Giornalista o giornalaio? Il macabro (dis)gusto della notizia

Negli ultimi anni il panorama dell’informazione italiana ha visto un crescente ricorso al sensazionalismo. Le notizie di cronaca nera, spesso intrise di dettagli macabri, sono diventate protagoniste dell’apertura dei telegiornali. Questa scelta editoriale non è casuale: sfrutta le emozioni forti per catturare l’attenzione dello spettatore. La cronaca nera, con il suo carico di tragedie e misteri, è vista come una calamìta per l’audience. E a proposito di calamità (questa volta con l’accento sulla a), nel calderone del sensazionalismo sono comprese anche tutte le notizie che riguardano il meteo, dalla prima neve che imbianca le città, alle fontane assolate dell’estate, passando per le alluvioni e i disastri metereologici.

Non importa se il fatto sia marginale o se il contesto venga distorto, l’obiettivo è scuotere lo spettatore, spingendolo a non cambiare canale.

In questo scenario, il valore di una notizia si misura sempre più sulla sua capacità di provocare una reazione immediata e viscerale. Una sparatoria in periferia, un femminicidio o un dramma familiare diventano il primo piatto di un menu quotidiano che punta tutto sulla spettacolarità, per di più, servito per l’ora di pranzo o di cena. Ma cosa accade quando il contenuto viene svuotato del suo significato originale? Il rischio è che il pubblico diventi insensibile, assuefatto a una narrazione che privilegia il sensazionale a scapito della riflessione, e continui a mangiare indifferente.

Il caso Bove e il peso della distorsione

La recente vicenda del calciatore Alessandro Bove della Fiorentina, offre un esempio lampante di questo fenomeno. L’episodio, inizialmente lodato come un gesto di straordinario coraggio e solidarietà – il salvataggio di un uomo in pericolo – è stato rapidamente assorbito nella macchina del sensazionalismo mediatico. Invece di concentrarsi sull’atto eroico e sull’importanza di un esempio positivo, le testate hanno puntato i riflettori sui dettagli più cruenti e sulle ipotetiche conseguenze tragiche.

Così, il valore umano e morale della notizia è stato relegato in secondo piano, soffocato dalla cacofonia di ricostruzioni drammatiche e speculazioni non sempre fondate. Questa tendenza dimostra come il giornalismo, quando abdica al proprio dovere di informare, si trasformi in un’industria della deformazione. È un cortocircuito che alimenta la sfiducia del pubblico e ne impoverisce la consapevolezza.

Giornalismo o intrattenimento?

Il confine tra giornalismo e intrattenimento è sempre più labile. Trasmissioni che si autodefiniscono “di approfondimento” spesso si riducono a spettacoli costruiti per catturare l’attenzione con musiche drammatiche, ritmi serrati e toni esasperati. La scelta degli ospiti non tiene conto della loro competenza in materia, ma della loro capacità di accendere il dibattito, trasformando ogni questione in un ring mediatico.

Questa spettacolarizzazione ha un costo: svuota di senso il dibattito pubblico, riducendo temi complessi a slogan e sensazioni. Quando l’obiettivo principale è mantenere alto il livello di tensione emotiva, si sacrifica la profondità dell’analisi. E in un mondo dove l’informazione si confonde con l’intrattenimento, il rischio è che il giornalismo rigoroso venga percepito come noioso e irrilevante.

La spettacolarizzazione della morte

Uno degli esempi più evidenti di questa deriva è la spettacolarizzazione della morte. Da più di due anni siamo sommersi da immagini e video delle tragedie che succedono a Gaza e in Ucraina. Immagini forti che ci arrivano da ogni parte, TV e social. I telegiornali fanno a gara per mandare in onda il servizio più scabroso che riporti le scene più cruente delle vittime colpite dai bombardamenti. Ormai siamo assuefatti e anche la tanto martoriata Ucraina non fa più sobbalzare dalla sedia neanche i cristiani più radicali.

Servizi giornalistici che si soffermano su dettagli morbosi, testimonianze strazianti e ricostruzioni grafiche non sono più un’eccezione, ma la regola. Vengono presentati come un “dovere di cronaca”, ma il loro vero scopo è catturare l’audience attraverso il voyeurismo.

