Il nome proprio è il nome di un altro? L’analisi della psicologa Rissone

Continua il nostro percorso nell’analisi del linguaggio condotto dalla psicologa Henni Rissone. Nell’articolo precedente abbiamo visto come il linguaggio assuma un binarismo di genere che può dar luogo a risvolti interpretativi, sia positivi che negativi, a seconda del genere in cui viene declinato. E anche di come in realtà non riesca mai a tradurre la particolarità di un individuo, ma sia, spesso, l’espressione di un collettivo in cui non tutti si identificano. Il nome proprio però ha un significato profondo nel linguaggio.

Talmente profondo che già secoli fa, nelle due civiltà che hanno influenzato la nostra storia quella Greca e quella Latina, se ne davano interpretazioni. Tra i latini vigeva il detto “Nomina sunt omina”: i nomi sono gli uomini, o sono presagi per gli uomini. Mentre il filosofo e teologo greco Origene asseriva che i nomi hanno un rapporto profondo e misterioso con le cose e non sono attribuiti per pura convenzione. Nell’ analisi e approfondimento di oggi la dottoressa Rissone ci offre spunti di riflessione che partono dalla psicanalisi per toccare l’uso e il significato del nome nella tradizione di popoli millenari.

Il nome proprio è il nome di un altro? Analisi sul linguaggio della psicologa Henni Rissone

” L’esperienza umana è, in primis, esperienza di parola. La nostra esistenza di esseri umani si incornicia in una forma e in un senso nel momento in cui parliamo di chi siamo, di cosa abbiamo fatto, delle relazioni che abbiamo intrecciato e di cosa vorremmo fare nel prossimo futuro.

Non c’è parola che non sia anche domanda: ci si rivolge ad un altro quando si parla e, indipendentemente da che si chieda esplicitamente qualcosa oppure no, ogni parola si pone come una domanda indirizzata a un altro, una domanda di riconoscimento.

Il nome proprio è il nome di un altro? L'analisi della psicologa Rissone.
Dipinto di Magritte persona davanti allo specchio.
René Magritte La reproduction interdite.

La parola alla base della relazione

Per questo la parola è alla base della relazione intersoggettiva. Che ce ne sia di riconoscimento non è garantito, per questo si continua a parlare. L’inconscio è correlato a questa “narrazione” di sé ma è importante sottolineare che non tutto della pulsione di un soggetto può passare attraverso la parola, qualcosa si pone come refrattario all’ordine simbolico ed è ciò che Lacan chiamò RESTO: qualcosa di esclusivamente soggettivo che non può avere corrispondenza in un codice linguistico pre-codificato.

E’ questo stesso resto che ci induce a domandare, in un piccolo cortocircuito paradossale: la parola non può contenere la singolarità del soggetto ma ciascun soggetto è tramite la parola che la domanda. La domanda di riconoscimento, se ci pensiamo, si può dire che sia strutturale del soggetto, a partire dalla prima parola che viene usata da altri per dirci: il nome proprio. Già a partire da questo ci troviamo inesorabilmente in uno scarto tra il nostro essere e la parola che altri usano per dirlo.

L’analisi sul liguaggio Giapponese: il kanji

A questo proposito è interessante guardare all’Oriente e alla lingua giapponese in particolare: nel linguaggio giapponese il kanji, che significa persona, è composto da due soli tratti, a formare più o meno una “y” rovesciata. Da come mostra la figura si evince che questo kanji possa derivare dalla stilizzazione di un essere umano.

Il nome proprio è il nome di un altro? L'analisi della psicologa Rissone. Kanji di persona
Kanji di “persona”

Secondo alcuni, quei tratti sono due linee che si sorreggono a vicenda perché non si è una persona senza qualcuno al proprio fianco, per la psicoanalisi è preferibile dire che non si è nessuno senza qualcuno che ci dia una nominazione e dunque ci segni e ci offra una stampella per entrare nel mondo. La nominazione è necessaria a patto che, in seguito, ciascuno a modo suo, ci faccia qualcosa con quel nome, a partire dalla sua unicità per non trovarsi in una gabbia protettiva, o peggio, dentro una parola ghettizzante.

L’analisi del nome proprio come veicolo del desiderio parentale

Trovo che questo sia il punto di riferimento che i dibattiti odierni hanno perso di vista ma il mio è solo uno stimolo di riflessione. Il nome proprio (che proprio non è, dato che ci viene posto da altri) per la psicoanalisi, è considerato veicolo del desiderio parentale: dal rapporto con il proprio nome si gioca la propria struttura e il proprio destino.

Il nome scelto dai genitori, sia che lo volessero identificato a nessun sesso (alla neutralità) oppure al maschile oppure al femminile, veicola un desiderio e da questo non c’è scampo, potremmo dire. Questo ci suggerisce qualcosa del perché ciascuno di noi è a disagio con il proprio nome.

La scelta del nome tra i nativi americani

Ogni nome è, in definitiva, tautologico, cioè privo di valore informativo. Non dice nulla del soggetto ma, allo stesso tempo dice qualcosa di ciò che lo ha causato, qualcosa legato al desiderio di un altro. Tra i nativi americani era usanza attribuire al nuovo nato un nome relativo agli eventi legati alla sua nascita: qualsiasi manifestazione della natura poteva incidere nella scelta del nome e del suo significato, per esempio il nome “nuvola rossa”.

