To beat or not to beat…

La mente ritorna ai fatidici anni ’50/’60 perchè nel mondo ed in Italia c’è stata una rivoluzione della musica. Non voglio fare una cronistoria del tempo passato, voglio cercare di capire se forse sono veramente l’ultimo “Higlander” come mi auto definisco, oppure se c’è ancora spazio per quei valori artistici e musicali che hanno caratterizzato la mia generazione.

Raccontare la storia della musica e dei testi che hanno rivoluzionato il panorama musicale mondiale, sarebbe un lavoro enorme, oltretutto sarei un pò di parte.

E’ doveroso ricordare che tutto nasce nei quartieri poveri delle piccole città americane, dai canti nelle chiese delle minoranze di colore, dove la musica nasce spontaneamente come risposta alle difficoltà e alla segregazione. Il Gospel ed il Blues riflettono le esperienze di vita delle comunità afro americane.

Dei due stili musicali, quello che ha maggiormente influenzato la musica, è il Blues, le cui radici sono proprio da ricercare tra i canti delle comunità degli schiavi afroamericani, che lavoravano nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti d’America.

Blues e Rock Roll

A partire dagli anni’60 il blues attraversa l’Atlantico e arriva in Europa, soprattutto in Inghilterra. I giovani musicisti britannici restano affascinati dal blues, vedendolo come un opportunità per esprimere un suono diverso da quello tradizionale. In questo contesto si formano alcune delle band iconiche della storia come i Beatles, i Kinks e gli Small Faces. I quattro baronetti di Liverpool sono i primi a capire il potenziale di questa musica.

Dalla fusione del Blues e del Rock e Roll nasce il Beat: ritmo piu’ leggero e orecchiabile, che genera non solo un nuovo stile, ma un vero e proprio movimento musicale.

L’era dei figli dei fiori

Per chi come me ha l’età per ricordarselo, gli anni settanta sono stati caratterizzati da un movimento giovanile che ha fatto storia. Quelli erano gli anni della guerra in Vietnam, che i giovani americani dovevano affrontare senza condividerne le ragioni. La musica e in particolare il beat, diventa il miglior veicolo di comunicazione per un messaggio chiaro, semplice e immediato: “peace and love”. Questo sarà l’inno di quella generazione che ancora oggi ricordiamo come “hippie”, e “figli dei fiori”.

Giovani di tutto il mondo che trovano nella musica beat un mezzo per esprimere gli ideali di pace, amore, libertà, non-violenza e spiritualità, concetti che trascendono i confini nazionali e sociali.

Cantautori come Arlo GuthrieBob Dylan, giusto per fare due nomi, parlavano un linguaggio universale fatto di pacifismo e amore e, con le loro canzoni, hanno dato modo ai giovani di creare un fronte di protesta senza violenza alle guerre non desiderate.

Gli Hippie volevano vivere di pace, predicavano amore libero, creando delle “comuni” dove tutto veniva diviso, dove vivevano intere famiglie allargate con figli. In pratica rifiutavano tutto ciò che era consumismo, e il beat era la colonna sonora di quella generazione.

Il beat in Italia

La guerra del Vietnam non riguardava il nostro paese, tuttavia anche l’Italia ha risentito parecchio di quel movimento giovanile e musicale.

L’offerta artistica e canora nazionale era fatta di canzoni melodiche, la moda era sobria e rispettava i canoni tradizionali degli anni sessanta: giacca e cravatta per i signori, gonne lunghe sotto ginocchio per le signore. Il beat stravolge le regole e cambia per sempre il nostro modo di essere giovani.

I giovani dovevano affrontare il moralismo rigido e bigotto delle generazioni passate. Un esempio significativo è il pregiudizio legato ai capelli lunghi: bastava portarli così per essere considerati ragazzi di strada o delinquenti.

Nascono le band, o meglio, i “complessi”, che sfruttando l’esempio musicale americano ed inglese, coverizzano tutto quello che si ascoltava tramite emittenti radiofoniche straniere, come Radio Luxembourg o Radio Londra, salvaguardando fedelmente la musica originale, ma traducendo, o meglio, stravolgendo, spesso e volentieri, il testo originale.

Uno dei precursori, uno di queli che ha portato il beat in Italia, è stato Riky Maiocchi.

Swinging London

Riky era avanti nel tempo rispetto ad altri suoi colleghi: è stato il primo che, frequentando i ritrovi della Swinging London, ha conosciuto personaggi del mondo artistico e culturale dell’epoca, tra cui un certo Jimi Hendrix.

È proprio grazie a Hendrix che Riki entra in contatto con Marianne Faithfull, allora compagna di Mick Jagger (il leader dei Rolling stones), con cui partecipa al Festival di Sanremo del 1967 con “C’è chi spera”, nell’edizione segnata dal tragico suicidio di Luigi Tenco.

Maiocchi aveva in mente di fondare una band, anzi un “complesso” e riusce a convincere Ritchie Blackmore, niente meno, a seguirlo in italia per il suo progetto, e così nascono The Trip. Ritchie, però, poco tempo dopo, torna in Inghilterra e fonda i Deep Purple.

E Riky? Dopo l’esperienza dei Trip, insieme ad alcuni amici, fonda i Camaleonti, ancora oggi una bandiera della musica italiana. Ma, vista la sua sete in cose nuove, lascia anche il complesso, per avviare una carriera solista.

