Il silenzio degli innocenti: gioco o fiction, un altro tragico suicidio

Un altro tragico suicidio di un ragazzo, un silenzio spezzato da un ultimo post sui social.

Avrei voluto iniziare con un profondo silenzio se si fosse trattato di un servizio televisivo. Quel silenzio, che sfortunatamente incombe nei corpi e nelle case di molte famiglie.

Brutta bestia il XXI secolo. Sì, ora voglio affermarlo con arroganza, voglio romperlo questo silenzio. Voglio entrare in scena.

Il suicidio diventa fiction

“Tredici”. Serie tv statunitense marchiata Netflix, protagonista Hannah Baker, una ragazza che trova nell’autolesionismo l’unico rimedio al malessere. Malessere causato dai problemi adolescenziali, dalle etichette che i suoi coetanei le attribuivano.

Tredici, come il numero delle cassette da lei lasciate prima della sua morte. Le chiude tutte in una scatola pronte per essere recapitate a tutti i suoi amici, che uno alla volta le ascolteranno sormontati da una marea di dubbi. Amici che in qualche modo l’hanno ferita, creando quei famosi malesseri. Tredici cassette in cui racconta tutti i motivi che l’hanno portata al suicidio.

Nell’ultima cassetta, Hanna Baker dà il suo addio.

Blue Whale

2016. “Blue Whale”, nota come “La balena blu”, il macabro gioco che si è diffuso come un virus, in diversi paesi, sui social network.

Tante notizie, articoli di giornale, programmi televisivi e poi di nuovo il silenzio, come se stando zitti il problema si risolva o addirittura cessi di esistere.

Notizie vere poi trasformate in fake news, video che testimoniano l’accaduto per poi sentir rivelare “Era tutto un montaggio”. Interviste di madri che piangono i loro figli, volti di ragazzini che resteranno per sempre dei ragazzini. Dubbi su dubbi. Ma il vero problema non è la balena, ma il gesto estremo compiuto da chi non ha mai avuto il coraggio di parlare. Questa famosa “Blue whale challenge”, per chi non ne ha mai sentito parlare, comprende 50 regole sottoscritte da un curatore.

So cosa starete pensando, qui è tutto surreale e alquanto spaventoso direi. So anche che quella parola ha un significato ben preciso, lo sappiamo tutti.

No, a pensarci bene non proprio tutti ci attribuiamo lo stesso significato. In questo gioco, il curatore, è colui che ti aiuta a morire, colui che sostiene che il suicidio sia l’unico modo per vivere. Cinquanta regole, cinquanta step per arrivare all’ultima, la più importante:

Saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.”

E un altro ragazzino è saltato nel vuoto. Game over.

il viso del protagonista della serie tv "tredici", con la cuffia in testa, in silenzxio con le parole ritagliate da un giornale you couldn't save me sta per compiere il suicidio

Il silenzio degli innocenti

Desidererei del silenzio, anche qui, come se si trattasse sempre di quel famoso servizio televisivo di cui parlavo prima.

Un adolescente, un ragazzo, Alex (così lo chiameremo per rispetto alla famiglia) qualche giorno fa si è buttato da un palazzo. Prima del suicidio, un solo messaggio sui social, un grido muto che echeggerà per sempre.

Ma perchè?

Inaspettato, sorprendente, macabro. Un gioco? Un’influenza negativa di una stupida serie tv? O solo un gesto di un ragazzo chiuso nella sua solitudine? Risposte che i genitori di Alex non avranno mai.

Hikikomori

Del silenzio per far riflettere, per poi riprendere a parlare e dire che non finisce qui, che tempo dopo si è incominciato a parlare degli Hikikomori. “Stare in disparte, isolarsi. Termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento.”

Fenomeno nato in Giappone già nella seconda metà degli anni ottanta, ma che poi ha incominciato a diffondersi nell’attuale secolo negli Stati Uniti e in Europa.

Ciò che porta una persona a questo isolamento, sono problemi personali e sociali di varia natura, soprattutto appunto in Giappone, paese caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da troppa protezione da parte della madre, ma soprattutto il grande peso della società che fin dall’adolescenza sottopone l’individuo all’autorealizzazione e al successo personale come unico obiettivo nella vita.

I giochi dell’orrore

Ma di quanti giochi dell’orrore e fenomeni bisogna parlare per sensibilizzare un gesto così estremo?  Del suicidio non si parla, non come si dovrebbe. Io li ricordo gli anni di scuola, quelli magari un po’ più difficili da affrontare, quelli in cui era difficile comprendere gli ostacoli di un’età non semplice. Tutti siamo stati adolescenti, tutti abbiamo una “giornata no”, un momento triste. Perché sarebbe stato più semplice se qualcuno ci avesse insegnato che non è il raggiungimento di un’età a determinare la felicità. Che non è circondandosi di gente che si diventa felici per sempre, non se magari quelle persone ti fanno pensare di essere diverso anziché speciale.

