Tolo Tolo di Checco Zalone: capolavoro o flop clamoroso?

A pochi giorni dall’uscita è già record di incassi per Tolo Tolo, il nuovo film di Checco Zalone, ma la critica è perplessa.

Checco Zalone probabilmente ama l’Africa in una maniera viscerale, ed ama in maniera altrettanto passionale il proprio paese, sia nei pregi (pochi), che nei difetti (tanti).

Non si spiega altrimenti l’ambientazione del nuovo film, come già in parte accaduto per  “Quo vado”, tre anni fa.

Stavolta però, Luca Medici, ci porta nell’Africa povera, poverissima, quella dove per sopravvivere devi per forza lavorare in un resort, con una paga mensile che qui da noi, serve giusto per comprare due pacchetti di Marlboro. L’Africa soggetta a faide e colpi di stato, che, quando esplodono, ti lasciano un unico miraggio, assai caro e pericoloso: il grande viaggio, ovvero,  la fuga verso una vita migliore.

Mollo tutto

“Tolo Tolo” ricorda fin dalle prime battute, una pellicola del 1995, diretta da Jose Maria Sanchez, ovvero “Mollo tutto”, protagonisti Renato Pozzetto e Barbara D’Urso (si, proprio lei).

Entrambi i protagonisti si ritrovano con le pezze al culo, inseguiti da creditori e strozzini, entrambi stracciano il passaporto (la scena girata da Zalone è presso che uguale a quella del film del regista spagnolo), entrambi scappano in Africa, dove, con l’aiuto di un bambino, torneranno in patria.

Gli sviluppi delle due pellicole saranno poi diversi, ma la forma e la sostanza restano uguali: i debiti, la fuga, il bambino e l’Africa.

Si sa, fin dai tempi di Ladri di biciclette”, capolavoro di Vittorio De Sica, e “Il ferroviere”, pietra miliare di Pietro Germi, i bambini, sul grande schermo, e non solo, provocano emozione e commozione. Anche in questo caso è così.

Tolo Tolo

Rispetto a “Mollo tutto”, la comicità surreale di Renato Pozzetto, è sostituita da quella pecoreccia di Checco Zalone, anche se in “Tolo tolo”, si ride poco, e male.

O per lo meno si ride, dove si è già riso, cioè per (quasi) le stesse battute, già sentite nei precedenti film.

Qualcosa di geniale c’è: ad esempio la scena del riconoscimento del cadavere, protagonista un quasi irriconoscibile Nicola Di Bari, e quella al mercato africano, dove Checco spiega al piccolo Doudou la filosofia della contraffazione. Ma sono episodi: il film, nato probabilmente con nobili propositi non decolla, presenta paurosi buchi nella sceneggiatura, e ricorre a troppe parti cantate, tanto da farlo sembrare un “musicarello” anni ’60.

Senza contare che “Italia”, intesa come canzone, forse era più adatta a “Quo vado”: da Al Bano & Romina a Mino Reitano, è un attimo.

Infine, si poteva evitare tranquillamente “il passo di Esculapio” di “sordiana” memoria, come anche l’abbigliamento copiato paro paro da “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”. Un richiamo voluto? Dettagli, probabilmente, ma fondamentali per la valutazione del film.

L’assenza di Gennaro Nunziante, dietro la cinepresa nelle precedenti pellicole, si sente e soprattutto si vede: in questa occasione, i tempi comici a cui eravamo abituati, sono completamente stravolti, e la regia di Checco Zalone, all’esordio, è caotica, pasticciona, anche se dirompente.

Record d’incassi ma i conti non tornano

Il buon Luca Medici, dopo un crescendo pazzesco e inarrestabile con le precedenti pellicole, poteva tranquillamente, e in scioltezza, regalarci un’altra commedia leggera leggera e rassicurante.

Sicuramente il record di incassi è dovuto alla curiosità del pubblico, che, memore dei precedenti film, si è recato in massa al cinema. Il film però non merita tale affluenza. Deludente rispetto alla pellicola precedente, meno graffiante e molto banale. Certamente è stato mal interpretato il trailer, che ha dato adito a critiche ingiuste che accusano Zalone di razzismo. Il film esprime esattamente il contrario, ma se lo scopo del film era quello di fare un’opera omnia sul “viaggio della vita” e sensibilizzare le coscienze sulle criticità dell’immigrazione africana, il risultato è mediocre. Apprezzabile lo sforzo per riuscire, ma si poteva fare meglio.

L’artista pugliese ha fatto la scelta più difficile: l’impegno mischiato con la comicità, ma non essendo Alberto Sordi o Nino Manfredi, ci riesce solo in parte.

Peccato: un’occasione persa, ma ci sarà tempo per rifarsi.

Lele Boccardo
Lele Boccardo
(a.k.a. Giovanni Delbosco) Direttore Responsabile. Critico musicale, opinionista sportivo, pioniere delle radio “libere” torinesi. Autore del romanzo “Un futuro da scrivere insieme” e del thriller “Il rullante insanguinato”. Dice di sè: “Il mio cuore batte a tempo di musica, ma non è un battito normale, è un battito animale. Stare seduto dietro una Ludwig, o in sella alla mia Harley Davidson, non fa differenza, l’importante è che ci sia del ritmo: una cassa, dei piatti, un rullante o un bicilindrico, per me sono la stessa cosa. Un martello pneumatico in quattro: i tempi di un motore che diventano un beat costante. Naturalmente a tinte granata”.