I ciclisti: croce senza delizia dell’Aurelia (e non solo)

C’è una cosa che accomuna il litorale tirrenico italiano da Roma a Ventimiglia: la Via Aurelia. Strada meravigliosa costruita dai romani, che si trasforma in un incubo quando si arriva in Liguria: da Sarzana a Ventimiglia, salvo alcune eccezioni, diventa l’unica arteria di collegamento tra i paesi costieri, congestionata già di per se e che, da marzo a settembre, si paralizza per il flusso di turisti che arrivano dal Nord Italia. A peggiorare la condizione di noi poveri residenti, ma anche quella dei turisti, ci si mettono anche i ciclisti (sia residenti che foresti).
E non stiamo parlando solo dei corridori con la coscia scolpita e il cardiofrequenzimetro integrato nell’aorta. No. Parliamo anche di chi prende la bici della nonna con il cestino e si lancia sulle carreggiate strette come se stesse pedalando su un boulevard parigino chiuso al traffico.

Bicycle Race (Queen)

La Milano-Sanremo passa a marzo, e da lì scatta ufficialmente la stagione del completino tecnico. Da quel momento, ogni ciclista medio si sente in dovere di occupare la corsia come se fosse in fuga solitaria verso il Poggio. E guai a suonare il clacson, perchè ti guardano come se gli avessi insultato la madre.

Ora, mettiamoci nei panni dei poveri automobilisti perché, se l’Aurelia fosse larga come la tangenziale di Milano, uno magari si metterebbe in coda in silenzio. Ma qui si parla di passaggi strettissimi, dove anche superare un’Ape Car richiede manovre chirurgiche e un rosario. Quando davanti ti trovi due, tre, quattro ciclisti, in fila per tre col resto di due, che pedalano chiacchierando come se fossero al bar, la questione non è più mobilità: è sopravvivenza.

Eppure, la legge è chiara. Il Codice della Strada non è un suggerimento, è legge. L’articolo 182 lo dice esplicitamente: “I ciclisti devono procedere in fila indiana, tranne quando le condizioni della strada lo consentano e fuori dai centri abitati”. Vi do un a notizia: l’Aurelia da Sarzana a Celle, da Noli a Camporosso, non rientra tra le “condizioni che lo consentano”.

E allora, cominciamo con il catalogo delle infrazioni ciclistiche che è variegato e creativo, e cominciamo subito dalle strisce pedonali.

Bartali (Enzo Jannacci)

Le strisce pedonali: il luogo preferito per mettere alla prova i nervi degli automobilisti, ma anche dei pedoni. Qui, la scena classica è la seguente: ciclista che arriva spedito, non rallenta, non accenna a scendere, attraversa come se fosse un pedone con il turbo.

Caro amico delle due ruote: se non scendi dalla bici, non sei un pedone, sei un veicolo, e su quelle strisce non hai alcuna precedenza.

Il Codice della Strada (articolo 190, per chi ha voglia di fare i compiti a casa) lo dice chiaramente: attraversare le strisce in sella è vietato. Se vuoi passare, scendi, anche se hai il record personale sui 10 km. E se decidi di ignorare questa regola, la sanzione va da 26 a 102 euro. Non una cifra che rovina una vita, certo, ma abbastanza per farci almeno un paio di colazioni in passeggiata, quella stessa dove, per inciso, la bici va portata a mano, ma su questo ci torneremo dopo.

Le strisce pedonali non sono un’attrazione da saltare a tutta velocità come in una gara di BMX: chi attraversa ha la precedenza, anche se ti senti in fuga nella tappa di montagna del Giro.

Chi è in bicicletta deve rispettare le stesse regole di qualunque altro veicolo: alle strisce si rallenta e ci si ferma, non si tira dritto e a velocità sostenuta, sfiorando pedoni, carrozzine e cani al guinzaglio come fossero birilli su un flipper. Il Codice della Strada parla chiaro: il ciclista, come ogni altro veicolo, deve rallentare e fermarsi quando un pedone è in attraversamento.

Anche perché basta un guinzaglio che si tende, un bambino che cambia direzione, un passo più lento per far succedere qualcosa di serio. E a quel punto, non basterà certo un freno a disco per sistemare le cose.

Passeggiando in bicicletta (Riccardo Cocciante)

C’è una categoria di ciclisti che ha sviluppato una particolare forma di superpotere: l’invisibilità del divieto.
Passano davanti ai cartelli “Vietato circolare in bici” e “bici alla mano“, come se questi fossero scritti in aramaico antico. Marciapiedi, strettoie e passeggiate diventano campi di battaglia, dove i pedoni si spostano di lato con l’agilità di un airone per evitare di essere falciati da qualcuno in pantaloncini attillati e pedalata allegra.

I peggiori sono quelli che ti stanno dietro e ti suonano il campanello per farti spostare.

