Il rafano, il cui nome ha un’incerta origine celtica
Il rafano è la seconda pianta della famiglia delle Crucifere che vi proponiamo perché l’abbiamo già citata trattando la coclearia, la scorsa settimana. Condivide, infatti, con essa la prerogativa di essere uno dei migliori rimedi naturali contro lo scorbuto. Si tratta di una specie originaria dell’Europa orientale (Ucraina e Russia meridionale) ma conosciuta già in epoca molto antica. Nel I secolo d.C., Dioscoride la cita eppure pare sconosciuta a Teofrasto, che visse a cavallo tra il IV e il III secolo a.C. Deduciamo, quindi, che il suo utilizzo risalga a un’epoca da collocarsi intorno ai duemila anni fa.
Nel tempo, è stata classificata con nomi diversi come Cochlearia armoracia L., apparentandola con la coclearia, o come Nasturtium armoracia Fr., quasi fosse un crescione. Siccome si tratta di un genere a sé, noi preferiamo senz’altro il nome Armoracia rusticana G.M.SCH. In ogni caso, ricorre la parola Armoracia: alcuni studiosi tentano di trovarle un’etimologia greca o latina. Sebbene non sia del tutto certo, è più probabile che derivi dalla lingua celtica, con il significato di pianta che cresce “vicino al mare”. L’aggettivo rusticana, invece, indica un habitat campagnolo. Riguardo ai nomi popolari, il rafano è pure detto cren, secondo un sostantivo di origine tedesca. Oppure è detto barbaforte per gli stoloni ipogei, numerosi e sottili, che si diramano dalla radice a fittone.


Dalla medicina alle salse
A differenza di altre erbe che vi abbiamo già illustrato, il rafano ha avuto come primo impiego quello medicinale e solo in secoli più recenti, per il suo spiccato sapore, ha avuto anche un uso alimentare. Dioscoride e Galeno lo consigliavano come diuretico, depurativo, digestivo ed emmenagogo. Nel Medioevo cominciò a essere coltivato in buona parte d’Europa, soprattutto dai monaci, per combattere lo scorbuto. Ci viene testimoniato da sant’Alberto Magno in un erbario del 1260. Nella seconda metà del XVII secolo, il medico tedesco Michael Ettmüller condusse un importante esperimento clinico. Riuscì, infatti, a guarire con il rafano una donna “idropica, ascitica, scorbutica e con tosse e difficoltà respiratorie”. Nel 1837, Joseph Roques nel suo Nouveau traité des plantes usuelles sostenne che la sua azione stimolante risultava efficace per alcune malattie croniche. Ed elencava, fra esse, le febbri intermittenti autunnali, l’idropisia, i disturbi linfatici, l’herpes, la scrofolosi, il rachitismo e persino certi casi di paralisi.
Il medico francese François-Joseph Cazin (1788 – 1864) era convinto che avesse un’azione tonico-eccitante, per la fermentazione della radice che sviluppa un olio volatile. La riteneva utile in caso di catarri cronici, asma, edema polmonare, idropisia, reumatismi e talune malattie della pelle. Henri Leclerc (1870 – 1955), considerato il padre della fitoterapia, era un grande assertore della cura con la radice di rafano. Ne affermava l’efficacia in caso di anemia, cattiva digestione, affaticamento o debolezza e addirittura tubercolosi. Detto questo, dal XVII secolo in poi il sapore piccante del rafano è stato apprezzato soprattutto in cucina. Nell’Europa settentrionale è diventato il contorno di bolliti di carne o pesce. Tritato, viene mescolato al burro per l’uso quotidiano oppure diventa l’ingrediente di ghiotte insalate. E, soprattutto, se ne preparano salse assai simili a quelle a base di senape.


Meacan ragaim è il nome irlandese di una pianta eterna
Nelle Isole Britanniche e, in particolare, in Irlanda, il rafano è stimato una specie archeofita. Che cosa significa? Che non è autoctono ma introdotto per coltivazione in epoca antica, comunque prima del XVI secolo. Questo spiega pure l’esistenza di una traduzione del nome in lingua gaelica, che era la più diffusa nell’Isola di Smeraldo prima del XIX secolo. Si dice Meacan ragaim che significa “radice senza valore”.
In realtà, il rafano che si trova allo stato spontaneo in terreni costieri sabbiosi, umidi e salmastri e lungo i sentieri, è una pianta piuttosto temuta. I contadini la considerano eterna, perché non si riesce a bandirla da un terreno in cui sia attecchita. Non è invasiva, non si propaga ovunque eppure, dove è cresciuta una volta, si crede che crescerà per sempre. Questo perché il rafano è praticamente privo di semenza. Basta mettere nel terreno una piccola porzione della sua radice per generare un’altra pianta. Ma, vangando e zappando, frammenti di fittone o degli stoloni sotterranei rimangono tra le zolle e, fatalmente, moltiplicano sempre nuovi individui.


Una breve descrizione botanica del rafano
Si tratta di una pianta erbacea o semi-arbustiva, con radice verticale a fittone, più carnosa nelle varietà coltivate. Supera anche il metro d’altezza, con fusto glabro e con tre tipi diversi di foglie. Quelle inferiori sono grandi e strette, a margine dentellato, e presentano lunghi peduncoli. Le mediane sul fusto sono frastagliate al punto che i vari lobi raggiungono la nervatura centrale. Infine, quelle superiori sono di nuovo molto strette ma a margine intero.
I piccoli fiori bianchi a 4 petali disposti a croce (carattere distintivo per le Crucifere) sbocciano tra maggio e luglio. Formano numerose infiorescenze a grappolo allungato. I rari frutti, pressoché assenti nelle varietà coltivate, sono silique piccine, globulose e dalle fini venature superficiali. Per riconoscerlo in natura, occorre affidarsi come sempre all’indispensabile strumento delle chiavi botaniche, senza fare assegnamento sulle sole fotografie.


Pianta benefica e salutare ma senza esagerare
Il rafano, purtroppo, è anche una pianta irritante. Ce ne accorgiamo quando ci capita di pulire e tagliare la radice fresca, che ci fa lacrimare gli occhi ben più della cipolla. Ciò avviene a causa di due glucosidi solforati che si trovano tra i principi attivi. Essi sono la gluconasturtina e la sinigrina che, per idrolisi dell’enzima mirosina, si scompone in isosolfocianato di allile e glucosio. Ci sono poi altri componenti importanti come un’alta percentuale di vitamina C, amminoacidi (asparagina, argirina e glutamina), zolfo, ferro, fosforo, magnesio, potassio, silicio e sodio.
Secondo Jean Valnet, la radice che costituisce la droga ha diversi impieghi medicinali. È per prima cosa uno dei migliori rimedi contro lo scorbuto, per il contenuto di vitamina C. È inoltre espettorante, diuretico, digestivo, antispasmodico, sedativo e colagogo. Viene consigliato in caso di anemia, inappetenza, difficoltà digestive, linfatismo, scrofolosi, tosse, asma, bronchiti croniche, gotta, reumatismi e leucorrea. Ma va consumato con moderazione, a causa del suo potere irritante, e mai se si ingeriscono bicarbonato di sodio, nitrato d’argento e infuso di china. Il modo migliore per assumerlo, senza interrompere le cure mediche in corso, è come cibo salutare, grattugiandolo fresco a piccole dosi in insalate dal gusto piccante.


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