Agnocasto, crespino, cannella, arancio, pungitopo, agrifoglio, elleboro e abete: tutte le piante di dicembre dell’almanacco medioevale
L’agnocasto rappresentava la purezza, nel Medioevo. Per questo veniva associato a un tempo di penitenza e di astinenza come l’Avvento, in preparazione al Natale. Le altre piante elencate nell’almanacco medioevale erano, invece, tipicamente natalizie. Del crespino, della cannella, del pungitopo e dell’arancio vi parleremo nelle prossime settimane. ZetaTiElle Magazine, inoltre, vi ha già proposto articoli monografici sull’agrifoglio, sull’elleboro e sull’abete bianco. In ambito prettamente medioevale, possiamo aggiungere tuttavia alcune curiosità. Sebbene l’elleboro sia tossico, a quell’epoca era considerato un rimedio efficace per guarire la follia. Santa Ildegarda di Bingen (XII secolo) vi curava le crisi di gotta. Il suo fiore delicatissimo, detto già allora “rosa di Natale”, era spesso raffigurato sugli arazzi e negli affreschi.
L’elleboro nero, la rosa di Natale e le capre di Melampo


Quanto all’agrifoglio, cominciò a essere considerato pianta natalizia nel tardo Medioevo. Per secoli, infatti, lo si ritenne piuttosto una pianta magica i cui germogli mettevano in fuga gli spiriti malvagi. Si utilizzava nelle farmacie dei monasteri come rimedio diuretico e febbrifugo. Quale uso domestico, con il suoi rami si fabbricavano scope. In Francia è ancora ricorrente il verbo housser, sinonimo del verbo scopare, perché houx è il nome francese dell’agrifoglio. E adesso torniamo a dedicarci all’agnocasto.
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L’antica e curiosa storia dell’agnocasto
Le donne ateniesi, durante le feste rigorosamente al femminile in onore della dea Demetra, o tesmoforie, dormivano su letti di foglie di agnocasto. Si adornavano i capelli e il petto con i suoi fiori, simbolo di purezza per le vergini e di castità per le mogli. Perché durante questi riti era loro imposto di non giacere con i mariti. Già in epoca romana si riconosceva a tale pianta la virtù di rendere temperanti e di far vincere le pulsioni sessuali. E in epoca imperiale erano considerati una ghiottoneria i suoi frutti fritti.
Nel Medioevo, essa prese il nome di pepe dei monaci. Questo perché le bacche sono piccanti e possono sostituire il pepe. Pare che, quale spezia, l’agnocasto fosse adoperato soprattutto dai monaci, che volevano vincere le tentazioni. Non solo: si confezionavano sacchetti contenenti foglie, semi e fiori da mettere sotto i guanciali, per evitare sogni peccaminosi. E gli stessi sacchetti venivano appesi a cinture che si portavano nascoste sotto il saio. Nel XIII secolo, il medico spagnolo Arnau de Vilanova suggeriva di portarsi sempre appresso un coltello dal manico di legno di agnocasto. Questo trucco avrebbe reciso l’insorgere del peccato, non solo per i religiosi ma anche per i laici, chiamati a esercitare la continenza in Avvento o in Quaresima.


Siccome è una pianta dell’area mediterranea, era spesso trapiantata nei chiostri di monasteri del Nord Europa. In Bretagna, soprattutto, ma anche nelle Isole Britanniche la presenza di frequenti corsi d’acqua ne rendeva più facile la coltivazione. In Irlanda, dove il clima non è così favorevole alla specie, era un segno dell’ira di Dio, se la siepe di agnocasto seccava. Qui con le bacche si preparava uno sciroppo per preservare l’innocenza dei novizi. Un elisir alcolico fu invece studiato all’inizio del XVIII secolo dal curato della chiesa di Saint-Vincent, a Lione, tale Noël Chomel. Il sacerdote lo considerava un segreto infallibile per mantenere la castità. Con la Rivoluzione Francese, l’acceso anticlericalismo giacobino se la prese persino con il povero agnocasto, che fu estirpato, disprezzato e apostrofato con ironia.


Un piccolo ritratto botanico
Classificata come Vitex agnus-castus L., l’agnocasto è l’unica Verbenacea arborea – quindi legnosa – del nostro continente. In realtà, è più un arbusto che un albero, perché raramente raggiunge gli 8 metri d’altezza. Come habitat, predilige gli argini fluviali. Tutta la pianta emana un profumo intenso, ha corteccia grigiastra e rametti biancastri, lanuginosi, a sezione quadrangolare. Le foglie peduncolate sono opposte e composte, lunghe sino a 10 centimetri. Hanno forma palmata e sono costituite da 3-7 foglioline digitate e lanceolate, dal margine intero, argentee e tomentose sulla pagina inferiore.


I fiori, che sbocciano tra giugno e settembre, variano dal bianco, al rosa al più frequente azzurro e hanno corolla bilobata, a cinque denti. Sono riuniti in infiorescenze terminali a forma di spiga. I frutti, che sono piccini e poco carnosi, di colore nero-rossastro, hanno un solo nocciolo. Come spesso ripetiamo, per riconoscere la pianta in natura è necessario avvalersi delle chiavi botaniche e non fidarsi di una semplice fotografia.


Un rimedio fitoterapico da riscoprire
Sono proprio i frutti maturi ed essiccati a costituire per l’agnocasto la droga medicinale. Essi contengono principi attivi interessanti: casticina, i glicosidi agnusina e aucubina e olio essenziale. Da studi clinici condotti dal dottor Madaus nel 1938, risulta che essi agiscano a favore dell’apparato genitale femminile. Hanno effetto ormonale antiestrogenico e notevole potere galattogeno (per aumentare la produzione di latte materno). Stimolano in pratica la formazione degli ormoni del corpo luteo e agiscono pure da emmenagogo. Nell’uomo, al contrario, fungono da sedativo genitale. Ma le proprietà di questa pianta non si limitano soltanto a quest’ambito.
Il decotto di agnocasto è anche un leggero ipnotico, per chi soffre d’insonnia, ed è astringente, consigliato in caso di emorroidi. Ha infine azione antinfiammatoria e decongestionante sul fegato e sulla milza. Si prepara ponendo sue cucchiai rasi di bacche in mezzo litro d’acqua fredda. Si fa bollire per 5 minuti e si lascia in infusione per un quarto d’ora. Infine si filtra, si dolcifica a piacere e si bene lungo la giornata come fosse un tè o qualsiasi altra bevanda alimentare. Per le sue qualità e con buona pace di Robespierre e compagni, che la sradicarono dai monasteri, è un’ottima erba da riscoprire e da studiare.
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