E poi ci sono le famiglie del weekend: mamma, papà, due figli e magari pure il cane nel cestino, che viaggiano in formazione come le frecce tricolore, e passano ovunque, sui marciapiedi (perchè è pericoloso per i bambini il bordo strada) o contromano. Sembrano una pubblicità del vivere sano, si illudono di trasmettere ai figli un modello di vita sostenibile ma, in realtà stanno solo educando all’arroganza e all’anarchia stradale.

In Liguria, poi, il fenomeno raggiunge picchi di surrealismo. Prendiamo ad esempio i caruggi, che in teoria sarebbero pensati per chi cammina, chi sbircia vetrine, chi cerca l’ombra. In pratica, invece, diventano velodromi verticali dove il ciclista medio slalomeggia tra turisti con il gelato e vecchiette col bastone.

Poi ci sono le passeggiate a mare, luoghi nati per fare quattro passi, che si trasformano in piste ciclabili non autorizzate. E qui il problema non è solo di spazio: è di arroganza. Perché se provi anche solo a far notare gentilmente che “non si può andare in bici”, il male minore che ti può capitare è un dito medio alzato.

Chiariamo un concetto semplice: in tutti questi luoghi la bicicletta si porta a mano. Non esistono deroghe artistiche, né licenze poetiche. E’ semplicemente vietato.

E allora uno si chiede: ma esistono le multe per i ciclisti?

L’articolo continua dopo la foto

ciclisti aurelia bicicletta - un cartello di divieto  con il disegno di un abicicletta nera dentro a un cerchio rosso
Foto di Grégory ROOSE da Pixabay

Il bandito e il campione (Francesco De Gregori)

C’è un fenomeno ricorrente sulle strade italiane: l’impunità su due ruote, malgrado il Codice della Strada che i ciclisti violano con una serenità olimpica e una frequenza da record. Passano col rosso, imboccano sensi vietati, sfrecciano sui marciapiedi tra pedoni, passeggini e cani al guinzaglio. Il tutto senza la minima traccia di sanzione. Il problema è l’impunità totale che ha trasformato questi abusi in abitudini.

Eppure, il Codice della Strada non è tenero con i ciclisti che fanno i furbi. Le multe ci sono, eccome:
fino a 102 euro per attraversamento sulle strisce in sella
fino a 200 euro per violazioni come circolare contromano, parlare al cellulare mentre si pedala, ignorare i semafori, pedalare senza luci di notte

Tutto chiaro. Sulla carta. Peccato che nella realtà, le sanzioni siano un miraggio.
E’ raro (a me non è mai capitato, per lo meno), vedere le forze dell’ordine multare un ciclista.
Serve poco: basterebbero controlli mirati e sanzioni applicate davvero.

I ciclisti sono una categoria che pare viaggiare in una bolla di totale impunità o che punire un ciclista sia diventata una questione di coscienza collettiva. Come se multare qualcuno che pedala sia socialmente sconveniente, come se si stesse punendo una buona azione. Invece è l’esatto contrario: questa tolleranza senza regole alimenta comportamenti sempre più aggressivi, sempre più arroganti. Il messaggio che passa è chiaro: se nessuno ti ferma, allora puoi fare qualsiasi cosa. Non è così! E non potete prenderla a male se qualcuno ve lo fa notare, perchè, del resto, non siete così “buonisti” quando un pedone invade una pista ciclabile.

Sono in fuga (Lucio Dalla)

Il vero problema è che la bici in Italia è diventata, per certi versi, una zona franca. Perché chi va in bici è “green”, è “sano”, è “sportivo”. E chi osa lamentarsi, automaticamente è un mostro anti-ecologista. Ma cari amici delle due ruote, essere sostenibili non vi rende automaticamente immuni alle regole. Se andate contromano, se invadete la carreggiata, se passate col rosso, state semplicemente infrangendo la legge.

È ovvio: non tutti i ciclisti sono incivili. Ma quelli che lo sono, bastano per creare un problema sistemico.
Il rispetto delle regole dovrebbe essere la base per qualunque forma di mobilità. Chi si comporta correttamente, oggi, si trova penalizzato. Confuso tra i furbi, preso a male parole dai pedoni e ignorato dagli automobilisti. E questo, alla lunga, distrugge anche l’idea stessa di ciclismo urbano sostenibile.

Perché la bicicletta non è un lasciapassare per l’anarchia su due ruote. È uno strumento utile, potente, bellissimo, ma solo se accompagnato da buon senso e rispetto. Altrimenti è solo l’ennesimo mezzo che trasforma le nostre strade in un pericolo costante.

Il fatto è che manca una cultura del rispetto reciproco. Perché se è vero che per decenni il pedone è stato il parente povero della viabilità, oggi sta diventando il bersaglio preferito anche di chi dovrebbe avere una coscienza green. Ma non è green chi va in bici, è green chi rispetta le regole. E no, non è un concetto complicato: se c’è scritto “vietato”, si scende. Se c’è gente a piedi, si cammina.

Il Codice della Strada non fa distinzioni tra chi guida un SUV e chi si muove su un telaio in carbonio da tremila euro con le scarpette agganciate. Le regole valgono per tutti, anche per i temerari del pedale.

Foto copertina di Didier da Pixabay

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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”
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