mai contemporaneo. E in questo, forse, ha colto un punto centrale: il bisogno di riconnettere l’Occidente con la coscienza delle sue radici culturali e religiose.
E così, dietro la scelta del nome, non c’è solo uno stile, ma una strategia. Chiunque legga questa elezione con gli occhiali del gossip ecclesiale, delle gaffe e dei dettagli, rischia di perdere il quadro più interessante. Non c’è bisogno di intercettazioni né di babbucce: basta guardare il nome. È lì che il nuovo papa ha messo il suo primo, chiaro messaggio al mondo.
L’eredità di Papa Francesco
Che lo si ami o lo si critichi, Papa Francesco ha lasciato un’impronta che difficilmente potrà essere ignorata. In dodici anni di pontificato, ha operato un cambiamento silenzioso ma profondo, ridisegnando la geografia spirituale della Chiesa. Ha fatto scendere il clero dall’altare, ha tolto l’eco solenne del latinorum, e ha restituito alla fede un volto umano, vicino, quotidiano. Ha promosso un rapporto personale e diretto con Dio, spogliato di formalismi, un Dio che non si riceve solo per sacramento, ma si cerca, si parla, si vive. One-to-one.
Ha trasformato la Chiesa in un “ospedale da campo”, come lui stesso l’ha definita, pronta a curare piaghe più che a giudicare peccati. In questo senso, ha costruito una Chiesa più contemporanea, in grado di dialogare con l’individuo moderno, spesso smarrito, spesso in cerca non tanto di regole, quanto di senso.
Ma non è stato un pontificato di facili aperture, come alcuni vorrebbero far credere. Francesco non ha mai veramente “rivoluzionato” la dottrina. L’ha semplicemente – e intelligentemente – interpretata alla luce del nostro tempo. Ha capito che la Chiesa non può più essere solo dogma e struttura: deve essere narrazione, testimonianza viva, relazione. In questo, ha riportato il cattolicesimo al suo cuore evangelico, senza rinnegarne le fondamenta.
Malgrado ciò, forse, sta proprio lì la sfida che ora si riapre.
Come tenere insieme questa umanità ritrovata con la necessità di riaffermare anche le radici storiche, culturali e sociali del cristianesimo? Perché, se è vero che Francesco ci ha regalato una Chiesa più calda, più personale, più accessibile, è altrettanto vero che in questo percorso si è spesso perso il riferimento forte alla struttura portante dell’edificio. Alle sue basi. Ai suoi mattoni.
Papa Leone XIV, con le sue prime scelte simboliche, vuole raccogliere quell’umanità lasciata in dono e incastonarla dentro una cornice più strutturata, più solida?
Perché nel tempo del politically correct e del relativismo, il cristianesimo rischia di diventare un pezzo da museo nella casa occidentale che lui stesso ha costruito. Francesco ha aperto le finestre ma ora serve anche capire se si vogliono ricostruire i muri – non per escludere, ma per abitare con coerenza. Non per chiudere fuori, ma per tenere dentro. Non per difendersi, ma per esistere con chiarezza. Perché, nel frattempo, l’Occidente è diventato un luogo in cui le fondamenta culturali cristiane sono state messe in soffitta in nome del politically correct, della neutralità ideologica, del relativismo morale.
Una pace disarmata e disarmante
Le sue prime parole sono state “La pace sia con voi“, e di pace, nel suo primo messaggio, Papa Leone XIV ha parlato di “pace disarmata e disarmante, umile e perseverante”, e non è stato solo un esercizio retorico. Un messaggio che, invece, scardina le logiche di forza e diplomazia calcolata a cui ci siamo abituati. Parole che scuotono le fondamenta di un mondo che sembra aver dimenticato cosa significhi davvero cercare la pace. È stato un richiamo urgente a una pace che non si basa solo sul potere delle armi o sulla diplomazia interessata, ma su un impegno costante, umile e radicato nell’amore incondizionato di Dio per tutti gli esseri umani.
La pace disarmata è un messaggio alla nuova Europa guerrafondaia, in pieno piano di riarmo?
La pace disarmante di cui parla non è quella dei trattati o dei compromessi geopolitici. È una costruzione interiore e collettiva, fondata sull’umiltà e sulla dignità di ogni essere umano, radicata in quell’amore incondizionato che Dio ha per tutti – senza asterischi.
In un mondo spaccato da conflitti militari ma anche ideologici, il Papa vuole rilanciare una visione spirituale che sfida sia la cultura della cancellazione sia il relativismo dell’inclusività condizionata?
Non solo una pace “educata” che maschera l’intolleranza sotto il velo della correttezza, ma che, forse, guarda a una pace che accetta la diversità reale, anche quella scomoda, senza pretendere di uniformare tutto in nome del progresso?