La cosa interessante è che se, durante la vita, avveniva un evento particolare il capo tribù poteva cambiare il nome, questo ci suggerisce che il nome, anche qui, non racconta dell’essere del soggetto e, in più, anche in questo caso è dato da altri. Il limite a cui si ferma la lingua è sempre l’essere. Là dove il soggetto cerca il suo essere non trova un significante, la mancanza ad essere però è proprio ciò che fa si che ogni soggetto voglia essere e possa desiderare.

Il nome proprio è il nome di un altro? L' analisi della psicologa Rissone. Quanti Kanji per persona?
Kanji

L’analisi di De Saussure, la lingua è vita.

Per essere, ciascun soggetto deve saper inventare una opposizione a ciò che è dato (il suo nome, la cultura e la società in cui è inserito) e allo stesso tempo deve saper inventare una costruzione attorno al senso di mancanza, che sarà la sua invenzione in tutto e per tutto particolare. A partire da questa precisazione possiamo intuire come sia specchio dei tempi il cambiamento linguistico e dica molto della ricerca contemporanea di senso e di posto di ciascun soggetto in questa epoca “liquida” dove il simbolico perde di consistenza.

Resterà comunque una ricerca inesauribile, quanto è inesauribile la funzione linguistica che “significa” solo a partire dal consenso sociale il quale non sarà mai comprensivo dell’essere del singolo. Come scriveva De Saussure. “L’uso che una società fa della propria lingua è la condizione per cui la lingua è viable, cioè capace di vita“. Questo è ciò che funziona del linguaggio e ci consente di avere un terreno comune sul quale è possibile illuderci di comprenderci e comunicare, il cambiamento del linguaggio nelle varie epoche storiche testimonia di questa vita, ciò che è vivo è ciò che cambia, ciò che si muove.

Il punto di vista della psicoanalisi

La psicoanalisi si occupa di quello che non funziona nel linguaggio, si occupa dei soggetti, uno per uno, si occupa dei quel + della singolarità soggettiva che vive all’interno di una struttura sociale ma, allo stesso tempo, ne è sempre l’eccezione. Il soggetto parlante non può avere cognizione del modo in cui esso stesso è “contato” nella catena significante che usa per parlare perché, rispetto alla propria inclusione, è irriducibilmente diviso.

Il discorso che ascolta la psicoanalisi è il discorso di questa divisione strutturale, la lingua ascoltata non è quella studiata dalla linguistica ma piuttosto quella fatta di impossibili da dire, quella che inciampa in un lapsus, quella lingua con la quale si tenta di far altro che non comunicare e significare, si occupa di quel dire che ha a che fare con la ricerca dell’essere… senza nome”. Dottoressa Henni Rissone

Riferimenti bibliografici

Sigmund Freud Compendio di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, 1980. Ferdinand de Saussure Corso di linguistica generale, la Terza, 1999. Vocabolario della lingua italiana Treccani on line. American Psychiatric Association (APA), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina Editore, 2014. Zygmunt Baumann Modernità liquida la Terza, 2011. Jacques Lacan Lituraterre, in Littérature, n° 3, Octobre 1971, Larousse, pp 3-10.

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Monica Col
Monica Col
Vicedirettore di Zetatielle Magazine e responsabile della sezione Arte. Un lungo passato come cronista de “Il Corriere Rivoli15" e “Luna Nuova”. Ha collaborato alla redazione del “Giornale indipendente di Pianezza", e di vari altri giornali comunali. Premiata in vari concorsi letterari come Piazza Alfieri ( 2018) e Historica ( salone del libro 2019). Cura l’ufficio stampa di Parco Commerciale Dora per la rassegna estiva .Cura dal due anni la promozione della Fondazione Carlo Bossone,. Ha curato per quattro anni l'ufficio stampa del progetto contro la violenza di genere promosso da "Rossoindelebile", e della galleria d’arte “Ambulatorio dell’Arte “. Ha curato l'ufficio stampa e comunicazione del Movimento artistico spontaneo GoArtFactory per tre anni. Ha collaborato come ufficio stampa in determinati eventi del Rotary distretto 2031. Ė Presidente dell 'Associazione di promozione sociale e culturale "Le tre Dimensioni ", che promuove l' arte , la cultura e l'informazione e formazione artistica in collaborazione con le associazioni e istituzioni del territorio. Segue la comunicazione per varie aziende Piemontesi. Dice di sé: “L’arte dello scrivere consiste nel far dimenticare al lettore che ci stiamo servendo di parole. È questo secondo me il significato vero della scrittura. Non parole, ma emozioni. Quando riesci ad arrivare al cuore dei lettori, quando scrivi degli altri ma racconti te stesso, quando racconti il mondo, quando racconti l’uomo. Quando la scrittura non è infilare una parola dietro l’altra in modo armonico, ma creare un’armonia di voci, di sensazioni, di corse attraverso i sentimenti più intensi, attraverso anche la realtà più cruda. Questo per me è il vero significato dello scrivere".