Il biancospino, mese di Huath nel calendario arboreo irlandese

Il biancospino, simbolo del sesto mese nel calendario arboreo irlandese

Con il biancospino, siamo giunti al sesto mese del calendario arboreo irlandese che abbiamo deciso di illustrarvi nel corso di quest’anno. Anche se oggi in gaelico si chiama sceach gheal (ovvero “cespuglio brillante”), in epoca precristiana era detto huath. Tale termine indicava il mese lunare compreso tra il 13 maggio e il 9 giugno, che seguiva quello del salice e precedeva quello della quercia. Come già detto altre volte, dal calendario arboreo derivavano pure le lettere dell’alfabeto ogamico, in questo caso la consonante H. Per gli antichi celti, il biancospino era una pianta sapienziale, perché i suoi fiori bianchi vestivano il colore sacro dei druidi. Ma era anche una specie combattiva, per il legno duro e resistente e per le bacche rosse come il manto dei guerrieri.

fiori di biancospino

Tradizioni irlandesi più recenti

Nei secoli successivi, in Irlanda il biancospino continuò a essere molto amato. Pare che, piantato vicino alla porta di casa, invitasse le fate buone a entrare e tenesse lontane quelle cattive. Occorreva, però, fare attenzione a non avvicinarsi ai cespugli solitari nel primo giorno di maggio, nel solstizio d’estate e la vigilia d’Ognissanti. Si riteneva, infatti, che queste piante isolate diventassero “fortezze fatate”, capaci di sprigionare incantesimi potenti. Un pezzetto di biancospino inserito nella fascia del cappello proteggeva i viandanti dai fulmini e dai cattivi incontri lungo la strada. Il Giovedì Santo si ponevano i suoi rami spinosi tra le travi che sorreggono i tetti di paglia, perché proteggessero dai fulmini per tutto l’anno. Nel farlo, si recitavano i versi:

Under a thorn,
Our Saviour is born.

Era convinzione comune che Gesù fosse nato tra le spine e che fosse di biancospino la corona impostagli sul capo nella Passione. A mezzanotte dell’Epifania, invece, si usciva di casa per cogliere un ramo di biancospino, quale augurio di buona fortuna.

painta con fiori bianchi e tralci versi su fondo nero

Presso gli antichi greci e romani

Nella Grecia dell’Età Classica, il biancospino era la pianta delle spose, che lo donavano alla dea Imene nel giorno delle nozze. Con altri rami, togliendo le spine, intrecciavano una ghirlanda da infilare, durante il rito, al collo del marito. Infine la torcia che ardeva presso il talamo, nella notte, doveva essere anch’essa di legno di biancospino. Rappresentava la speranza di un amore ricambiato per tutta la vita e, nel linguaggio dei fiori, conserva tuttora tale significato. Del resto, era simbolo di speranza pure per i Romani, che ne circondavano le culle dei bambini, affinché crescessero in salute.

La splendida leggenda cristiana di Giuseppe di Arimatea

Giuseppe di Arimatea è citato nei Vangeli per aver donato la sua tomba nuova per la sepoltura di Gesù, dopo la deposizione dalla croce. Quindi era suo il sepolcro in cui avvenne la Risurrezione di Cristo. Durante la predicazione, che lo spinse sino in Inghilterra, aveva un bastone da pellegrino cui appoggiarsi, ricavato dal tenace legno di biancospino. La Vigilia di Natale, giunto sulla Wearyall Hill di Glastonbury, nel Somerset, lo piantò nel terreno molle di torba e il bastone fiorì all’improvviso di candidi boccioli.

Il miracolo si ripeté ogni anno, sempre a Natale, fino a quando non venne Oliver Cromwell. Nel 1649, egli fece distruggere dai suoi soldati il biancospino di Giuseppe d’Arimatea, quale oggetto di superstizione popolare. Ma non ottenne l’effetto desiderato, perché da quel momento tutti i biancospini della zona produssero un’anomala fioritura natalizia. Si tramanda che persino il biancospino che fu piantato presso la National Cathedral di Washington fiorisse sempre a Natale, perché originario di Glastonbury.

fiori biancospino su ramo sotto cielo azzurro

Una piccola descrizione botanica

Il biancospino appartiene alla famiglia delle Rosacee ed è stato catalogato come Crataegus oxyacantha Thuil. ma è specie diffusa anche quella del Crataegus monogyna Jacq. Si ibridano facilmente tra loro, quindi non è semplice distinguerli, se non per le foglie lobate, perché nel C. monogyna i lobi sono meglio divisi. Cresce in quasi tutta Europa, nell’Africa settentrionale e nell’Asia Occidentale, in siepi e al limitare dei boschi. Può raggiungere un’altezza di una decina di metri e i suoi rami spinosi sono assai fitti. I fiori bianchi, a cinque petali (come per tutte le Rosacee), sbocciano tra maggio e giugno. Le bacche autunnali sono piccoli pomi rossi dalla polpa farinosa: nel C. monogyna contengono un solo seme, mentre nel C. oxyachanta ne contengono due.

bacche di biancospino sul ramo

Principi attivi importanti ma di recente scoperta

Al tempo dei greci e dei romani, il biancospino non destò particolare interesse terapeutico. Le sue bacche cominciarono a essere impiegate quale medicamento solo nel Medioevo. Si riteneva infatti che curassero la gotta e i calcoli renali e che fermassero le emorragie. Solo alla fine dell’Ottocento gli studi clinici, condotti negli Stati Uniti dai medici Jennings (1896) e Clement (1898), ne definirono l’azione antispasmodica a vantaggio del cuore.