I cantautori e le band

Molte band italiane in quel periodo hanno avuto successo grazie alle cover di brani internazionali. Tra queste spiccano l’Equipe 84, i Dik Dik, i Camaleonti, e, a proposito dei ragazzi di strada, i Corvi.

Questi “complessi”, regalano al pubblico canzoni diventate iconiche come “Tutta mia la città“, versione italiana di “Blackberry way” dei Move, “Senza luce” cover di “A whiter shade of pale” dei Procol Harum, “L’ora dell’amore” originariamente “Homburg” sempre dei Procol Harum e “Un ragazzo di strada” versione italiana di “I Ain’t No Miracle Worker” dei Brogues.

Ma non solo: anche i Giganti e i Rokes, definiti “la risposta italiana ai Beatles” si ritagliano un ruolo importante nella discografia di quel periodo.

Generazioni Z e Alpha

La musica degli anni ’60 e quella contemporanea rappresentano due mondi profondamente diversi, separati da contesti culturali, economici e tecnologici. La trasformazione non riguarda solo lo stile musicale, ma anche il modo in cui i musicisti si affacciano alla scena e costruiscono la loro carriera.

La “gavetta” era un passaggio obbligatorio. I musicisti si esibivano nei locali, nelle piazze, o in piccoli eventi, affinando il loro talento sul campo. Questi luoghi erano anche laboratori creativi, dove l’interazione con il pubblico diventava una palestra naturale per sviluppare carisma e capacità comunicative. Era un percorso lento, fatto di sacrifici, ma anche di autenticità. Ogni successo conquistato aveva il sapore di una lotta vinta.

Inoltre, i musicisti avevano un legame diretto con i temi del loro tempo: la pace, i diritti civili e l’amore universale. La loro musica era un veicolo di messaggi che risuonavano profondamente con i movimenti sociali e le lotte collettive.

Oggi il panorama musicale è radicalmente diverso. I musicisti contemporanei vivono in un’epoca dominata dai social media e dalla cultura dell’immediatezza. Gli artisti non devono più percorrere lunghi anni di gavetta nei locali; i talent show televisivi offrono una piattaforma immediata per la visibilità. Programmi come X Factor o Amici creano star nel giro di settimane, offrendo una vetrina nazionale e persino internazionale.

Se da un lato questo sistema accelera la possibilità di emergere, dall’altro può ridurre la profondità del legame tra l’artista e il pubblico. Il successo, spesso costruito su un’immagine e una narrazione preconfezionate, rischia di essere fugace. Inoltre, molti artisti dipendono pesantemente dal supporto delle case discografiche, che puntano più sul marketing che sull’originalità.

Un altro elemento di differenza è il rapporto con la tecnologia: gli artisti di oggi utilizzano piattaforme come Spotify, YouTube e TikTok per diffondere la propria musica, raggiungendo un pubblico globale in tempi record. Tuttavia, l’algoritmo e la viralità spesso decidono il successo di una canzone, riducendo il controllo creativo da parte dell’artista.

To beat or not to beat

Torniamo al mio dubbio “Amletico” che nasce da come viene interpretata oggi la musica in Italia: to beat or not to beat?

Il beat esiste ancora?

Iniziamo dal suono e dal canto, che oggi vengono modificati e non hanno più nulla del suono originale a causa delle strumentazioni elettroniche che le nuove tecnologie mettono a disposizione di tutti. Passiamo poi ai testi, i cui contenuti, in certi casi, possono portare i giovani che li ascoltano a compiere azioni che li influenzano negativamente nella vita di tutti i giorni. Infine, consideriamo l’uso commerciale fatto dalle grandi major, che adottano una logica del “consuma e getta”.

La differenza principale sta nel modo di concepire la carriera musicale. Negli anni ’60, l’artista si costruiva passo dopo passo, in un contesto dove la passione e la perseveranza giocavano un ruolo centrale. Oggi, l’accesso a piattaforme globali e il sistema dei talent show offrono opportunità rapide, ma rischiano di omologare lo stile e svuotare la musica di parte della sua autenticità.

In entrambi i casi, però, rimane una costante: la musica è un mezzo potente per raccontare il mondo e connettersi con le persone, riflettendo lo spirito del tempo e le aspirazioni delle generazioni.

La musica

Questo non significa che il genere musicale di oggi non venga apprezzato; diciamo che si tratta di brani più adatti alle discoteche o agli spazi all’aperto. Tuttavia, esistono anche giovani promettenti che cantano utilizzando la loro voce naturale, senza ricorrere ad aiuti artificiosi. È quindi giusto che abbiano l’opportunità di esprimersi e di suonare la loro musica.

Ma alla fine il dubbio mi rimane to Beat or not to Beat lascio a voi decidere.

To beat or not to beat - delle persone ad un concerto rock, sullo sfondo un palco una band che suona - immagine generata con IA
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Franco Deserto
Franco Desertohttps://www.radioagora21.com/
Musicista, cofondatore della band “ Le Ombre” nel 1964, ultimo Highlander del mondo beat & hippie, dei figli dei fiori, delle teenagers o groupie. Amante della radio, a tempo perso si diletta nell'attività di speaker su RadioAgorà21 (Orbassano - TO). Dice di sè "Calco ancora il palcoscenico perchè la musica è donna, ho i capelli bianchi per scelta, una età indefinita, ma dentro sono giovane".
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