Il buco: il thriller Netflix come metafora del presente

“Il mondo si divide in: quelli che mangiano il cioccolato senza il pane; quelli che non riescono a mangiare il cioccolato se non mangiano anche il pane; quelli che non hanno il cioccolato; quelli che non hanno il pane”, afferma Stefano Benni, umorista, sceneggiatore e drammaturgo italiano.
Ogni singolo essere umano divide, il mondo in cui abita, in base al proprio senso critico. Galder Gaztelu-Urrutia, regista spagnolo, ha messo in scena una visione alquanto particolare. Si tratta de “Il buco”, un film originale Netflix che porta con sè, fin dalle prime scene, un ritratto accattivante e quasi crudele di uno scenario che richiama la società in cui viviamo.

Il buco: un piccolo ritratto crudele

“Ci sono tre classi di persone: quelli di sopra, quelli di sotto e quelli che cadono”.

Sono queste le parole con cui il film ha inizio. Un thriller insolito che, per quanto crudo, porta con sè un messaggio chiaro e diretto in cui non sembra così difficile immedesimarsi. Al centro della scena una prigione insolita disposta in modo verticale su più piani, ognuno dei quali ospita solamente due persone.

Ma la domanda sorge spontanea: quanti piani ci sono?

Tranquilli, niente spoiler! “Il buco” merita di essere visto per lasciare tutti con il fiato sospeso. Ogni giorno, per una sola volta in 24 ore, ogni piano dell’altissima torre ha l’onore di ospitare “la piattaforma”.

Piano 0. Una tavola perfetta e ben curata nei minimi particolari. Piatti di ogni tipo. Antipasti, primi, secondi, dolci e vino. Solamente due minuti per ogni piano.

Ma la vera domanda è solo una: quelli dell’ultimo livello riusciranno ad alimentarsi? Un grosso enigma per cui vale la pena di guardare il film fino alla fine senza soffermarsi su una trama che sembrerebbe, a primo impatto, ripetitiva.

E se fosse questo il famoso girone dell’inferno?

Per molti, questo thriller, richiama la memoria del noto Inferno dantesco. Ma è doveroso, però, mettere in luce delle differenze alquanto profonde.

Inferno di Dante. Da sempre descritto come un enorme voragine a forma di imbuto. Un regno sotterraneo, strutturato a cerchi che si stringono sempre di più man mano che si procede verso il basso.
Ricordate il motivo? Semplicemente perchè scendendo, il numero dei dannati andava sempre più diminuendo.

Ma nel Buco funziona diversamente. I piani non variano nè nella dimensione tantomeno nel numero di residenti. Per Dante, la posizione delle anime seguiva la tendenza del male e il modo in cui esse avrebbero peccato.

“Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’eterno dolore,
per me si va tra la perduta gene”.

Ed è grazie a questi versi che possiamo notare un’altra grande differenza. La destinazione raggiunta nell’inferno era eterna e permanente. Nel Buco allo scattare di ogni mese si cambia di piano, ma soprattutto la posizione non è determinata dalla gravità ma dalla casualità.

Ed è per questo, infatti, che il film rappresenta uno dei temi più cruciali: la corsa alla sopravvivenza.

Uno scenario che ci fa quasi pensare alla società in cui viviamo. Nell’inferno verticale, quindi, nessuna traccia della Legge del Contrappasso.

Ma allora come si sopravvive veramente?

Difficile rispondere. Il Buco si distingue da una tradizionale prigione per il semplice fatto che ospita tutti, colpevoli e non. E’ per questo, inoltre, che non vi è alcuna distinzione nel trattamento offerto. Possiamo dire quasi si tratti di un universo punitivo in cui non ha importanza la vita che si è condotta prima di varcare la soglia.

Un’altra grande differenza c’è. Ognuno di loro decide di portare con sè un oggetto differente. Ogni elemento merita la giusta attenzione. Quindi, se non lo avete ancora visto, addentratevi in un film dal finale inaspettato.

La morale, quindi, qual è?

Da sempre, Dante insegna che vi è un giusto tempo per liberarsi da una colpa, ma che scade insieme al nostro ultimo respiro. Il Buco è un meccanismo perfetto in cui il cibo è sufficiente per tutti purchè venga distribuito in modo equo. E’ per questo che, nonostante tutto, la prigione verticale lascia spazio alla speranza e perchè no, anche al riscatto!

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Arianna Pino
Arianna Pino
Autrice del libro “Resta almeno il tempo di un tramonto” e di “Quando fuori piove”, finalista al concorso letterario “Il Tiburtino”. Iscritta all’ Università delle scienze e tecnologia del farmaco. Dice di sé:“Sono nata in città ma vivo col mare dentro. Ho occhi  grandi per guardare il mondo, ogni giorno, con colori diversi. Ho la testa tra le nuvole ma cammino su strade fatte di sogni pronti a sbocciare, mi piace stupire come il sole, quello che la mattina ti accarezza il volto e ti fa ricordare che c’è sempre un buon motivo per alzarsi. Amo la pizza, il gelato e la cioccolata calda perché io vivo così, di sensazioni estreme, perché a vent’anni una cosa o gela o brucia. Mi piace vivere tra le parole che scrivo, che danno forma alla mia vita come i bambini fanno con le nuvole”.