In fitoterapia, è attualmente considerato il miglior cardiotonico, perché agisce anche come sedativo. Sebbene la corteccia abbia un impiego febbrifugo, e le bacche siano astringenti (in caso di diarrea), la droga è costituita dai fiori. Essi contengono flavonoidi, olio essenziale, derivati purinici, tannino, trimetilammina, manganese e acido crategico. Hanno pertanto le proprietà già indicate ma sono pure consigliati come blando ipnotico e buon ipotensore. Premesso che la cura per chi soffre di malattie cardiache deve sempre essere prescritta da un medico, il biancospino giova nel trattamento di diverse problematiche. Ne elenchiamo le principali: aritmie, tachicardia, palpitazioni, spasmi vascolari, angina pectoris, pressione alta, insonnia e acufene. Jean Valnet indicava di prepararne l’infuso come un tè, ponendo un cucchiaino di fiori essiccati per tazza di acqua bollente. È comunque un rimedio controindicato per chi ha di norma la pressione bassa.

un passero su un ramo di bacche di biancospino rosse

Un cibo antico per uomini e uccelli

Sebbene le bacche, se assaggiate, risultino al nostro palato piuttosto insipide, piacevano molto ai nostri progenitori. Prova ne sia il ritrovamento dei semi in diversi siti neolitici, segno che i pomi erano mangiati come frutti. Sono stati rivenuti, ad esempio, nei villaggi di palafitte che erano sorti sulle rive dei laghi di Annecy e Bourget, in Savoia. Nel Medioevo se ne ricavava farina da aggiungere a quella del frumento, nella panificazione. Nei paesi nordici, dove la vite è meno frequente, le bacche si facevano fermentare per preparare un vinello. E già all’inizio del XIX secolo si otteneva tramite distillazione una discreta acquavite. Se l’uomo moderno predilige frutti più appetitosi, i pomi del biancospino restano indispensabili per l’alimentazione degli uccelli. Molti passeri non sopravviverebbero ai rigori dell’inverno se non ci fossero le bacche di biancospino a nutrirli, in attesa del sole di primavera.

Maura Maffei
Maura Maffei
Maura Maffei è da trent’anni autrice di romanzi storici ambientati in Irlanda, con 17 pubblicazioni all’attivo, in Italia e all’estero: è tra i pochi autori italiani a essere tradotti in gaelico d’Irlanda (“An Fealltóir”, Coisceim, Dublino, 1999). Ha vinto numerosi premi a livello nazionale e internazionale, tra i quali ci tiene a ricordare il primo premio assoluto al 56° Concorso Letterario Internazionale San Domenichino – Città di Massa, con il romanzo “La Sinfonia del Vento” (Parallelo45 Edizioni, Piacenza, 2017) e il primo premio Sezione Romanzo Storico al Rotary Bormio Contea2019, con il romanzo “Quel che abisso tace” (Parallelo45 Edizioni, Piacenza, 2019). È a sua volta attualmente membro della Giuria del Premio Letterario “Lorenzo Alessandri”. Il suo romanzo più recente è “Quel che onda divide” (Parallelo45 Edizioni, Piacenza 2022) che, come il precedente “Quel che abisso tace”, narra ai lettori il dramma degli emigrati italiani nel Regno Unito, dopo la dichiarazione di Mussolini alla Gran Bretagna, e in particolare l’affondamento dell’Arandora Star, avvenuto il 2 luglio 1940, al largo delle coste irlandesi. In questa tragedia morirono da innocenti 446 nostri connazionali internati civili che, purtroppo, a distanza di più di ottant’anni, non sono ancora menzionati sui libri di storia. Ha frequentato il corso di Erboristeria presso la Facoltà di Farmacia di Urbino, conseguendo la massima votazione e la lode. È anche soprano lirico, con un diploma di compimento in Conservatorio. Ama dipingere, ha una vasta collezione di giochi di società e un’altrettanto vasta cineteca. È appassionata di vecchi film di Hollywood, quelli che si giravano tra gli Anni Trenta e gli Anni Sessanta del secolo scorso. Tra i registi di allora, adora Hawks, Leisen e Capra. Mette sempre la famiglia al primo posto, moglie di Paolo dal 1994 e madre di Maria Eloisa.