La pace, in questa accezione, non è ha più una denotazione fine a una mera assenza di conflitti. Diventa una costruzione quotidiana che, anziché essere imposta, emerge dall’interiorità di ciascun individuo e da ogni società. È una pace che nasce dal riconoscimento della dignità umana, quella che tutti possediamo senza eccezioni.
In un mondo che sembra sempre più segnato da divisioni ideologiche e sociali, letto in questa chiave, diventa un messaggio particolarmente potente. Soprattutto quando, nell’era della cultura woke, della polarizzazione continua e delle lotte ideologiche, la pace viene spesso vista come un concetto elastico, da adattare ai vari contesti o, peggio, da usare come strumento di pressione. La pace che Papa Leone XIV invoca non sarebbe, dunque, solo quella della tolleranza superficiale che afferma di accogliere tutti, ma che, in realtà, aspirerebbe a una società dove ogni differenza sia omologata secondo un’unica visione di pace collettiva e non solo individuale.
Un invito a superare questa paradossale contraddizione: una cultura che predica l’inclusività, come ideologia, escludendo però la sensibilità di tanti. Non quella pace che si sforza di eliminare ogni dissenso a tutti i costi, sacrificando la libertà di pensiero e il dialogo ma, piuttosto, una pace che nasca dalla consapevolezza del rispetto reciproco, dalla volontà di confrontarsi senza pregiudizi, e soprattutto senza la presunzione di essere superiori all’altro. Una pace disarmata, dunque, che ci invita a disarmare le nostre paure, i nostri pregiudizi, le nostre istintive reazioni violente, sia nelle guerre internazionali che nei conflitti sociali quotidiani.
Sono un figlio di Sant’Agostino, che ha detto: “sono con voi un Cristiano e per voi Vescovo”
Se Sant’Agostino era un pensatore che cercava di rispondere ai grandi interrogativi della sua epoca, il Papa di oggi, con il suo richiamo al pensiero agostiniano, sembra invitare la Chiesa a tornare a riflettere in modo profondo e autentico sulla sua missione nel mondo contemporaneo, camminando mano nella mano con i fedeli. In un’epoca segnata da individualismi crescenti, da divisioni sociali e politiche, e da un’instabilità globale, il Papa ci esorta a ritrovare la capacità di essere una comunità di fede che non si limita a custodire il proprio orto, ma che si fa carico delle ferite del mondo.
Il messaggio del Papa, evocando Sant’Agostino, ci dice che la Chiesa di oggi, proprio come quella di Agostino, deve essere una Chiesa che non si rifiuta di confrontarsi con le sfide del tempo, ma che lo fa con l’umiltà di chi sa che il cammino cristiano è sempre in trasformazione. La Chiesa non deve rispondere a logiche di potere, ma alle necessità spirituali ed esistenziali degli uomini, con la saggezza che proviene dalla riflessione, dall’ascolto e dal servizio, continuando con tenacia la sua opera missionaria. E fin qui, tutto facile, poichè si parla di individui.
Ma quale sarà la sua posizione sul concetto attuale di “famiglia”?
La famiglia tradizionale, come è stata intesa per secoli, non è più la sola configurazione sociale accettata o praticata. Le nuove dinamiche sociali hanno anche portato alla nascita di nuove famiglie, che escono dallo schema tradizionale: famiglie di genitori separati o divorziati, famiglie monogenitoriali, famiglie arcobaleno.
Papa Leone XIV ha detto “chiedo a tutti voi fratelli e sorelle di tutto il mondo, vogliamo essere una Chiesa sinodale“, che nel suo significato più alto significa una Chiesa che vuole assumere sempre di più nel modo in cui le comunità cristiane si organizzano e si rapportano ai contesti sociali di cui fanno parte.
La domanda è: come può la Chiesa, che storicamente ha promosso il matrimonio come un sacramento indissolubile, rispondere a chi, non riesce più a vivere nella stessa configurazione cattolica del termine “famiglia”? Papa Leone XIV avrà un’attenzione pastorale che riconosca il valore e la dignità di ogni persona, indipendentemente dalla sua condizione familiare o affettiva? In questo senso, il Papa, con il suo riferimento ad Agostino, sta forse invitando la Chiesa a un impegno di ascolto e comprensione verso chi vive situazioni difficili o fuori dalle norme tradizionali, senza giudicare ma cercando di accompagnare, come un pastore che guida le sue pecore anche nei sentieri più tortuosi?
Cosa significa essere una Chiesa missionaria nel nuovo Millennio?
