Il futuro è un’ipotesi

Sembra un’assurdità ma il futuro è il primo grande enigma che ci pongono fin da piccoli. La più grande domanda della vita ”cosa farai da grande?” te la cominciano a porre fin da quando giochi con i lego. Ma come si fa a dire “cosa farò da grande”? E poi, quando è che si diventa “grande”? E se questo essere “grande” non arrivasse mai?

Sembra sconclusionata questa mia affermazione, ma non lo è. Conosco tantissimi adulti che ahimè non sono ancora diventati grandi ma, come sempre, di questo ne parleremo la prossima volta.

Cosa fare da grande, nell’ immaginario collettivo significa dire quale mestiere, professione, lavoro faremo una volta arrivati all’età produttiva per essere considerato soggetto economico.

Il futuro di ieri

Prima dei “miei tempi” c’era il dopoguerra, gli anni ’50. La ricostruzione e il riavvio dei processi produttivi. Il concetto di futuro dei giovani di allora era ancora legato ad un’epoca di rivoluzione industriale e campagne, ma soprattutto era ancora legato alla classe sociale.

Ai miei tempi, fine anni ’60, il boom economico era nel pieno della sua espansione e il futuro era un posto sicuro.

Esistevano dei classici: tra le risposte femminili, le più gettonate erano la maestra, la parrucchiera, l’estetista, l’hostess (all’epoca era ben chiaro che si intendeva l’assistente di volo), la giornalista e, ovviamente la segretaria, il medico, l’avvocato, la ricercatrice, l’archeologa.

I maschi erano più divertenti: in cima alla classifica, il meccanico o il carrozziere. Poi seguivano gli aspiranti impiegati di banca (massima aspirazione del post ’68), i piloti di aereo o di macchina, gli astronauti (i maschi sapevano sognare alla grande).

Le femmine si vedevano tutte sposate come Barbie e Ken, con tante Skipper a seguito, i maschi continuavano a far correre macchinine.

Tutto chiaro.

Di conseguenza, si cominciava a costruire il futuro sui banchi di scuola. E vai di perito meccanico o di ragioneria, per i maschi, perito aziendale, magistrali e professionali per le femmine. A 18 anni, accompagnati da una “notte prima degli esami” di vendittiana memoria, si conseguiva la benedetta maturità e si era Grandi. Cominciava così l’applicazione tecnica delle nostre esperienze scolastiche.

Un futuro sognato, pianificato, acquisito.

Dagli anni ’90 ad oggi, il futuro è un’ipotesi.

Perché? Cosa è successo?

Il futuro di oggi

I giovani non sanno bene cosa rispondere alla fatidica domanda :”cosa farai da grande”. La risposta è Boh! Vedrò…non so…

Alla fine della scuola primaria si apre un ventaglio di possibilità che sono tanto dettagliate quanto dispersive, liceo, scuola di formazione, istituti professionali, tecnici…puoi fare due anni e poi lasciare gli studi ma se ne fai cinque è meglio…All’interno di un indirizzo scolastico ci sono delle “sottocartelle” di specializzazioni che si perdono nei labirinti delle varie microsezioni di una professione.

 Scopo, preparare più tecnicamente un soggetto, risultato, soggetti incapaci.

E poi gli stage. Non retribuiti. Bell’esempio del concetto di lavoro.

Ma al di là di questo, cosa vuole fare un giovane oggi?

Non lo sa ed è più che comprensibile, perché il sistema non ha più modelli da offrire. O meglio, i modelli sono cambiati.

L’idea di successo è cambiata. Oggi avere successo si indentifica con il concetto di popolarità, la società lo insegna attraverso i media, e i social fanno il resto.

Quindi le professioni del futuro sono l’instagrammer, il blogger, la youtuber…”voja de lavorà sartame addosso” direbbe Sordi.

Quindi cosa sognano oggi?

New generation

Le femmine, tante bimbeminkia che a 14 anni sono come le barbie del tempo, con il piercing all’ombelico, truccatissime, disinvolte davanti ad un telefonino, a sparare cazzate e a sperare di portare via il camper di Ken quando divorzieranno.

I maschi, tanti bimbiminkia con le sopracciglia rasate e i risvoltini alle caviglie, immortalano i topici momenti di bevute con gli amici fino a scoppiare, come se non ci fosse un domani.

E poi, tutti su instagram.

Naturalmente sto esasperando al massimo il quadro della situazione. Riconosco che non tutti sono così…solo il 98%.

Cosa è successo?

E’ successo che ci siamo fatti la domanda sbagliata.

E’ successo che nessuno ci ha preparato a capire cosa avremmo fatto davvero da grandi.

Perché il “cosa” va a braccetto con il “come” e il “come” con il “chi”.

Mi spiego meglio.

La domanda giusta che dovremmo porre e porci fin da piccoli è “chi” saremo da grandi? Che tipo di persona diventeremo? Saremo in grado di conservare la sensibilità di interagire con il prossimo senza creare danni?

Siamo sicuri di stare educando i nostri figli ad essere grandi?

La società prepara educatori o produce solo genitori biologici?

Il sistema economico che si è creato nell’ultimo trentennio ha generato una società basata si sul progresso e la tecnologia, ma ha spersonalizzato l’individuo dai propri ruoli. La crisi economica ha fatto il resto.

La disoccupazione di padri e madri di famiglia e il precariato non se lo aspettava nessuno.

Quello che si presenta davanti ai nostri occhi è un palcoscenico fatto di comparse e di attori che non hanno un futuro, ma solo un presente da vivere. Sembra una visione apocalittica, ma in realtà non siamo lontani da un burnout senza ritorno.

Se davvero la massima aspirazione è l’apparire anziché l’essere, andiamo incontro ad un futuro dove le classi sociali torneranno ad essere ben distinte e lontane tra loro e dove l’essere umano non sarà ne più essere e meno che mai umano. Scriveva bene Enrico Ruggeri “il futuro è un’ipotesi, forse il prossimo alibi che vuoi, il futuro è una scusa per ripensarci poi…”.

Non esiste neanche più il concetto di vecchiaia, perché c’è un rifiuto collettivo al diventare vecchi. Il modello richiesto è di essere sempre giovani, belli, competenti, prestanti. Una società esteta che non ammette rughe o difetti e che non concede agli adulti di “accedere” alla vecchiaia, neanche in termini economici, togliendo anche la certezza della famigerata pensione.

Esiste ancora il futuro?

Non è vero che I nostri giovani non hanno sogni o che non credono nel futuro. Ce li hanno eccome. E’ solo che non sanno quale strada percorrere, sono sfiduciati. Non gli è stata insegnata la fatica, e anche se questa fosse chiara, non è sicuro il raggiungimento dell’obiettivo. Non ci sono più fonti di rassicurazione e le figure di riferimento sono precarie o obsolete.

Le varie problematiche giovanili, come l’abuso di sostanze, l’autolesionismo, le promiscuità, che a volte portano fino al rifugio nel mondo virtuale o addirittura all’isolamento, sono l’espressione della difficoltà dei giovani di pensare al futuro come un luogo raggiungibile e sicuro.

Per cambiare le cose, il punto di partenza è quindi il nostro passato, se vogliamo un futuro che non sia più un’ipotesi.

Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”