Perché vi dirò che ci si sente soli anche in mezzo ad una marea di gente. Ma sapete cos’è? Che nella vita c’è chi è un po’ più forte e chi un po’ più speciale. C’è chi capisce subito di non essere solo e chi invece non riesce a fidarsi neanche più di se stesso. E qual è il problema? Il silenzio.

Il silenzio non fa domande

Ernst Ferstl, uno scrittore austriaco diceva “Il silenzio non fa domande, ma può darci una risposta a tutto.” Ed io ho incominciato a capirlo crescendo. Scommetto che capita anche a voi di incontrare per strada amici o conoscenti che vi salutano chiedendovi come stai, ma non ascoltano la risposta.

Provate solo a rispondere tu com’è? e vedrete che iniziano a parlare di sè, senza rendersi conto che non avete risposto alla loro domanda. Non a tutti importa della risposta, andar di fretta sembra più importante che fermarsi ad ascoltare. Nella vita nessuno dovrebbe avere chi chiede come stai mentre ha già voltato le spalle per allontanarsi.

Non è il frastuono delle parole a dar fastidio, ma quello del silenzio, che non fa mai lo stesso rumore.

Tutti iperconnessi in un mondo in cui un post ha più importanza della voce. Un’era in cui quando si avverte una sofferenza la si sfoga sui social, senza pensare alle conseguenze e ai giudizi da parte di chi non sa capirti, anziché ad una persona che svolge un mestiere adatto ad ascoltare ed aiutare. Genitori, amici e parenti che, scorrendo la home dei social, si accorgono degli addii regalati ad un mondo virtuale perché forse quello reale non sentiva abbastanza bene.

Forse perché andare di fretta era più importante che restare ad ascoltare quel sottile “Bene, ma ho bisogno di aiuto.” E il suicidio diventa la soluzione.

foto in bianco e nero che rappresenta metà volto di una ragazza in cui si vedono solamente il naso e la bocca. ques'ultima è serrata da due pezzi di scotch messi a formare una croce con davanti il dito indice che invita a fare silenzio, come a voler nascondere il segreto di un suicidio

Riposa in pace

Non importa che sia una serie tv o un gioco generato dalla mente di un folle. Il suicidio è un fenomeno che dilaga tra gli adolescenti, anche senza partecipare ad un sadico gioco. Sta diventando un fenomeno comune, come se questa fosse l’unica soluzione ai problemi. L’ultima richiesta d’attenzione che rompe il silenzio. Si, perchè non tutti esprimono il loro disagio, e le famiglie molto spesso sono sorde e cieche e non riconoscono i segnali chiari ed evidenti di una depressione.

Poi però diventa importante chiedere “quanti anni aveva?”

Come se l’età fosse un pretesto per morire. Come se, un suicidio a 50 anni sia più giustificato che a 20, e, quindi, più interessante sapere cosa abbia portato quella persona ad una via senza ritorno. Ed io invece vorrei sapere perché è così tanto importante. Come se ci fosse un’età giusta per essere aiutati.

Vite in silenzio

Chi sceglie di andar via in silenzio, spesso lascia in chi resta solo tanti interrogativi, mentre il messaggio più importante è che quella persona avrebbe dovuto vivere in pace e non riposare. Non si riposa in eterno, non si riposa in una piccola parte di cielo. Si dovrebbe riposare nel proprio letto, stanchi dopo una lunga giornata, accanto alla persona che ami, tra le braccia di mamma e papà se sei ancora piccolo, anche se non si è mai abbastanza grandi per un abbraccio della tua famiglia pronta a proteggerti da tutto.

Bisognerebbe imparare a capire che parlare di argomenti delicati come questi, non induce una persona ad alimentare un pensiero magari già presente nella mente da tempo, ma che può semplicemente portare ad un “ricalcolo percorso” e rimettersi sulla via di casa.

Arianna Pino
Arianna Pino
Autrice del libro “Resta almeno il tempo di un tramonto” e di “Quando fuori piove”, finalista al concorso letterario “Il Tiburtino”. Iscritta all’ Università delle scienze e tecnologia del farmaco. Dice di sé:“Sono nata in città ma vivo col mare dentro. Ho occhi  grandi per guardare il mondo, ogni giorno, con colori diversi. Ho la testa tra le nuvole ma cammino su strade fatte di sogni pronti a sbocciare, mi piace stupire come il sole, quello che la mattina ti accarezza il volto e ti fa ricordare che c’è sempre un buon motivo per alzarsi. Amo la pizza, il gelato e la cioccolata calda perché io vivo così, di sensazioni estreme, perché a vent’anni una cosa o gela o brucia. Mi piace vivere tra le parole che scrivo, che danno forma alla mia vita come i bambini fanno con le nuvole”.