Nel suo primo discorso al mondo, il nuovo Pontefice ha parlato anche di “Chiesa Missionaria”. “Dobbiamo cercare di essere insieme come essere una chiesa missionaria, e una Chiesa che costruisce ponti e dialogo, sempre aperta a ricevere tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, della nostra presenza, dialogo e amore“. Missionaria in che senso?
È ancora evangelizzazione, e se sì, verso chi? Verso chi ha dimenticato il Vangelo, o verso chi non lo ha mai conosciuto? E con quali parole, con quali gesti? È una missione che si fa presenza nei luoghi di guerra, nei conflitti che il mondo non riesce più a decifrare? La Chiesa può ancora essere un soggetto politico, nel senso più alto, come custode e mediatrice di un pensiero di pace, esercitando ancora il suo potere temporale?
Oppure la sua missione è soprattutto culturale, riportare al centro una visione dell’uomo, della vita, della comunità, che l’Occidente ha accantonato? E ancora: può la Chiesa parlare davvero a tutti senza rinunciare a ciò che è? Si può annunciare senza semplificare? Testimoniare senza adattare tutto? Restare universali in un contesto culturale e sociale composto da diverse contaminazioni religiose? E se questa missione non fosse espansione, ma profondità? Non conquista, ma ritorno? A cosa allude Papa Leone XIV?
Un papa per l’Occidente
Hanno scelto l’Occidente. Chiamiamolo col suo nome, senza giri di parole. Dietro la fumata bianca, oltre il volto emozionato affacciato dalla Loggia e le immancabili lacrime dei fedeli in piazza, c’è una decisione lucida, ponderata, politica: questo papa è un pontefice per l’Occidente. Un uomo che, per nome e impostazione, parla alla parte di mondo che più di tutte oggi sembra essersi dimenticata di avere un’anima.
E qui torniamo a quel nome: Leone. Non è un caso. Non è un capriccio. È un segnale preciso.
Ma c’è di più. Il nuovo Papa guarda oltreoceano. E non per caso. Il legame con l’America non è più solo un fatto logistico o demografico – dove vive gran parte dei cattolici del mondo – ma diventa una scelta di campo. L’America, con tutte le sue luci e ombre, è oggi il pilastro centrale dell’Occidente. È il luogo in cui si combattono le grandi guerre culturali, il teatro in cui, da sempre, si scontrano libertà e identità, religione e scienza, comunità e individualismo e che l’Europa ha importato con la Coca Cola e il Mc Donald’s. E il Vaticano ha deciso di entrare in scena, non più solo come osservatore, ma come regista.
La scelta di un papa che richiama Leone XIII è anche un modo per dire all’America “abbiamo già parlato in passato, torniamo a parlarci ora”?
Ricordiamoci che proprio Leone XIII, nel 1895, scrisse agli Stati Uniti una lettera – l’enciclica Longinqua Oceani – in cui riconosceva il ruolo emergente della giovane potenza mondiale, ma anche i rischi insiti nella sua visione iperliberale della religione come fatto solo privato. Un invito, non una critica. Un richiamo alla responsabilità. E oggi, con una guerra culturale in corso che attraversa le università, i social, i governi, la Chiesa si ripresenta sulla scena per dire che esite e che vuole contare.
Smettiamola, allora, di concentrarci sulle babbucce mancanti. Perché il vero dettaglio rivelatore è questo: hanno scelto un papa che guarda in faccia il cuore dell’Occidente e gli chiede conto. Un papa che – nonostante la sobrietà del suo tono – si presenta come figura forte, dotata di una visione precisa. Non per chiudere i ponti, ma per ricostruirli dove si stanno sgretolando. Un papa che non parla in inglese, magari, ma che ha deciso di parlare all’ Oriente e all’Occidente, al sud e al nord del mondo. Forse, anzi, spero, sia l’inizio di un dialogo vero che, oggi, passa per il coraggio di dire che, allo stato attuale dei fatti, con un integralismo ossessivo che impera nell’altro emisfero – e non mi riferisco solo all’islam – la Chiesa Cristiana rischia davvero di diventare una minoranza.
Ultima, ma importante precisazione: smettiamola di dire che è il primo papa americano. Questo è il secondo, perchè l’Argentina non è un continente a sé, ma fa parte dell’America. Del sud, ma pur sempre America. Per cui, volendo essere precisi, è il secondo papa americano e il primo papa “USA” – statunitense – a stelle e strisce.
Giusto per amor di verità.
Ringrazio la mia storica compagna di scuola Monica Tuninetto per le foto dell’Enciclica Rerum Novarum
Foto copertina da wikimedia commons: file rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale
Per chi se lo fosse perso o volesse rivederlo, ecco il primo discorso di Papa Leone XIV
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