Tina Turner: 33 giri di ricordi e di emozioni

Anche Tina Turner se n’è andata. Lei, donna nera del Sud, con una voce grande come il tuono e la capacità di diventare per tutte le donne un simbolo di resilienza domestica, riscatto artistico e redenzione spirituale”.

Faccio mie, per una volta, le parole di quello che considero il mio maestro di giornalismo musicale, Carlo Massarini, pubblicate ieri in un post su Facebook.

Lo faccio, perché per una volta, non riesco a trovare le parole per descrivere quello che provo, e che ho provato mercoledì sera, nel sentire lo scarno comunicato letto al TG2, che annunciava la morte, a 84 anni della regina del pop.

Uno di quegli articoli che non vorresti mai scrivere, anche se purtroppo lo hai fatto altre volte, come sempre con le dita indecise e tremanti sulla tastiera del computer. Pensieri che si accavallano, e che non riesci a tradurre in parole. Canzoni che ti ritornano in mente, e che come sempre ti provocano brividi lungo la schiena.

Tina Turner è la mia cantante preferita da sempre, fin dai tempi di Ike. Ho sempre amato le voci roche, Rod Stewart, Joe Cocker, Anastacia, a casa nostra Zucchero, Gianna Nannini, Fausto Leali.

Ma lei, lei era una spanna sopra tutti, lei Anna Mae Bullock.

Anna Mae Bullock

La storia di Anna Mae Bullock e di Ike Turner è mirabilmente raccontata nel biopic “What’s Love Got to Do with It”. Film magistralmente interpretato da Angela Bassett e Laurence Fishburne, rispettivamente nei ruoli di Ike & Tina. Coinvolgimento totale degli attori nei rispettivi personaggi, e nel racconto di un matrimonio malato, tossico e violento. Spente le luci della ribalta, spenti gli amplificatori, la vita in casa Turner era un inferno fatto di litigi continui, soprusi, botte e umiliazioni. Finché Tina trova il coraggio di dire basta, andandosene sola, senza un soldo in tasca e sanguinante dall’hotel in Texas, dove la coppia pernottava.

Con coraggio, forza e abnegazione, Tina comincia una nuova vita, non senza difficoltà, ma con una certezza: il nome d’arte. L’unica richiesta fatta al giudice divorzista: “Non voglio nulla, solo poter mantenere il mio nome d’arte”. In aula, lei guarda l’ex marito e gli dice: “Mi hai dato tu questo nome, guarda cosa ne farò io ora”.

È il primo passo verso una nuova vita, una nuova carriera, che la porterà cinque anni dopo, a pubblicare “Private dancer”, che la incoronerà regina del rock e venderà 20 milioni di copie.

Private dancer

L’album ha segnato un radicale distacco dal ritmo e dal suono marcatamente R&B che aveva caratterizzato gli album precedenti con il marito. Costituito da un sapiente mix di brani “uptempo” e di ballate pop-rock, presenta anche elementi di smooth jazz e contemporary R&B, con una spruzzata di elettronica, visto che siamo nel pieno dei mitici anni ’80.

Quattro i team di produzione, tra cui Rupert Hine, Martin Ware e Ian Craig Marsh membro degli Heaven 17. In tutto il mondo l’album ha venduto oltre venti milioni di copie, divenendo il disco più venduto dell’intera carriera di Tina Turner.

Il disco ha prodotto numerosi singoli di grande successo tra cui “What’s Love Got to Do with It”, che ha toccato la vetta dei singoli più venduti della Billboard Hot 100 negli Stati Uniti. Ma anche “Let’s Stay Together”, che ha raggiunto il sesto posto nel Regno Unito ed il ventiseiesimo negli Stati Uniti. “Better Be Good to Me” che ha toccato il quinto posto. La title track ha raggiunto il settimo posto in classifica, ma anche “Show Some Respect” è diventato un singolo di tutto rispetto (mi perdonerete l’orribile gioco di parole).

Senza dimenticare le cover: “Help!” dei Beatles, in versione R&B, la miglior cover mai realizzata, che se la gioca alla pari con “With a little help from my friends”, by Joe Cocker, sempre dei baronetti.

1984” di David Bowie, dall’album “Diamond dogs”, proposta in una versione a metà tra elettronica pura e smooth jazz.

I Can’t stand the rain”, un hit soul di Ann Peebles, riscritta in chiave elettronica, che grazie anche ad un superbo remix diventa un must per i deejay dell’epoca.

Simply the best

Per quelli della mia generazione Tina Turner rappresenta un simbolo, al di là delle doti canore e della presenza scenica.

Un simbolo di forza, di coraggio, se non addirittura di eroismo. La vita tra le mura domestiche era comune a tante donne costrette a vivere con uomini violenti. Ma quasi nessuno, all’epoca, parlava di violenza sessuale, fisica, e domestica. La nostra generazione è stata quella che ha iniziato a rompere questo muro di silenzio, grazie anche a Tina Turner. L’idea che fosse sfuggita al suo destino e fosse diventata indipendente piaceva moltissimo alla gente comune.

Rappresentava qualcuna a cui dare il proprio appoggio. Per molte, qualcuna con cui identificarsi.

Musicalmente parlando, una fuoriclasse: voce sexy e potente, così personale e riconoscibile da diventare un marchio di fabbrica. “Una donna che canta come un uomo” a detta di tanti addetti ai lavori e non.

Gambe mozzafiato e fisico statuario al servizio di una presenza scenica senza eguali, esaltata da un abbigliamento che lasciava ben poco all’immaginazione.

Uno di questi “vestitini”, nero, corto, attillato e pieno di lustrini dorati, era esposto allo “Stars’n’Bars” di Montecarlo (locale che ha chiuso i battenti il 27 gennaio scorso). Non lo nego, sono stato un bel po’ di tempo in ammirazione, quasi in trance, quel giorno, a guardare quei pochi centimetri di stoffa. Un rito quasi pagano, dedicato alla più grande in assoluto.

Ed è così, che voglio ricordarla, anche se non era più così, perché gli anni passano per tutti. Come dice il mio amico Massimo Cotto: “E’ il tempo sospeso del rock dove non si muore mai davvero“.

Lele Boccardo
Lele Boccardo
(a.k.a. Giovanni Delbosco) Direttore Responsabile. Critico musicale, opinionista sportivo, pioniere delle radio “libere” torinesi. Autore del romanzo “Un futuro da scrivere insieme” e del thriller “Il rullante insanguinato”. Dice di sè: “Il mio cuore batte a tempo di musica, ma non è un battito normale, è un battito animale. Stare seduto dietro una Ludwig, o in sella alla mia Harley Davidson, non fa differenza, l’importante è che ci sia del ritmo: una cassa, dei piatti, un rullante o un bicilindrico, per me sono la stessa cosa. Un martello pneumatico in quattro: i tempi di un motore che diventano un beat costante. Naturalmente a tinte granata”.