Ravenna, due anni dopo le alluvioni: cosa è cambiato? Come si affrontano crisi e trasformazioni? Qual è il futuro del territorio?
Due anni non sono bastati a cancellare le immagini che hanno fatto il giro del Paese: campagne sommerse, strade trasformate in fiumi, comunità costrette a lasciare le proprie case. L’alluvione che ha colpito la Romagna nel 2023 ha lasciato un segno profondo. A Ravenna, in particolare, la memoria dell’acqua si mescola ancora oggi alla quotidianità, tra cantieri aperti e fragilità che resistono.
Ma insieme alle crepe nelle infrastrutture, sono emerse anche quelle, meno visibili ma altrettanto serie, nel tessuto sociale ed economico. Il primo Rapporto realizzato dalla Cassa di Ravenna in collaborazione con il Censis – “Ravenna. Ripartire dal territorio” – offre uno spaccato preciso, fatto di numeri e narrazioni, per capire dove siamo e dove si può andare.
Territorio fragile, clima instabile
Non è solo una questione di piogge abbondanti. Oggi il rischio idraulico in provincia di Ravenna ha un volto strutturale, amplificato dal cambiamento climatico. Quasi un quarto del territorio è classificato come ad alta pericolosità idraulica, ma in alcuni comuni – come Conselice e Alfonsine – la quota supera il 45%. I dati raccontano un suolo saturo, urbanizzato in fretta e spesso in modo incoerente: il consumo di suolo è al 10,3%, ben oltre la media regionale e nazionale.
Nel frattempo le temperature salgono: +1,2°C in media nel 2024 rispetto al periodo 2001-2020, con punte ancora più alte lungo la costa. Le piogge, sempre più concentrate in eventi estremi, trovano un terreno che non riesce più ad assorbire. E quando l’acqua non penetra, si accumula, si riversa, travolge. È successo nel 2023, di nuovo nel 2024, e con ogni probabilità accadrà ancora.
Un’economia che fatica a tenere il passo
La Romagna non è nuova alle crisi, ma stavolta la tenuta del sistema economico è messa alla prova. In dieci anni le imprese attive nella provincia di Ravenna sono diminuite di quasi il 10%, una flessione più marcata della media regionale e nazionale. Colpiti duramente settori cruciali come agricoltura, commercio, trasporti.
Il quadro si complica con la dimensione media delle aziende che spesso rende difficile assorbire gli urti. Le alluvioni sono arrivate in un momento già delicato, accelerando un processo di trasformazione non sempre accompagnato da strumenti adeguati. Le realtà più piccole, meno strutturate, sono quelle che oggi rischiano di rimanere indietro.
La risposta c’è stata, ma non è bastata
Davanti all’acqua, la Romagna ha risposto con uno slancio che ha fatto scuola. Volontari, amministrazioni, forze dell’ordine, Protezione Civile: la macchina si è mossa, e in molti casi ha funzionato. Dove il tessuto sociale era solido e i legami già stretti, si è vista un’efficacia notevole.
Ma non tutto il territorio ha potuto contare sugli stessi strumenti. In alcune aree più isolate, con meno risorse e connessioni deboli, gli interventi sono arrivati tardi, o non sono arrivati affatto. La fragilità sociale ha finito per intrecciarsi a quella ambientale, creando un circolo vizioso difficile da spezzare.
Le alluvioni non hanno creato da sole le difficoltà che oggi affronta Ravenna. Piuttosto, hanno amplificato squilibri già in corso: la perdita di peso del sistema produttivo tradizionale, l’abbandono delle aree collinari, le disuguaglianze crescenti. Anche le misure di ristoro, pur necessarie, hanno mostrato limiti importanti: lente, spesso pensate su scala troppo ampia, inadatte a cogliere la realtà minuta delle micro-imprese o delle famiglie in zone non centrali.
Il peso delle fragilità pregresse
Il maltempo ha avuto l’effetto di una lente d’ingrandimento. Non ha generato dal nulla i problemi del territorio, ma li ha resi più evidenti, più acuti. L’alluvione ha accelerato dinamiche già in atto da tempo: la lenta erosione del tessuto produttivo tradizionale, la fuga dalle aree interne e collinari, il crescente divario tra chi ha strumenti per affrontare il cambiamento e chi ne subisce solo le conseguenze.
In molte zone, la crisi ha semplicemente spostato in superficie ciò che covava da anni: un’economia locale fatta di piccole imprese spesso poco digitalizzate, poco connesse ai mercati globali, con margini ristretti e capacità limitate di investimento. A ciò si aggiungono problemi strutturali come la carenza di servizi in alcuni comuni periferici, la difficoltà di attrarre giovani, l’invecchiamento demografico.
Anche gli strumenti di supporto, pensati per tamponare l’emergenza, hanno mostrato fin da subito crepe importanti. Le misure di ristoro economico, pur fondamentali, sono apparse lente nei tempi di attuazione, troppo rigide nei criteri, e spesso scollegate dalle reali esigenze delle micro-realtà del territorio. Le famiglie senza voce e le imprese non strutturate, quelle che operano al margine, ma che fanno comunità, hanno faticato più di altre a ottenere risposte.
E così l’alluvione non è stata solo un evento traumatico, ma un punto di rottura: ha diviso chi poteva reagire e chi no, chi aveva già una rete di protezione e chi si è trovato improvvisamente esposto. Comprendere queste fratture non significa limitarci al racconto dell’emergenza, ma iniziare a ricostruire su basi più eque.
Verso un nuovo patto con il territorio
Il Rapporto evidenzia tre livelli su cui leggere la fase attuale e, soprattutto, ciò che verrà.
Il primo è quello economico: in provincia di Ravenna si intravedono segnali di transizione verso settori legati alla conoscenza, ai servizi alla persona, alla cura. Ma non si tratta di una trasformazione uniforme. Il rischio è che interi pezzi del tessuto produttivo tradizionale, già in difficoltà, restino esclusi da questa evoluzione. Le microimprese, che costituiscono la spina dorsale economica di molte aree, faticano ad adattarsi e a cogliere nuove opportunità.
Il secondo piano è quello sociale. La risposta della cittadinanza all’emergenza è stata forte, generosa, organizzata. La capacità delle reti civiche di mobilitarsi ha rappresentato una risorsa fondamentale. Ma anche qui emergono differenze: dove il tessuto relazionale era già solido, la risposta è stata più efficace. Altrove, le fragilità preesistenti si sono aggravate. Il rischio è che la partecipazione civica, per quanto vitale, non basti a colmare le disuguaglianze strutturali che l’alluvione ha portato in superficie.
Infine, c’è la dimensione politico-istituzionale. Il territorio ha dimostrato una buona capacità di coordinamento tra enti, amministrazioni locali, società civile. Ma oggi serve di più. Serve un cambio di passo che vada oltre la gestione dell’emergenza. Una nuova stagione, non solo di investimenti economici, ma di visione.
È necessario ripensare il rapporto con il territorio, mettendo al centro la cura come criterio trasversale. Cura intesa non solo come riparazione, ma come orientamento delle politiche pubbliche. Le scelte infrastrutturali devono incorporare la questione climatica, la sicurezza non può più limitarsi alla protezione da eventi estremi, ma diventare capacità di costruire contesti abitabili, giusti, sostenibili.
Foto copertina di Rafael Urdaneta Rojas da Pixabay
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