4 Maggio, storia di una maglia (granata) che sognavo da bambino

Il 4 maggio sta diventando una data da cabala. Quest’anno il 4 maggio è sinonimo di ripartenza per la storia d’Italia. Nel 1949, quel giorno invece, in Italia tutto si fermò. Un ricordo che ho scritto tempo fa ma che è sempre rimasto nel cassetto.

Una partita a biliardo in un giorno di pioggia

Torino, 4 maggio 1949: in un bar di corso Belgio, nelle vicinanze del ponte Sassi, proprio sotto la Basilica di Superga, c’è un giovanotto ventunenne che sta giocando una partita a biliardo, con degli amici. Una partita alla “goriziana”, quella con nove omini sul panno verde, giocata tra una sigaretta senza filtro e un bicchiere di vino rosso.

Attorno al biliardo, ai tavoli, si gioca a scopa e a tresette.

La giornata è plumbea, il cielo è scuro, le nuvole sopra la città sono nere gonfie di pioggia.

I giocatori, fra un tiro e l’altro, parlano di calcio e di donne: un pomeriggio come tanti, per dei giovanotti figli di una guerra finita da poco, ma non ancora dimenticata, senza un futuro definito davanti.

Torino, ore 17.03

Improvvisamente, alle 17.03, tremano le vetrine del bar: un rombo tremendo, quasi un terremoto, che scuote giocatori e avventori.

Il ragazzo si precipita fuori dal bar e vede una enorme nuvola di fumo, nero e terrificante, che si alza alle spalle della Basilica di Superga.

Decide in un attimo cosa fare: attraversa di corsa il ponte, e si arrampica su per la collina, fradicio di pioggia dopo pochi passi. Ma non importa: ha un brutto presentimento.

Corre veloce sul pendìo: la conosce bene, quella collina, cespuglio per cespuglio, visto che spesso va da quelle parti in camporella, portandoci le ragazze.

Arriva nei pressi del muraglione che delimita il convento e si trova davanti un quadro spaventoso: fiamme, fumo, i resti roventi di un aereo, cadaveri carbonizzati e mutilati, bagagli e documenti sparsi sull’erba bagnata.

Capisce immediatamente cosa sia successo, e si sente male: un capogiro tremendo che lo fa crollare a terra.

Piange, il ragazzo, piange a dirotto, con le lacrime che si mischiano alla pioggia che gli picchia sulla faccia. Rimane così, fermo, immobile, quasi in uno stato di incoscienza, finchè non sente le prime sirene che, risalendo la collina, si stanno avvicinando.

Vuole andarsene, deve andarsene, da quel posto di morte, non ce la fa a resistere, a guardare ancora quel tremendo spettacolo. Mentre sta per girare le spalle alla basilica, nota a terra un documento bruciato ma ancora leggibile: è la carta di identità di Renato Tosatti, cronista della “Gazzetta del popolo”, quotidiano torinese.

In quel momento, il ragazzo decide cosa farà da grande: il giornalista.

Questo è il racconto di quel maledetto pomeriggio, fattomi tempo fa da uno dei più popolari giornalisti sportivi RAI: Beppe Barletti.

Ottobre 1967

Ho cominciato da poco la Prima Elementare, vado a scuola in una costruzione prefabbricata, costruita con pannelli di eternit, e in classe i miei compagni parlano solo di Juventus.

A casa lo dico a mio padre, che mi da una spiegazione caustica, tipica del torinese doc di quel periodo: non ve la dico, ma ve la lascio immaginare.

E allora, cosa che non aveva mai fatto prima, comincia a raccontarmi del Grande Torino, dello Stadio Filadelfia dove andava a vedere le partite, della maglia color granata, e di cosa voglia dire essere tifoso del Toro. Mi parla anche di un attore famoso, Raf Vallone, che ha vestito la maglia granata: un fenomeno, ma svogliato, un “plandrùn”, per dirla in dialetto torinese.

Mi affascinano quei racconti, quei nomi, Valentino Mazzola, Valerio Bacigalupo, Virgilio Maroso, e gli chiedo di portarmi allo stadio. Dapprima è riluttante, non è più andato a vedere il Toro dalla tragedia di Superga, ma insisto finchè cede.

La prima partita del Toro che vedo è quella contro la Sampdoria (4-2), il 15 ottobre, allo Stadio Comunale. L’ultima giocata da Gigi Meroni, che morirà la sera stessa, investito da un’auto in corso Re Umberto. Un segno del destino, un altro maledetto giorno di pioggia.

Orgoglio granata

Sono sincero, non sono mai salito al colle il 4 maggio. Non perché voglia distinguermi, tirarmela, o evitare di mischiarmi alla folla. Semplicemente perché non ho bisogno di quella data per ricordarmi, o per celebrare gli invincibili. Da casa mia si vede la basilica in lontananza, e tutte le volte che guardo a est, ripenso a quel maledetto pomeriggio del 4 maggio del ’49.

Vado raramente a Superga, ma ricordo tre occasioni particolari, tutte a poche ore dalla “Notte prima degli esami”.

La prima, in motorino, in occasione della mia maturità, la seconda, in macchina, per l’esame di mia moglie (cazzo, quanto eravamo giovani); la terza, in moto, quando ho accompagnato la figlia più piccola, anche lei alle prese con la prima vera prova della vita.

Una sorta di rito pagano, è vero, ma sarà la suggestione, sarà la fede, quella granata, ma Capitan Valentino e i suoi Invincibili hanno dato a me e alla mia famiglia forza e coraggio.

Nell’ultima occasione, il destino ha voluto che incontrassi Franco Ossola davanti alla lapide: ci ripenso e mi viene il groppo in gola.

4 Maggio 2020

Cosa succederà oggi, in pieno periodo di Coronavirus, non mi interessa, e non parteciperò a nessun flash mob.

Se ci sarà Urbano Cairo sul colle, mi interessa ancora meno: lui non è il Toro, è solamente il proprietario del Torino FC, e non c’entra nulla con la nostra storia e la nostra leggenda. Di quel Grande Torino, rimane un museo della Memoria Storica. Brandelli di storia strappati alle ruspe dal vecchio Filadelfia, recuperati sicuramente non grazie alle dirigenze che si sono succedute nel tempo, ma solo grazie alla passione di “Mecu” e un pugno di volontari.

Per quel che riguarda l’orgoglio granata, quello invece è tutto raccolto nel nostro inno, frutto anche qui della passione di due tifosi doc: Valerio e Silvano.

Il 4 maggio per me è questo: una giornata dolce e struggente, la celebrazione di una leggenda, il ricordo di mio padre, il ripercorrere la mia vita, come uomo, come tifoso, come marito e come papà.

Il 4 maggio è quella “maglia che sognavo da bambino“.

Lele Boccardo
Lele Boccardo
(a.k.a. Giovanni Delbosco) Direttore Responsabile. Critico musicale, opinionista sportivo, pioniere delle radio “libere” torinesi. Autore del romanzo “Un futuro da scrivere insieme” e del thriller “Il rullante insanguinato”. Dice di sè: “Il mio cuore batte a tempo di musica, ma non è un battito normale, è un battito animale. Stare seduto dietro una Ludwig, o in sella alla mia Harley Davidson, non fa differenza, l’importante è che ci sia del ritmo: una cassa, dei piatti, un rullante o un bicilindrico, per me sono la stessa cosa. Un martello pneumatico in quattro: i tempi di un motore che diventano un beat costante. Naturalmente a tinte granata”.