Lo dimostra il fatto che sempre più spesso i TG utilizzino servizi di bombardamenti e scene di guerra tratte da vecchi servizi del ventennio passato o addirittura da film, per poi essere sputtanati (concedetemi, ci sta) dagli attenti media monitoring di Striscia la Notizia o da utenti più scaltri che utilizzano i social.

Questa strategia ha conseguenze gravi. Non solo banalizza la tragedia umana, trasformandola in un prodotto da consumare, ma mina anche la credibilità del giornalismo. Quando il dolore viene mercificato, non si può fare a meno di chiedersi se ciò che vediamo è stato manipolato per aumentare lo share. È una dinamica pericolosa che rischia di erodere il rapporto di fiducia tra media e spettatori.

Responsabilità del pubblico

La responsabilità del pubblico in questa dinamica non può essere ignorata. La domanda guida l’offerta, e il successo dei contenuti sensazionalistici è la prova che il pubblico cerca – e consuma – emozioni forti. Gli spettatori cliccano sui video con avvertenze come “Attenzione, immagini forti” e condividono servizi che puntano tutto sulla drammaticità.

Ma il pubblico non è un’entità passiva. Educare le persone a riconoscere e premiare l’informazione di qualità richiede uno sforzo collettivo. Se gli spettatori smettessero di premiare il sensazionalismo, le emittenti sarebbero costrette a cambiare strategia. Tuttavia, questa trasformazione implica un cambiamento culturale profondo, che richiede tempo, strumenti educativi e una maggiore consapevolezza critica.

Il ruolo delle istituzioni e degli editori

Le istituzioni e gli editori hanno un ruolo cruciale nel contrastare il sensazionalismo. È necessario stabilire regole chiare per impedire che la ricerca dello scoop diventi un alibi per violare la deontologia giornalistica. Gli editori dovrebbero investire in risorse e formazione, garantendo ai giornalisti gli strumenti per operare con indipendenza e professionalità.

Anche il legislatore potrebbe intervenire, senza minare la libertà di stampa, per arginare le derive più dannose. Normative più rigorose sulla privacy, ad esempio, potrebbero proteggere le vittime di tragedie dal rischio di una sovraesposizione mediatica. L’imposizione ai media di entrare in silenzio stampa per il caso Cecilia Sala fa scuola.

Infine, non di minore importanza è la responsabilità dei media sull’impatto psicologico e sociologico che queste scelte editoriali hanno sulle menti più sensibili e influenzabili. Il rischio è la normalizzazione di certi comportamenti e l’emulazione. Esempio scioccante: il caso dell’omicidio di Giulia Cecchettin e lo sconvolgente sostegno sui social al suo assassino Filippo Turetta.

Dal pozzo artesiano ai social network

Il sensazionalismo non è un fenomeno recente. Il punto di svolta nel giornalismo italiano può essere individuato nel giugno del 1981, quando Emilio Fede decise di trasmettere in diretta ad oltranza le operazioni di salvataggio di Alfredino Rampi, un bambino caduto in un pozzo a Vermicino. Quella diretta televisiva segnò l’inizio di un nuovo paradigma: il dolore in tempo reale come attrazione per il pubblico.

Oggi, lo stesso schema si ripete sui social network, dove la viralità di un contenuto è spesso proporzionale alla sua drammaticità. TikTok, Instagram e altre piattaforme amplificano questo fenomeno, trasformando ogni utente in un potenziale produttore e consumatore di contenuti sensazionalistici. La morte, il dolore e la tragedia diventano elementi di uno spettacolo globale, facilmente fruibile e altrettanto rapidamente dimenticabile.

Ripensare il giornalismo

Se il giornalismo vuole recuperare la sua credibilità e il suo ruolo centrale nella società, deve ripensare le sue priorità. L’informazione non può essere ridotta a un prodotto commerciale. Deve tornare a essere uno strumento per comprendere il mondo, non per manipolarlo. Questo significa riscoprire l’etica professionale, promuovere la trasparenza e resistere alla tentazione di seguire la strada più facile.

Il futuro del giornalismo non dipende solo dai professionisti del settore, ma anche dagli editori, dalle istituzioni e, soprattutto, dal pubblico. Solo attraverso un’azione collettiva sarà possibile rompere il circolo vizioso che alimenta il macabro (dis)gusto della notizia.

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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”